Hacca
2010
9788889920558
«Se il mondo in cui siamo vissuti era centrato sulla repressione politica, quello di oggi si basa sulla repressione economica. Sono due facce della stessa medaglia. Entrambe ci controllano e ci riducono in sudditanza; cercano di trasformarci in schiavi e macchine che reagiscono a ordini prestabiliti. Entrambe ci lavano il cervello in maniera altrettanto perfida e ci alienano con altrettanta efficacia […]. I nostri compromessi di oggi sono identici a quelli che facevamo in passato». Vasile Ernu, artista rumeno classe 1971, nato e cresciuto sotto l'egida dell'Unione Sovietica, nell'allora Bessarabia, non ha dubbi: tornare a ricordare il passato suo e del suo popolo non è così atroce e disperante come si potrebbe pensare, è piuttosto ragione di una certa nostalgia.
"Nato in URSS" (Hacca, euro 14, pp. 326), sua provocatoria opera prima, è il memoir di un quarantenne che scrive nella piena consapevolezza d'essere stato testimone di un regime totalitario che considera piuttosto «uno dei progetti più utopici dell'umanità»: di quel regime ha conosciuto apogeo e improvviso declino, in quel regime è stato cittadino orgoglioso. Ernu si considera un «prodotto made in Urss», e ha nostalgia di casa: ma casa sua non più esiste. Per l'homo sovieticus non c'è più un luogo in cui tornare: il passato s'è fatto letteratura. Per questa ragione è appena meno sconcertante del previsto interiorizzare le pagine d'un testo che si propone come un romantico amarcord di qualcosa che per molti popoli è stato un incubo: è chiaro che Ernu non ha nessuna voglia di rispettare i milioni di morti caduti per mano della sua vecchia nazione, e non ha nessuna intenzione di rispettare la sofferenza di quei popoli, come il popolo ucraino, polacco, magiaro, afgano, come i popoli baltici, che hanno vissuto la perdita dell'autonomia o dell'indipendenza e l'esperienza della sovietizzazione come una parentesi terrificante. Ma Ernu non è uno storico. Ernu è un polemista.
Ernu è un narratore non più giovane che ha nostalgia della sua adolescenza e della sua giovinezza, del mondo che ha conosciuto e di ciò che ha rappresentato, nel bene e nel male: degli oggetti che incontrava allora, e di cui si serviva, e dell'economia in cui era cresciuto e s'era formato, perché la trovava più onesta e giusta. «Oggi abbiamo sigarette, alcool, tanto da mangiare, ma è svanito il pathos, lo spirito sublime, lo spirito di giustizia. È diventato tutto una specie di vodka analcolica», scrive. Un approccio lucido e onesto a questo libro pretende un lettore capace di guardare con la dovuta pietà, la dovuta intelligenza e la dovuta sensibilità a tutto ciò che è passato, è caduto, è morto: il lettore ideale di “Nato in Urss” non è un cinico, e non è un nostalgico. È un osservatore delle cose del mondo sensibile e ironico, curioso e onesto. A questo lettore piacerà leggere frammenti d'un'opera che può parlare a tutti, non soltanto agli ex comunisti, non soltanto ai socialdemocratici più sensibili a certe dinamiche e certe possibilità. Può parlare a tutti perché, ad esempio, ricorda quanto è bello e importante conquistare qualcosa passo dopo passo: è vero che il consumismo figlio del turbocapitalismo ci ha tolto uno dei piaceri più grandi, vale a dire «il piacere di possedere delle cose ottenute con fatica». È altrettanto vero, aggiungerei, che la possibilità di poter avere qualsiasi cosa a condizione di potersi indebitare è stata, da questo punto di vista, ulteriormente disastrosa, e in molti sensi.
Ernu riesce, nella sua apologia del socialismo sovietico, a ricordarci quanto è importante non cadere nell'inganno della necessità dell'acquisto delle cose superflue: in un periodo di furibonda recessione economica come questo, i nostri compatrioti hanno bisogno di tornare a essere educati al culto dei sacrifici, delle fatiche, dei risparmi pur di avere il diritto di comprare qualcosa o di poter accedere a certi servizi più ludici che essenziali. Non solo: quando l'artista rumeno scrive che all'epoca «i soldi non ci interessavano, avevamo scopi di gran lunga più nobili, come l'uguaglianza, la fratellanza, la pace, la libertà, mentre l'accumulo di capitale era un intento meschino proprio della borghesia capitalista», ci ricorda quale può essere una visione del mondo più giusta e più sensata, e quali i principi su cui fondare un sistema diverso, in futuro. Peccato non siano stati quelli della sua Unione Sovietica, che tutto ha rappresentato fuorché un'oasi di pace e libertà, figuriamoci di fratellanza. Ma quei principi devono tornare a ispirare i nostri contemporanei. Diciamo, col filosofo Slavoj Žižek, che la scintilla utopica non può e non deve spegnersi, quali che siano le nostre convinzioni politiche: se i vecchi marxisti hanno pieno titolo di tornare a meditare sul loro passato, non per ripetere Lenin, ma per «ripetere i suoi tentativi mancati, le sue possibilità perdute», noi, che marxisti non siamo mai stati, abbiamo il dovere morale – e ne sentiamo la necessità sempre di più, ogni giorno che passa – di andare in cerca di nuovi paradigmi culturali, economici ed esistenziali improntati a principi nobili e più giusti. Più umani.
Vasile Ernu crede che il comunismo sia la soluzione, ancora adesso. Forse è questo il grande limite della sua ricerca e del suo pensiero: che rimanga uncinato a un passato antico, sbagliato e sanguinario. «Il comunismo si è fermato, non si è concluso», scrive, ribadendo che sono stati i sovietici a fermare il comunismo, e non certo gli occidentali. Diciamo che in più d'un frangente Ernu sprofonda nella sua visione da Homo Sovieticus. Un esemplare di Homo Sapiens leggermente diverso: diciamo così, un'altra razza. Questa: «Egli è una coscienza superiore, ne è fortemente convinto, per cui odia gli interessi meschini e materiali. Verità, Giustizia, Libertà, Sincerità sono ideali per cui darebbe la sua stessa vita. È una creatura complessa, le sue virtù non hanno a che fare con la morale, ma solo con gli ideali. Il suo presente è collocato nel futuro, futuro che non si intravede ancora». E poco importa se viva nell'era del capitalismo selvaggio: l'homo sovieticus non dimentica che il mondo va cambiato, e che il suo antico sogno può tornare a incarnarsi.
“Nato in Urss”, uscito in patria nel 2006, ha ottenuto diversi riconoscimenti: si va dal Premio dell'Unione degli Scrittori Romeni a quello della rivista România literară, sino al Premio Book Pitch alla London Book Fair nel 2007. Sin qua è stato tradotto in Russia, Bulgaria e Spagna; sta per uscire in Ungheria e Georgia. Una delle ragioni della sua fortuna sta nella sua onestà, e nella sua franchezza: Ernu non nasconde d'essere ciò che è, non rinnega e non abiura il suo passato o i suoi ideali, e dà vita a uno spaccato comunque degno di meditazione. Ma la ragione principe della fortuna dell'opera è nella sua poesia delle piccole cose della vita quotidiana d'una società sparita. È come se “Nato in Urss” fosse, come intelligentemente osserva la curatrice, Anita Bernacchia, un mosaico fatto di parole-concetto che hanno il sapore della «piccola madelaine»: sono i tasselli virtuali di una terra che non c'è più, ma è rimasta viva nella lingua e nella cultura dell'epoca. E allora avanti a riscoprire Gagarin e la sua parola d'ordine, le prime žvačka da masticare, i cocktail insegnati da quel pazzo di Erofeev: avanti in quegli anni Settanta, a guardarli da un'altra prospettiva. Quella in cui «il salame ce l'avevamo, lo pagavamo solo due rubli e venti, latte e kefir li avevamo, il pane costava poco, e di vodka ce n'era quanta volevamo. Eravamo nel periodo in cui il nostro unico avversario rimasto erano gli USA, e ci giocavamo la grande finale. Mancava tanto così e avremmo espugnato quest'ultimo bastione del male. Durante le feste bevevamo spumante Sovetskoe, mangiavamo arance, e la produzione di film era fiorente. Eravamo orgogliosi e felici della nostra Patria. Di tanto in tanto si profilava qualche problemuccio fastidioso, come il non trovare sempre posto al ristorante, e il fatto che per avere i mobili i nostri genitori dovevano iscriversi su certe liste d'attesa. Ma cos'era, poi, tutto questo, davanti ai nostri grandi risultati!».
Già: nel periodo sovietico, la pubblicità coincideva sempre con la propaganda. Non vendeva prodotti, ma ideologia. Secondo Ernu, vendeva al suo popolo il proprio stile di vita: la propaganda, in altre parole, faceva pubblicità a sé stessa. Il risultato si può leggere in questo libro: made in Urss, ma negli anni Dieci. Del nuovo millennio.
EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE
Vasile Ernu (Urss, 1971), polemista e scrittore rumeno, originario della Bessarabia.
Vasile Ernu, “Nato in URSS”, Hacca, Matelica, 2010. Traduzione di Anita Natascia Bernacchia. Copertina di Maurizio Ceccato.
Prima edizione: “Născut în URSS”, 2006.
Approfondimento in rete: sito ufficiale del libro / sito ufficiale di Ernu
Gianfranco Franchi, gennaio 2011.
Prima pubblicazione: Lankelot.
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SEMPRE A PROPOSITO DI "NATO IN URSS"...
Cosa significava essere bambini, adolescenti e ventenni vivendo sotto l'Unione Sovietica? Come viveva un ragazzino della Bessarabia, negli anni Settanta, Ottanta e Novanta? Come immaginava fossero i suoi coetanei dell'altro blocco, vale a dire noi occidentali? Troverete le risposte a queste e ad altre simili domande nell'impressionante memoir di Vasile Ernu, scrittore rumeno classe 1971, pubblicato da Hacca nell'ottima traduzione di Anita Bernacchia: "Nato in U.R.S.S." non nasconde la nostalgia per una vita che sapeva fondarsi sull'essenzialità, sullo spirito di sacrificio, sulla solidarietà.
Ernu è un letterato: non è uno storico, e in questo frangente, in ogni caso, non è un saggista. La sua è un'autobiografia romanzata, d'un individuo e d'una generazione, e allora non diventa necessario prendere le distanze da tutta una serie di rovinosi disastri e di errori commessi dai propri connazionali, e dal proprio governo: Ernu è libero di raccontare quanto è stato bello conoscere la povertà (non la miseria, che è ben diversa e distante cosa: la povertà) e condividere con tutti i propri coetanei un mondo in cui si provava la gioia oggi sostanzialmente inimmaginabile di conquistarsi qualcosa man mano, con l'andare del tempo, e si aveva la sensazione di essere parte di un progetto che nasceva, con tutti i suoi assurdi limiti e tutti i suoi mortali difetti, per andare a costituire un paradigma di forma statale nuovo, più giusto e più umano.
Ci si emoziona, complice la ciclopica distanza chilometrica e la plausibile differenza culturale, e si riesce, condividendo sentimenti e sensazioni dell'autore, addirittura ad accettare la sua tolleranza della dialettica tra censura e creatività: immaginate un libro qualunque in cui qualcuno obietta “Ma la libertà si assapora fino alla fine solo quando intervengono limitazioni forti che la contrastano”, o immagina che da questa dinamica verranno “nuovi meccanismi di produzione culturale, una nuova etica sociale, una nuova visione del mondo”, e sappiate che vi sembrerà un discorso ragionevole, o almeno nient'affatto delirante, diciamo così. Da meditazione, che ci abbiate creduto o ci crediate o meno. Personalmente, da “o meno”, sono rimasto incredibilmente toccato da questo libro.
Gianfranco Franchi, febbraio 2011.
Prima pubblicazione: BlowUp
Memoir di un quarantenne che scrive nella piena consapevolezza d’essere stato testimone di un regime totalitario che considera piuttosto «uno dei progetti più utopici dell’umanità»…
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