Coniglio Editore
2009
9788860631725
“Mo sto bene”, annuncia Acitelli in apertura. Mo sta bbene perchè ha cantato altre 26 storie di Roma: più vicine alla poesia in prosa, ritmiche ballate come suonano, rispetto alle precedenti apparse in “I vecchi esultano la sera”. L'ala destra svela retroscena micidiali, raccontando – a metà tra storia, letteratura, antropologia, sociologia minima – pezzi di vita della Città Eterna, e del suo paesaggio; dei suoi palazzi, e delle sue abitudini. Mi piace cominciare dall'incipit di uno degli ultimi racconti, “Buoi nella campagna romana”, per aiutarvi ad addentrarci nel testo:
“Dopo piazza Re di Roma viveva il popolo. Quello minuto e quello minutissimo. Ma il popolo si rifugiava egregiamente in case approssimative, costruite con poco, così ben risolte nel verde e sotto il sole dell'Appia e della Tuscolana. Pure, quel popolo sognava l'assegnazione della casa d'un Ente o ancora quaranta metri quadrati nelle case della Cooperativa dei Ferrovieri, recintate abitazioni con tanto di giardino e quiete” (p. 142).
Ecce la vita del popolo romano negli anni Sessanta: quella che sta per tornare, semplice e spartana, chiassosa e stravagante, orgogliosa e povera. Sognando case magari “a riscatto”, da comprare, un bel giorno, dopo una vita di sacrifici e di dedizione alla famiglia e al lavoro; accontentandosi di piccole cose; svagandosi come si può, con giochi semplici, d'azzardo d'accatto, anche, magari in qualche bisca. Parlando un dialetto tagliente e cinico, disperatamente vivo e divertente. Sorridendo romanamente al sole, nostro padre.
Il cinema – meglio: il dietro le quinte dei cinema, delle sale cinematografiche – è uno dei temi fondanti dell'opera. C'è il cinema parrocchiale – ben diverso dai malridotti colleghi della “terza visione”, protagonista di “Funny Girl”; c'è l'imprevista rivelazione sui segreti e duttili talenti delle sale d'antan (complice la generosità di un proiezionista) in “Esortazione all'uomo del cinematografo”, e la riuscita elegia di Elvira, cassiera del cinema Impero: “Ultimo spettacolo”: siamo nel '63. La ragazza stacca, a fine serata, e prende il bus. Rientra – silenziosa – a casa, assieme a sua mamma, dopo essersi rifatta il trucco (per una cosa da niente: ma il decoro borghese è dignità, va rispettato). Scendendo s'innamora di un angolo di città, prima di Portonaccio:
“Giaceva in una desolazione a dir poco poetica: il deposito degli autobus, i capannoni di gommisti, mobilieri, stracciaroli, lo sfacio delle automobili in un terreno la cui recinzione era sbracata in più punti. E poi casupole su montarozzi e stentate costruzioni (…). Alle spalle, gli edifici nuovi in cui – come si sentiva dire – sarebbe andata a vivere gente ricca” (p. 18). Quanto basta per sognare un futuro meno compromesso. Basta poco.
Ancora vicende di umanità gentile, povera e sconosciuta in “Il silenzio d'uno scantinato”, storia di un vecchio ammalato di cuore che sbirciava la vita dal seminterrato, e ne “La branda del biscazziere”, dietro le quinte d'una bisca, e della vita del sessantenne che sempre l'animava; ne “Il bambino”, invece, racconto dell'esperienza di un fagottino che accompagna il padre al lavoro (e gioca con una gomma Pelikan, cercando di capire cosa stia succedendo”. Tragicommedia della disoccupazione in “Un posto di lavoro”; una partita a biliardo per non pensare che il famoso contratto non arriva mai, e intanto il tempo passa e la vita te la devi inventare. Un mestiere ormai svanito – quello, relativamente pacioso e quieto, del bigliettaio sul bus – in “Il deposito dei tram”. Figure ben note, invece, omaggiate da nuovi nomi di battaglia in “Un mattino del '63”, laddove leggiamo:
“Fuori del salone c'erano quegli individui che solitamente vengono definiti 'langoni' o anche 'stangapiazza', vale a dire uomini eternamente stanchi pur essendo degli scansafatiche, che erano lì per non essere già ai biliardi” (p. 115). Lunga la tradizione dei perdigiorno. Lunga e antieroica.
Oggetti protagonisti nei teneri amarcord minimalisti de “Il portadocumenti” e del “Transistor”, e nel toccante “Miracolo dei pastelli Giotto”: il bambino più povero della classe si emoziona riscoprendo la sua collezione di mozziconi di matite colorate – quelle mitiche, in molti le ricorderete, che una volta venivano vendute in una scatoletta illustrata. La fantasia si serve di mezzi da niente, e colora pagine che durano per sempre.
Acitelli rispolvera le tremende “Caramelle Rossana”: a quanto pare era un aficionado di quel dolcetto che io, nato negli anni Settanta, ricordo protagonista delle case delle signore un po' in là con gli anni, elargito a piene mani a noi bambini, quando capitava (ne avevano sempre una gran quantità, in borsetta o sui tavolini. Mai capito perché). L'occasione è malinconica – il ricovero del padre di un amico – ma l'epilogo non è niente affatto cupo. Intanto i vecchi giradischi suonano Je t'aime moi non plus: qualcuno preferirebbe ascoltare Claudio Villa o la Caselli, il piccolo Fabio è contento così: che dicano pure che “Miagola Jane Birkin”. È un bambino sveglio. Jane Birkin può miagolare quanto vuole.
I ragazzi leggono fumetti come “Diabolik”, “Kriminal”, “Kinowa”, “Satanik”, “Capitan Miki”, “Il Grande Blek” e riviste come “L'Intrepido” e “Il Monello”, scopriamo ne “Il sogno di Sandrino, e se le giocano sotto i portoni.
Avanti. Ecco “Un luogo per amare”: è uno spaccato della pruderie della piccola borghesia d'antan; Liliana è felice di poter andare dalla sarta perché così esce dal suo quartiere e va fino alla Casilina. Scopre che la sarta affitta stanze a ore: finalmente potrà avere la libertà di stare assieme al suo amante. S'è sposata per comodità, adesso sente di appartenere a un uomo per davvero. Galeotta sarà la Casilina.
Parentesi politica: “L'altoparlante monarchico”, laddove ci addentriamo in un “distretto di case scorticate”, assieme a una Fiat Multipla, per la borgata Gordiani; siamo in compagnia degli attivisti (a pagamento) dell'Unità Monarchica, in missione per le borgate Quadrato, Tor Pignattara, Acqua Bullicante. I due tizi taglieranno la corda, una volta capita la mala parata, ben contenti di potersene tornare a casa, consci del loro mercenariato e delle preferenze politiche del popolo. Succede.
Non poteva mancare – è pur sempre un'opera del poeta padre della “Solitudine dell'ala destra” - qualche pagina dedicata al calcio (di periferia): è il caso di “Una manovra gracile”, omaggio alle vecchie squadre romane dell'Alba e dell'Artiglio e a quei bambini che i mister non facevano giocare mai. Quanti piccoletti sono rimasti feriti dalle scelte dei loro allenatori; eppure in palio non c'era proprio niente.
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Nella (lirica) bandella, leggiamo: “Una filologia degli anni Sessanta, ovvero un affresco di perdigiorno, esistenze febbricitanti, uomini da 'terza visione', sognanti cassiere di cinema all'ultimo spettacolo (…) Una Roma popolana e sbracata. Un'umanità offesa e mai risarcita, fatta di uomini di eleganza povera e donne che emigrano di quartiere per amare. Una Roma di cortili storti e silenziosi, di ballatoi, di scantinati (...)”. Un libro – aggiungo io – che non si può non amare.
EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE
Fernando Acitelli (Roma, 1957), poeta, scrittore e giornalista romano. Ha studiato Lettere Moderne alla Sapienza e Filosofia alla Pontificia Università Lateranense. Scrive sul “Messaggero”.
Fernando Acitelli, “Miagola Jane Birkin”, Coniglio, Roma 2009. Collana “Descantabaucchi”. In copertina, foto di Fulvio Bernacchia.
Gianfranco Franchi, Giugno 2009.
Prima pubblicazione: Lankelot.
“Mo sto bene”, annuncia Acitelli in apertura. Mo sta bbene perchè ha cantato altre 26 storie di Roma.