Einaudi
2006
9788806184445
Questo romanzo sconcerta e ferisce; sconcerta e ferisce perché rappresenta, senza nessun filtro, etico o artistico, lo spirito di certa parte della nuova generazione. La prospettiva della narrazione è sostanzialmente falsata rispetto a quella del lettore medio; ma questo non dovrebbe rasserenare, al contrario, anzi: dovrebbe allarmare. Allarmare proprio per via del fatto che la prospettiva della narrazione è quella di una upper-class, di una high-society vissuta da un gruppo – e, per l’ennesima volta, viene da pensare ad una parola meno neutra di gruppo, la parola “branco”, parola che connota con maggior chiarezza certe attitudini animalesche della nostra specie: un gruppo di giovanissimi californiani, inseriti, o in attesa di inserimento definitivo, nel grande circo del sistema dello spettacolo. Si presume che una classe sociale tanto agiata e tanto volgarmente favorita dalla società non debba affrontare particolari difficoltà esistenziali o spirituali: si presume che, dalla vantaggiosa posizione in cui si trova, non abbia necessità di evadere dalla realtà, né di corrompersi.
“Meno di zero” racconta, senza imbarazzanti ellissi e senza filtri borghesi, la decadenza e la dissolutezza di questa classe sociale: l’eclisse di una generazione annoiata e svuotata dall’agiatezza e dal benessere, il suo odioso imbastardimento derivato dal grossolano e facile consumo di alcolici e di droghe, e infine la sua aberrante morte in vita, originata dall’insensatezza dei “ruoli” assegnati e dall’aporia di ideali. L’abulia morale dei protagonisti del romanzo sembra indurli a precipitare in una ricerca sfrenata e licenziosa non certo di sentimenti, ma di sensazioni: abominevole crollo in una realtà tutta istintuale e affatto cerebrale, animalesca sino al parossismo – celebrazione di una “gioiosa violenza” e di un “allegro annichilimento” che consiste in una ostinata vocazione al consumo delle droghe, in una torbida e gretta sensualità, in una contemplazione della lussuosa fatiscenza del sistema – contemplazione priva non solo di spirito critico, ma addirittura, in un certo senso, di una visione. Il gruppo di giovani californiani, partoriti da Hollywood, e da hollywoodiani vizi cresciuti, non tenta neppure una lettura della propria condizione o della propria situazione: marcisce, imputridisce, nella danza macabra del trionfo della propria decadenza e del proprio stordimento. Spaventa la licenziosità degli spiriti dei protagonisti di “Meno di zero”: la loro assoluta carenza di punti di riferimento, eccettuati gli idoli di carta e gli idoli visivi – Mtv ridotta ad una tempesta di immagini, senza audio; passano come spot pubblicitari i video dei musicisti, e come spot pubblicitari vengono interiorizzati e metabolizzati. La musica è scomparsa: è una sequenza di immagini, o un poster; o un tenue accompagnamento da ascensore, svuotato di significato e di senso. Musica dunque ridotta ad un oggetto – e addirittura, ogni altra forma d’arte è del tutto assente.
In compenso, il branco di giovani alto borghesi gode del sogno d’eterna appartenenza o di ulteriore miglioramento della propria posizione in quella società festosa e maleodorante: non esistono più scrupoli né rispetto, in compenso esistono p.r. che offrono l’invito giusto alla festa giusta, pusher che spacciano cocaina ben tagliata e agenzie pubblicitarie che promettono fortuna in cambio di (pattuita e accettata) prostituzione.
La realtà descritta dal promettente scrittore americano Ellis è dunque stomacante e avvilente: fatiscente e maleodorante descrizione d’una “nuova generazione”, già definita altrove come “X Generation” o “Mtv Generation”, che andrebbe invece rinominata “Zero Generation”: difficile etichettare una generazione come questa, pronta a vendersi e ad autodistruggersi perché in niente crede, e in niente trova senso– salvo poi divertirsi, frivola e odiosa, tra cocaina, esibizionismi estetici e alcolici, o ancora salvo, semplicemente, rinunciare alla propria dignità in nome di denaro, o, al solito, di un momento di piacere.
Una delle più caustiche narrazioni (non una delle più caustiche critiche: attenzione, questo romanzo non ha alcuna vocazione alla satira) di una generazione vuota e votata al piacere: edonisti, ma senza aver compreso cosa significa edonismo. Licenziosi, senza aver capito cosa significa oltrepassare i limiti. Drogati, senza aver capito cosa significa la droga. Imbarazzante: ma ancor più dolorosa è la consapevolezza che, se l’alta borghesia inquadrata da Ellis è prossima all’implosione, non diversa è la condizione etica e spirituale delle nuove generazioni medio borghesi o basso borghesi nei paesi Occidentali. Sconcerta e ferisce, nella nostra generazione, la facilità e la “naturalità” nella ricerca delle droghe, degli alcolici e – genericamente – della licenziosità per sfuggire a non si sa più neppure quale pensiero o quale occupazione. Non è difficile cadere nella retorica e insistere sulla questione del vuoto “ideale ed ideologico” del nostro tempo: tuttavia, parrebbe davvero, avendo l’ambizione di leggere una generazione tramite non solo l’esperienza quotidiana personale, ma anche tramite i romanzi dei nuovi autori – che tra i tratti distintivi di questa “Zero Generation” ci siano: una noia implacabile e, fondamentalmente, immotivata; un senso di isolamento e di incomunicabilità devastante; una vocazione all’esperienza “estrema”: dalle droghe, agli alcolici, all’alterazione delle percezioni sensoriali, fino alla “compravendita”, più o meno economicamente importante o socialmente significativa, della propria sessualità– e una singolare attitudine a raccontare meraviglie delle droghe e degli alcolici, quasi fossero esperienze iniziatiche; una certa facilità nel sublimare le noie e le frustrazioni individuali radunandosi in gruppi, dove emulare “il meno insicuro” o il “più magnetico” (dire carismatico è troppo) e svilire la pericolosità e l’imbecillità di certe esperienze mediante una condivisione “di gruppo”, atta a ridurne la valenza negativa e a cancellarne la consapevolezza. Da registrare, mi sembra, con qualche preoccupazione, lo sconfortante rigido perpetuarsi di “regole” e “ritualità” di gruppo. E ancora: totale assenza di impegno politico; totale assenza di interessi artistici. Non è un caso, infatti, ad esempio, che nelle (rare) eccezioni si riscontri una sinistra adesione alle (fallimentari e mortali) ideologie totalitarie della prima metà del Novecento: fascismo e comunismo.
La sensazione, spesso, è dunque di trovare gli stessi personaggi in ogni romanzo: da “Meno di zero” di Ellis, a “Destroy” della Santacroce, ad esempio, non passano troppe differenze nella (ora azzardo un concetto svuotato di senso da certi autori), introspezione dei personaggi. Altrove, quando non si costruisce un romanzo sulle droghe o sull’etilismo, si insiste fondamentalmente sull’isolamento e sull’incomunicabilità. Qualcosa vorrà dire; ma preferisco non interpretare ulteriormente il dato.
Clay, protagonista del romanzo di Ellis, è tutto in queste battute: “Cos’è importante per te, Clay? Cosa ti rende felice?" "Niente. Niente mi rende felice. Niente mi interessa" – le dico. "Ti è mai importato qualcosa di me, Clay?" – ripete. "No, e di nessun altro, e di nient’altro. Non voglio attaccarmi a niente, soffrirei troppo, dovrei preoccuparmi anche di quello. Si soffre meno, se si è distaccati”.
Incontriamo Clay, prossimo ad una (risolutiva?) crisi esistenziale, tra feste sempre uguali e dolorose memorie del passato; assistiamo al suo confronto-scontro con l’analista, alla dissoluzione della sua vita sentimentale, alla rivelazione della (marcia)natura dei suoi amici. Al termine di questa lunga notte, il nostro decide di partire, abbandonando la decadenza della sua esistenza californiana. Ritroveremo un Clay reincarnato nell’ultimo romanzo di Ellis, “Glamorama”: Victor Ward, di qualche anno più grande, è Clay tornato vittima del meccanismo appena descritto: giovane attore che cerca fama e gloria, in un mondo di plastica perfettamente prosaico, ornato da corruzione, droghe, lustrini e sesso facile; e contaminato da quella violenza che tanto sembra divertire la società contemporanea, solleticando la sua morbosa curiosità. Il difetto di “Glamorama”, il suo essenziale limite, è nella ripetitività e nella verbosità; vale la pena, tuttavia, leggerlo dopo “Meno di zero”, per salutare i progressi di un romanziere promettente. Ellis dà il meglio di sé nei dialoghi – formidabile l’aderenza al parlato. È autore dalla grande facilità d’espressione ed è romanziere assai fluido e liquido. Si legge – e non è “fumettistico” o “bozzettistico”; è, al limite, cinematografico. Ulteriore pregio è la franchezza e la linearità della narrazione, scevra di giudizi (di pregiudizi?) di ordine morale o etico; Ellis rimane romanziere, non cede ad argomentazioni sociologiche o psicologiche, scrive – e bene – storie che forse non vorremmo sentir narrare, o preferiremmo fossero cupe fantasie.
È la realtà: e ognuno, allora, farà bene a ricordarsene e a (ri)prenderne coscienza. Da leggere, senza pregiudizi; talvolta, tuttavia, trovo lecito che il lettore, disgustato dai personaggi, si turi il naso.
EDIZIONE ESAMINATA e BIBLIOGRAFIA CONSIGLIATA.
Bret Easton Ellis (Los Angeles, 1964), narratore americano.
Bret Easton Ellis, “Meno di zero”, Einaudi, Torino, 1996. Bret Easton Ellis, “Glamorama”, Einaudi, Torino, 1999.
Gianfranco Franchi, novembre 2002.
Prima pubblicazione: ciao.com. A ruota, Lankelot.