Alet
2011
9788875202071
Satira dello psicodramma principe della nostra epoca e della nostra società, vale a dire il disastro subculturale forzista, vale a dire il degrado figlio dell'imposizione di paradigmi e modelli antropoidi previo tubo catodico, il secondo libro di narrativa del trentaquattrenne giornalista e scrittore romano Emanuele Kraushaar, “Maria de Filippi” [Alet, pagine 142, euro 10] è una sovrana ma gentile bastonata ai cittadini anestetizzati dalla ripetitiva e farlocca programmazione televisiva dei canali del Sultano. Confezionato con cura frontale dalla sempre ottima Giulia Belloni, madrina e anima della patavina collana Iconoclasti, il quaderno di narrativa di EK si fonda – come già l'opera prima, “Tic” - su una sequenza di frammenti, stavolta dal narratore metamorfico, e multiplo in generale. L'intento sembra essere quello di offrire uno spaccato della decadente qualità dei molti spettatori e dei tanti velleitari protagonisti di un programma che, per come viene descritto, pare nato per abbrustolire l'intelligenza e per falsare la gerarchia dei valori dei cittadini, stiracchiandola e livellandola sul basso. Ma sul basso vero, quello irrimediabile.
La gelida immagine di Maria de Filippi puntina qua e là la narrazione. C'è un tizio che dice che quando parla lei lui si sente sempre meglio, perché lei e la sua erre moscia rimettono a posto tutto. “Non c'è nulla da temere, quando apre bocca lei, dallo schermo esce un'aura di tranquillità. Non l'ho mai vista arrabbiata. Sa il fatto suo e io sono tranquillo” [p. 11]. Santa Maria è madre del futuro nuovo: un'altra persona dice che lei è molto brava e buona e con lei tutto è possibile, perché “si aprono molte situazioni” [p. 13]: già. Qualcuno pensa che nemmeno esista veramente [p. 93], che sia forse un'ologramma.
Kraushaar è estremamente pungente e caustico; è corrosivo, ma mai cattivo; è pieno di personalità – in tutti i sensi: è un demone legione, anche – e sa essere spiazzante, nei suoi calembour e nelle sue invenzioni. Come in questo caso:
“Ho smesso di parlare e iniziato ad abbaiare lo scorso ottobre. E proprio per questo lo scorso ottobre ho deciso di partecipare al programma 'Uomini e Donne' condotto da Maria de Filippi. Mi presento per un appuntamento al buio. Di ragazze ce ne sono due. Una a pelo lungo e una a pelo corto, come direbbe il mio veterinario. A me piace quella a pelo lungo, ma mi indirizzo sull'altra per mischiare le carte e non farmi capire. Appena mi danno il microfono per presentarmi, tiro fuori uno dei miei latrati. La gente del pubblico ride” [Kraushaar, “Maria de Filippi”, p. 33]
Altrove, restituisce fedelmente un ritratto psichico di uno degli omarini plasmati dalla televisione dell'epoca forzista: un tizio che a un tratto racconta la sua essenza partendo dall'osservazione nitida di sé, allo specchio. E ragiona così: “Mi guardo allo specchio e non mi piaccio. Con tutti questi tatuaggi, l'ultimo con scritto nulla dies sine maria. E poi l'orecchino, il piercing e altre minchiate. Ultima: il sopracciglio sinistro rosa. Io però così ho molto successo al programma Uomini e Donne dove faccio il tronista. Poi se avrò ancora più successo magari mi chiamano all'Isola dei Famosi. E poi se avrò successo anche lì, non farò più niente per tutta la vita e camperò di rendita” [p. 43].
Questi tizi, ossessionati dalla loro immagine, dalla possibilità di fare fortuna senza fatica, semplicemente mostrandosi alla tv (subito penso al gran “Videocracy” di Gandini), non mostrano nessuna forma di sensibilità diversa da quella ombelicale; e se puntano alla solidarietà, è per farsi autopromozione, per averne un ritorno. Per queste persone, estranee a ogni cultura che non sia catodica, l'incontro con Maria de Filippi sembra essere padrino dell'estasi: “Prima di raggiungere gli studi, tutto si ferma, il sole nel cielo si oscura, la terra forse smette di girare, la gente intorno a me è bloccata, non ha più senso nemmeno continuare a respirare”, dice uno [p. 52]. Per diverse di queste persone, la televisione è una scorciatoia per soldi facili e amorazzi facili con donnine pronte a tutto: c'è uno che vuole andare al programma di MDF perché vuole rimorchiare molte ragazze carine che “bazzicano nel mondo della televisione e che quindi sono solitamente stupide e facilmente abbordabili e soprattutto sono capaci di tutto pur di stare davanti a uno schermo” [p. 54], e la depressione del lettore, passo passo, aumenta.
Kraushaar, raccontando questa strisciante umanità senza intelligenza, senza solidarietà, senza visione del futuro, senza sensibilità politica, racconta alla nostra generazione, e più ancora a quella che verrà, come è stato possibile che attecchissero certi personaggi politici, e certo turboconsumismo. Racconta della società in cui un povero cristo, belloccio e senza competenze, finisce in tv a parlare del niente che è e che rappresenta, come un manichino; e quel manichino diventa popolare, diventa amato, diventa un modello di fortuna, di successo. Racconta della società in cui c'è qualcuno che ha chiamato il figlio Vasco, ma non per il grande Pratolini: per quel rocker di Zocca che una volta era andato a San Remo a raccontare a tutti i borghesi quanto era alternativo e ribelle, e da là era diventato l'eroe del sottoproletariato culturale. Racconta della società che va in discoteca e va in palestra. Che considera Fabrizio Corona uno che ce l'ha fatta. Che si diverte tanto quando vede Lele Mora alla tivù. Che si diverte a prendere per il culo gli intellettuali. Perché sono morti di fame, magari. O perché non sono belli. O perché non si vestono alla moda. La moda la decide la tivù. La tivù è del padrone dei padroni, e dei figli di quel padrone. La tivù, da un bel pezzo, qui in Italia fa paura.
Il senso profondo dell'alienazione di tanti nostri contemporanei sta in un passo che ho trovato folgorante, e particolarmente fedele al malessere incontrovertibile derivato da questa società turbocatodica. A un tratto un tizio confessa: “A volte rimango a fissare il puntino rosso della televisione come se fosse un pianeta lontano e irraggiungibile. Forse in quel momento il mio pensiero sta arrivando da qualche parte. Il punto rosso rimane fisso in lontananza, ma quando chiudo gli occhi, a parte un piccolo bagliore iniziale, non succede nulla. E il nero di fronte a me è completo e uniforme” [p. 22]. Niente male. a
EDIZIONE ESAMINATA E BREVI NOTE
Emanuele Kraushaar (Roma, 1977), giornalista e scrittore italiano, direttore della rivista “Metromorfosi”. Collabora con “Nazione Indiana”. Ha esordito con la raccolta di racconti “Tic” nel 2005.
Emanuele Kraushaar, “Maria De Filippi”, Alet, Padova, 2011. Collana “Iconoclasti”, 3.
Gianfranco Franchi, Novembre 2011.
Prima pubblicazione: Lankelot.
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SEMPRE SU "MARIA DE FILIPPI" DI KRAUSHAAR
Prendi un giovanotto romano con una sincera, inequivocabile predisposizione alla satira; prendi l'oggetto delle imprecazioni e delle angosce di tutta l'intelligenza nostrana, la tv; prendi una delle collane di narrativa italiana più piene di personalità, espressione di inequivocabile aristocrazia editoriale; prendi una copertina nata per richiamare allocchi e alienati dal tubo catodico. Il risultato è il secondo libro di narrativa di un artista dal respiro cortissimo, Emanuele Kraushaar, ma dalla singolare personalità autoriale. Il ragazzo è destinato a far parlare di sé, perché sa essere davvero iconoclasta con una disinvoltura ineccepibile. Quella disinvoltura si chiama stile, è qualcosa che non si inventa, si riconosce soltanto.
Gianfranco Franchi. Prima pubblicazione: BlowUp, dicembre 2011
Satira dello psicodramma catodico per eccellenza della nostra epoca…