Vallecchi
1956
9788804491187
Il Malaparte di “Maledetti toscani” è il papà di Bianciardi. Ostile agli italiani per orgoglio territoriale, maestro delle differenze minime tra una polis toscana e l'altra, capace di reminiscenze letterarie ricche e folgoranti (da Machiavelli a Lorenzo de' Medici, da Dante a Boccaccio, da Sacchetti a Collodi), è il campione della toscanità e di suoi significati profondi e molteplici. Leggere questo intelligente, prepotente e guascone pamphlet da non toscani significa leggere letteratura curda tradotta con buona dignità e discreta fedeltà: è stato il mio caso, e mi spiace non aver potuto apprezzare parecchie sfumature. Forse non di poco conto come mi sono sembrate: come le osservazioni sulle differenze tra i dialetti d'una città e d'un'altra, come certi rilievi antropologici sulle distanze tra la gentilezza senese e la civiltà d'un popolo intero, o sulla lentezza dei pistoiesi, o sull'apertura mentale – diciamo così – delle donne livornesi. Sta di fatto che l'opera letteraria vive, febbrile e incandescente e sinceramente leziosa, allegramente consapevole d'essere per noi italiani un divertissement autentico, per voi toscani una dichiarazione di guerra. Perché niente è più toscano di Prato, e nessun toscano è migliore di un pratese.
“Se è cosa difficile essere italiano, difficilissima cosa è l'esser toscano: molto più che abruzzese, lombardo, romano, piemontese, napoletano, o francese, tedesco, spagnolo, inglese. E non già perché noi toscani siamo migliori o peggiori degli altri, italiani o stranieri, perché, grazie a Dio, siamo diversi da ogni altra nazione: per qualcosa che è in noi, nella nostra profonda natura, qualcosa di diverso da quel che gli altri hanno dentro. O forse perché, quando si tratta d'essere migliori o peggiori degli altri, ci basta di non essere come gli altri, ben sapendo quanto sia cosa facile, e senza gloria, essere migliore o peggiore di un altro. Nessuno ci vuole bene (e a dirla fra noi non ce ne importa nulla). E se è vero che nessuno ci disprezza (non essendo ancora nato, e forse non nascerà mai, l'uomo che possa disprezzare i toscani), è pur vero che tutti ci hanno in sospetto. Forse perché non si sentono compagni a noi (compagno, in lingua toscana, vuol dire eguale). O forse perché, dove e quando gli altri piangono, noi ridiamo, e dove gli altri ridono, noi stiamo a guardarli ridere, senza batter ciglio, in silenzio: finché il riso gela sulle loro labbra” (Malaparte, Incipit di “Maledetti toscani”).
Tutto sono, i toscani, fuorché femmine, scrive Malaparte. I toscani camminano a testa ritta, petto in fuori, mele strette. Disprezzano tutti e se ne fregano d'essere disprezzati. Disprezzano tutti per la loro stupidità. I toscani sono i più intelligenti di tutti, in Italia, e addirittura gli scemi, dalle parti loro, sono intelligenti. La libertà è un fatto dell'intelligenza: dall'intelligenza deriva e consegue. Tradiscono più gli amici dei nemici, perché per “tradire un amico ci vuol grandezza d'animo, nobiltà dei sentimenti, altezza d'ingegno e lealtà” (p. 12). Lealtà significa sapersene pentire. È una regola del gioco.
Quando i Toscani ti guardano, ti stanno giudicando. Non devono scoprire niente, perché sanno che sei fatto male, ma vogliono capire “di che sei fatto” (p. 77). I Toscani sono civili, non gentili. “A dirla tra noi, la gentilezza sta di casa soltanto a Siena. Altrove, nel resto della Toscana, è civiltà di modi, e non di voce, di piglio, di tono, di parole. Civiltà, non gentilezza: che son due cose diverse” (p. 20). Non salutano mai per primi nessuno, nemmeno in Paradiso. Dio è già preparato, è lui che viene a salutarti per primo, quand'è il momento, se sei toscano. Credono che non ci sia nulla di sacro, a questo mondo, fuorché l'umano, e che ogni anima sia uguale a un'altra. Basta tenerla asciutta.
I Toscani fanno tutto a misura d'uomo, anche i miracoli dei santi. Non perdono mai di vista la “misura del mondo”, questo è il loro segreto (p. 37).
Chi somiglia ai toscani? I loro soli amici, scrive Malaparte, sono i perugini, che “dei toscani hanno gli estri, i pruriti, e i fuochi, gli orecchi a punta, il naso d'osso, e le braccia pelose, e forse qualcosa in più dei toscani, e forse qualcosa in meno” (p. 28). Gli Umbri, e più di tutti i Perugini, sono i soli, in Italia, che vogliano bene ai toscani, e non abbiano paura della loro intelligenza e della loro libertà.
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Malaparte era pratese, e così scrive di Prato: “Non v'è nulla di feroce, né di sanguigno, nell'aria di Prato. Fra tutte le città della Toscana, Prato è chiara: chiara come Pisa. E i pratesi, contro la loro fama, son lisci come i ciottoli del Bisenzio (…). Io son di Prato, m'accontento d'esser di Prato, e se non fossi nato pratese vorrei non essere venuto al mondo, tanto compiango coloro che, aprendo gli occhi alla luce, non si vedono intorno le pallide, spregiose, canzonatorie facce pratesi, dagli occhi piccoli e dalla bocca larga” (p. 57). Il solo difetto dei Toscani, aggiunge, è di non esser tutti pratesi. I pratesi sono un popolo senza padrone, nemico di qualsiasi autorità, spregiatore – scrive Curzio – d'ogni titolo e d'ogni prosopopea. Ecco perché da quelle parti i galli, prudenti, nascono senza cresta. Ho la sensazione che Malaparte stia parlando di sé stesso; meglio: di come avrebbe voluto essere, e non è mai stato. Peccato.
EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE
Kurt Erich Suckert (Prato, 1898 - Roma, 1957), alias Curzio Malaparte, scrittore, giornalista e diplomatico italiano.
Curzio Malaparte, “Maledetti toscani”, Mondadori, Milano 1997.
Prima edizione: Vallecchi, 1956.
Approfondimento in rete: WIKI it
Gianfranco Franchi, febbraio 2010.
Prima pubblicazione: Lankelot.
I pratesi sono un popolo senza padrone, nemico di qualsiasi autorità, spregiatore – scrive Curzio – d’ogni titolo e d’ogni prosopopea.