Adelphi
1999
9788845914522
“Voi pensate che la mia causa dovrebbe essere almeno la «buona causa»? Macché buono e cattivo! Io stesso sono la mia causa, e io non sono né buono né cattivo. L’una e l’altra cosa non hanno per me senso alcuno. Il divino è la causa di Dio, l’umano la causa «dell’uomo». La mia causa non è né il divino né l’umano, non è ciò che è vero, buono, giusto, libero, bensì solo ciò che è mio, e non è una causa generale, ma – unica, così come io stesso sono unico” (“Io ho fondato la mia causa su nulla”, p. 13)
1844. Il libro unico di Max Stirner è un monologo egolatrico, febbrile e delirante: il lettore è testimone d’una concione, non d’una analisi; e non s’intuisce metodo, ma ci s’imbatte in una tempestosa critica del sistema. Definire “anarchico” un libro estraneo all’anarchia non è pacifico: perché questo è libro sinceramente egoarchico; e va a fondare, nella storia della filosofia, nuova coscienza, e nuovo parossistico culto, dell’io.
Tutto quel che è altro dall’io è nemico: nemico il padrone (detentore dei “diritti”), e nemico il suddito (gravato dai “doveri”), nemico il liberale, nemico il comunista; nemica la monarchia, nemico lo Stato borghese; nemico ogni “Essere Supremo”, arcano fantasma, e nemico chiunque neghi l’egoismo. L’esistenza, per Stirner, si configura come una lotta per l’autoaffermazione: due le alternative, vincere o soccombere.
Il testo traccia un sentiero, nella storia dell’umanità, volto a dimostrare come, dalla lotta degli antichi “contro il mondo”, si sia passati, nella civiltà cristiano-medievale, alla lotta “contro se stessi”. Lotta innescata – suggerisce l’autore – da illusori ideali, da inesistenti principi universali, dal riferimento implacabile a un altro dall’io che comportasse sacrifici, rinunce, rispetto delle leggi, e via dicendo. Stirner giura che la borghesia abbia ereditato i privilegi delle classi privilegiate, trasformandoli in “diritti dello Stato”; e asserisce che si sia passati da una “monarchia limitata”, ad una autentica “monarchia assoluta”: nel presente, il “servitore obbediente” è uomo libero. La libertà di stampa è precaria – per via delle limitazioni delle leggi sulla stampa, e dei meccanismi di censura (p. 116); la “libera concorrenza” è un meccanismo tanto spietato da instillare nostalgia delle corporazioni; i liberali hanno fatto coincidere l’unità con lo Stato, e hanno ideato l’illusorio concetto che i “cittadini uniti” siano una nazione. Stirner disprezza l’idea che “io” sia cittadino, e che si possa anche solo congetturare un sistema fondato sul concetto “popolo”, o “massa”, o “cittadini”: esiste solo l’io, e l’io deve combattere contro tiranni come lo Stato, la Religione, la Coscienza (pp. 115 e ss.). La libertà, intesa in senso borghese – per ragionare nei termini stirneriani – non esiste: l’unica libertà è quella che consiste di sbarazzarsi di qualsiasi altra cosa non sia l’io.
Il liberalismo ha un nemico mortale: all’uomo s’accompagna “il mostro inumano”, il singolo, l’egoista: l’individualità è creatrice di tutto (p. 173), fonda la vera libertà: così come la genialità, tipo specifico dell’individualità, è sempre originalità madre di creazioni universali.
L’archetipo dell’egoarca è il vagabondo: intelligentemente, nel saggio in appendice Calasso suggerisce che in quest’opera si possa individuare il modello e la fonte dello spettro letterario hamsuniano. Scrive infatti Stirner: “Si potrebbero comprendere sotto il nome di «vagabondi» tutti coloro che appaiono, al borghese, sospetti, ostili e pericolosi, giacché egli disdegna ogni tipo di vita vagabonda. E ci sono anche vagabondi dello spirito, ai quali la dimora degli avi appare troppo angusta e opprimente per potersene restare tranquilli in quello spazio ristretto: invece di mantenersi entro i limiti di un modo di pensare moderato e di prendere per verità intoccabile ciò che a tanti dà conforto e sicurezza, essi oltrepassano tutti i confini della tradizione e vagabondano in strane regioni del pensiero, sollevando critiche irriverenti e dubitando impudentemente di tutto, questi vagabondi stravaganti. Essi formano la classe degli instabili, degli irrequieti, dei mutevoli, cioè dei proletari, e vengono detti, quando manifestano la loro natura randagia, «teste inquiete». Così ampio, infatti, è il senso del cosiddetto proletariato o del pauperismo” (p. 121).
Sprezzante il giudizio del socialismo: impone che nessuno abbia niente, affinché tutti abbiano: nega a ogni io la proprietà, pretendendo che sia la società l’unica proprietaria. E questo, nella visione stirneriana del mondo, è eccezionalmente cristiano, come principio: la terra, nell’accezione cristiana, è di Dio: per i comunisti, è della Società. Ogni persona deve essere simile alle altre (“straccioni” è la parola chiave per comprendere l’idea che abbia dei comunisti Stirner), ma tra loro c’è qualcuno “più eguale” che avrà un potere che altri non potranno avere mai, pur desiderandolo.
Il comunismo nega l’io, e nega perfino “l’uomo”: prevede solo “l’uomo lavoratore”, e sulla base del lavoro fonda un sistema (p. 130): ma è un lavoro che non potrà soddisfare, perché sfinirà; e potrà rivelarsi solo automatico, e mai creativo o almeno non sempre artigianale. Se s’aboliscono denari o beni individuali, come potranno mai essere le opinioni? Questo si domanda Stirner, suggerendo: impersonali, e inevitabilmente dogmatiche.
Se invece gli uomini saranno unici, potranno avere rapporti reciproci tali che ognuno possa essere quel che è: un io. Stirner è convinto che cultura e possesso rendano felici l’io; e giudica il comunismo un’aberrazione cristianeggiante, cieca della comprensione dell’egoismo che – unica cosa propria, e dunque realmente esistente – può guidare alla libertà autentica e alla felicità un essere umano.
Infatti – scrive altrove parlando della religione – “Tutto quel che fate dimostra un egoismo inconfessato, segreto, mascherato e nascosto. Ma siccome si tratta di un egoismo che non volete confessare neppure a voi stessi, che nascondete a voi stessi, insomma di un egoismo non aperto o manifesto, ma inconsapevole, non è in fondo egoismo, ma schiavitù, servitù, rinnegamento di sé. Voi siete egoisti e non lo siete, perché rinnegate l’egoismo. Quando sembra che lo siate più decisamente, ecco che subito dichiarate – ripugnanza e disprezzo per la parola «egoista»” (p. 175).
L’io non è tutto. L’io distrugge tutto. L’io che si dissolve è realmente io. Tutto quel che separa dall’io la sua essenza – Dio, Stato, Partito, Amore, Libertà, Uguaglianza, Fratellanza – è una menzogna e un artificio.
L’egoista non ha a cuore il bene dell’inesistente “società umana”: ne usufruisce. Per poterne usufruire appieno, deve trasformarla nella sua proprietà e nella sua creatura: annientarla e costruire “l’unione degli egoisti” (p. 189). Ogni io è esclusivo ed esclusivista. Ognuno è il solo giudice di se stesso: la legge è un’espressione del potere dominante (p. 225). Tutto ciò che è sacro è una religione: un vincolo, una catena. Il partito non può dominare: sì è della partita, non del partito. La verità è “nulla e vanità” (p. 369), l’unica verità consiste nel valorizzare l’io, e nell’appagarlo. A qualsiasi prezzo.
Concludiamo con le parole dell’autore: “Proprietario del mio potere sono io stesso, e lo sono nel momento in cui so di essere unico. Nell’unico il proprietario stesso rientra nel suo nulla creatore, dal quale è nato. Ogni essere superiore a me stesso, sia Dio o l’uomo, indebolisce il sentimento della mia unicità e impallidisce appena risplende il sole di questa mia consapevolezza. Se io fondo la mia causa su di me, l’unico, essa poggia sull’effimero, mortale creatore di sé che se stesso consuma, e io posso dire: Io ho fondato la mia causa su nulla” (p. 381).
La coscienza dell’io vanifica l’esistenza d’altro che non sia io: nessuna fede, nessun principio, nessun valore, nessuna verità. L’onestà assurda e stupenda di Stirner viene ribadita da un’esistenza da emarginato: fedele al suo pensiero, è stato vagabondo nello Stato e ha incontrato ostracismo e opposizione, morendo in miseria.
Centosessanta anni dopo, l’io di Stirner ha trionfato sul comunismo: e tuttavia bisogna ammettere che nessuno può affermare d’aver conosciuto un egoista autentico, e – al contempo – d’aver incontrato persone assolutamente libere (nell’accezione stirneriana: “sbarazzate” da tutto, eccetto che dall’io e dall’avidità del possesso di qualsiasi cosa). Segno che la coscienza dell’io non ha spogliato gli esseri umani dell’empatia, e della comprensione del prossimo; e che l’io, per essere appagato e conoscere felicità, non possa e non debba escludere fede nell’umanità, nell’ideale o nello Spirito.
Allora – dico che si deve essere al limite egoici, e non egoisti. Rinunciare al vantaggio personale nel nome del bene dell’alterità, o di un ideale, significa ammettere e amare l’esistenza dell’alterità e rispettare le generazioni che verranno, senza ripudiare l’idea che l’umanità vivrà e prospererà senza più che “io” viva; e che questa umanità potrà e dovrà sognare d’essere felice. Un libro certamente non trascurabile, e da studiare con serenità e prudenza. Ma da contestualizzare adeguatamente, e attualizzare con cautela e onestà intellettuale. Eccellente, a questo proposito, il saggio di Calasso integrato nell’edizione esaminata.
EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE
Johann Caspar Schmidt, alias Max Stirner (Bayreuth, 1806 – Berlino, 1856), filosofo tedesco. Studiò a Berlino, ascoltando i corsi di Hegel e Schleiermacher. Dal 1842 aderì al gruppo dei “Liberi”. Al di là di questo libro, tradusse Adam Smith e J.B. Say, si dedicò a lavori di compilazione e finì per due volte in prigione, per debiti. Fu eccezionalmente avversato da Marx ed Engels. Spiega forse le ragioni Ruge, in una lettera datata dicembre 1844 (si veda, nel libro, a p. 391): “Marx professa il comunismo, ma è il fanatico dell’egoismo, e con una coscienza ancora più occultata in rapporto a Bauer. L’egoismo ipocrita e la smania di fare il genio, il suo atteggiarsi a Cristo, il suo rabbinismo, il prete e le vittime umane (ghigliottina) riappaiono perciò in primo piano. Il fanatismo ateo e comunista è in realtà ancora quello cristiano. Digrignando i denti e ghignando, Marx manderebbe al macello tutti quelli che ostacolano il cammino a lui, nuovo Babeuf. Lui si immagina questa festa, poiché non può celebrarla. L’egoismo fanatico è carico di colpe e di peccato; mentre l’egoismo che riesce a confessarsi liberamente tale è quello puro, che non vive come un vampiro del sangue dell’uomo, con la scusa di intenderlo come ‘eretico’, ‘mostro inumano’, ‘editore’, ‘commerciante’, ‘capitalista’, ‘borghese’…e così via. L’egoismo di una persona meschina è meschino, quello di un fanatico è ipocrita, falso e avido di sangue, quello di un uomo onesto è onesto. Perché ognuno vuole e deve volere se stesso, e nella misura in cui ciascuno lo vuole veramente le sopraffazioni si equilibrano”.
Max Stirner, “L’unico e la sua proprietà”, Adelphi, Milano, 1979. Traduzione di Leonardo Amoroso. Con un saggio di Roberto Calasso.
Prima edizione: “Der Einzige und sein Eigentum”, Leipzig, 1844.
Subito sequestrato con questa motivazione (p. 387): “Poiché non solo in singoli passi di tale scritto Dio, Cristo, la Chiesa e la religione in genere vengono trattati con la più irriguardosa blasfemia, ma anche tutto l’assetto sociale, lo Stato e il governo vengono definiti come qualcosa che non dovrebbe più esistere, mentre la menzogna, lo spergiuro, l’assassinio e il suicidio vengono giustificati e il diritto di proprietà viene negato”. Quindi torna in circolazione, nell’arco di pochi giorni, destinato tuttavia a innescare fastidiose polemiche e inaccettabili ostracismi; si veda, a questo proposito, lo splendido saggio di Calasso, “Accompagnamento alla lettura di Stirner”.
Gianfranco Franchi, ottobre del 2004.
Prima pubblicazione: Lankelot.
Scrisse Mauthner in “Der Atheismus und seine Geschichte im Abendlande”, vol IV, p. 210 – p. 423 dell’edizione esaminata, nel saggio di Calasso: “Ancora oggi ci sono certi uomini devoti che per via del suo libro prendono l’anarchico Stirner per un matto e per Satana in persona; e ancora oggi ci sono certi uomini diversamente devoti, che fanno partire da lui una nuova epoca dell’umanità, appunto perché era un anarchico. Ma non era un diavolo e non era un pazzo, anzi era un uomo silenzioso, nobile, che nessun potere e nessuna parola sarebbero riusciti a corrompere, un uomo così unico che non trovava un posto nel mondo, e di conseguenza più o meno fece la fame; era soltanto un ribelle interiore, non era un capo politico, perché agli uomini non lo legava neppure una lingua comune”.