Guanda
1995
9788877468376
1936. Jünger pubblica i suoi “Ludi africani”, memorie della sua prima esperienza militare: oppure, a ben guardare, di una sua gigantesca, fanciullesca ragazzata, finita bene soltanto per via di un destino provvidenziale. Diciottenne, nel 1913, s'era arruolato nella Legione Straniera, a Verdun. Di lì s'era imbarcato per la costa africana. Sei settimane vissute intensamente, sino al fortunoso richiamo paterno e al successivo, immediato congedo; di lì a poco, si sarebbe ritrovato sul fronte occidentale, impegnato nei combattimenti della Prima Guerra Mondiale, immortalati “Nelle tempeste d'acciaio”, vivendo ben altra e tragica esperienza. In questo frangente – c'è poco da dire – l'avventura di EJ sfocia nel caricaturale, nell'involontariamente comico, nel bambinesco. Niente, grazie a Dio, a che spartire con la violenza e con la morte del suo primo libro di guerra. Questa sua avventura è uno spericolato e rischioso esercizio di libertà assoluta: un momento di fame d'anarchia, e di sregolatezza, vissuto con l'innocenza del ragazzino che ha letto troppi libri.
Herbert Berger – questo lo pseudonimo del narratore – partiva perché voleva fuggire, da tutto: dalla borghesia, dalla scuola, dalla routine. Sognava d'essere qualunque cosa, “clandestino, mozzo, artigiano, girovago”: ma in Africa, che sentiva come zona eletta alla “lotta delle potenze naturali”, per via di qualche libro. Si sarebbe ritrovato, invece, soldato. E dire che la più forte resistenza a partire veniva proprio da sé stesso: “un tipo pigro, che amava passare il tempo fantasticando sui libri, e vedere muovere i suoi eroi in contrade pericolose, invece di mettersi in cammino nella notte e nelle nebbia per fare altrettanto” (p. 5).
Parte comprando una rivoltella e un libro, – che tenerezza in questo impossibile e assurdo accostamento – “I misteri del continente nero”. Gli intellettuali si riconoscono subito, e lui non sfuggirà a questa legge. S'avvicina alla frontiera tedesca sapendo soltanto che Colonia, Treviri e Metz si trovano da quelle parti; punta Verdun per reminiscenze di fatti di cronaca, e fuma la pipa per sentirsi come Sherlock Holmes. Non ama il tabacco, ma ha bisogno di una posa. Prova ad arruolarsi e un poliziotto lo avverte: “Non faccia una cosa del genere! È roba per malviventi e vagabondi. Inoltre lei è molto, troppo giovane; laggiù nella sabbia rovente creperà come un cane. Salga subito sul treno e torni dai suoi genitori” (p. 40). Niente da fare, Herbert-Ernst è irremovibile, radicale e presuntuoso come tutti gli adolescenti. Si iscrive in quel “singolare registro dei buoni a nulla d'ogni paese”, invecchiandosi di due anni, ma non rinuncia al suo vero nome e cognome. Incontra un certo Franke, suo quasi coetaneo, ceramista di Dresda, ribelle e confusionario; s'aggiungono alla compagnia altri due ragazzi, tra cui Paul, un artista di strada. Eccoli in viaggio per Marsiglia: Franke se l'è già squagliata, di soppiatto, di notte, e le strade della città non promettono niente di buono.
Nella fortezza Fort St Jean incontrano tizi in uniformi variopinte, e parecchi in laceri abiti civili; presto la piccola compagnia di giovani tedeschi si scioglie, e Herbert può osservare l'ambiente. Eccolo. “Qui risse e abusi erano all'ordine del giorno, ora qua, ora là si assembravano gruppi ed entravano in azione le ronde. La causa della maggior parte degli scontri pareva consistere nel fatto che gli uomini in congedo, rilasciati con degli abiti azzurri piuttosto lisi, cercavano poi in ogni modo di completare il loro guardaroba. (…). Appena avvistavano qualcuno che indossava un indumento ancora buono, cercavano di tirarlo in un angolo e lì costringerlo con la persuasione, o con la violenza, a un cambio” (p. 70).
Al ragazzo rubano – senza che nemmeno se ne accorga – zaino e cappello. A tirargli su il morale è l'incontro con un medico militare di buone letture, il dottor Goupil: è un signore gentile che sembra capire al volo Herbert, prova a procurargli una via di fuga legittima per il giorno successivo, e si dispera a ripetergli che deve tornare tra i libri, perché le avventure vere sono soltanto quelle: ciò che potrà incontrare in Africa è soltanto noia, e sfruttamento.
Niente da fare, si va, senza nemmeno capire cosa possa significare una decisione del genere; vivendola, così, con una leggerezza che sconfina nella stupidità. Come compagno di stanza si ritrova un nostro concittadino italiano. Scopriamolo insieme: “Accanto alloggiava un italiano, piccolo e grasso, col quale comunicavo a segni. Era cresciuto orfano nelle catapecchie di Santa Lucia e pareva non trovarsi peggio qui che in qualsiasi altro luogo. Proletario di nascita e di razza, la condizione in cui si sentiva di più a suo agio era la dipendenza; appena si avvicinava qualcuno che aveva da dare una disposizione, egli gli si rivolgeva come un satellite a un astro superiore” (p. 124). Come se non bastasse, è tirchio e fuma come un turco (cicche gettate dagli altri). Il primo impatto, a parte i soliti grotteschi commilitoni, è tosto. Nel panorama scopre troppa sabbia e troppi pochi alberi: “Rimane comunque singolare – osserva – l'anelito bruciante per simili luoghi, come vi si venga sospinti in modo quasi magnetico” (p. 135). Si direbbe proprio che non si stia ambientando. E come lui gli altri soldati:
“Tutti” - racconta - “avevano cercato qualcosa di vago, forse un luogo in cui le leggi avessero perduto la loro validità, forse un mondo fiabesco oppure l'isola dell'oblio. Ma subito s'avvedevano dell'insensatezza della loro impresa e la nostalgia li assaliva come una malattia mentale” (p. 137).
Nessuno trovava quel che stava cercando, e sembrava tutti puntassero a una nuova fuga, a una nuova evasione dalla realtà, sempre più complessa addirittura da immaginare. Nel caso del giovane Ernst, dopo qualche goliardata e qualche marachella, arriva una provvidenziale lettera del padre – allertato dal generoso dottor Goupil – a costituire il principio della fine dell'avventura: il provvidenziale obbligo al ritorno a casa, l'ultimo sbuffo della sua assurda ragazzata.
Epilogo. “Mi sentivo sereno come dopo un salasso. La puntata nelle sfere in cui non esistono leggi è ricca d'insegnamenti come la prima avventura amorosa e il primo combattimento; il comune denominatore di questi contatti precoci sta nella sconfitta, che risveglia nuove e più vigorose energie. Nasciamo un po' troppo selvaggi e curiamo le inquietudini febbrili con pozioni di natura amara. Tuttavia, per molto tempo mi sentii ferito nella mia libertà e m'infastidiva toccare quell'escursione, come una piaga che tardi a cicatrizzarsi. 'Tutti sono capaci di vivere arbitrariamente', suona un detto famoso; sarebbe più giusto dire che nessuno può vivere arbitrariamente” (p. 199)
La prima, vera scoperta è che non è libero – nemmeno di fare sciocchezze. Almeno, da adolescente. Mancano gli sculaccioni e il cazziatone del papà a completare un quadro di grandissima ingenuità e immediatezza. Sin qua, il libro di EJ più attuale e facile da leggere e interiorizzare. Un libro d'avventure (sbagliate; e per questo affascinanti e letterarie) giovanile e giovanilista. No, niente male d'Africa. L'Africa rimane, per Ernst Jünger, una fantasia.
EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE
Ernst Jünger (Heidelberg, 1895 - Wilflingen, 1998), scrittore e filosofo tedesco. Esordì pubblicando “Nelle tempeste d'acciaio” nel 1920. Studiò Filosofia e Scienze Naturali a Lipsia.
Ernst Jünger, “Ludi africani”, Guanda, Parma 1995. Traduzione di Ingrid Harbeck. Collana “Quaderni della Fenice”. Pubblicazione su licenza Longanesi.
Prima edizione: “Afrikanische Spiele”, 1936.
Approfondimento in rete: WIKI It
Gianfranco Franchi, novembre 2009.
Prima pubblicazione: Lankelot.