Zandonai
9788895538839
Un grande saggista come il francese Bernard Bruneteau ha raccontato il Novecento coniando una definizione lapidaria e atroce: “Il secolo dei genocidi”. Per mano turca, russa, tedesca, cambogiana; nel nome dei totalitarismi, nel nome della razza, nel nome della classe sociale; con criteri industriali, seriali: abbiamo assistito a ripetuti, pianificati sterminii, a distanza di poco tempo. Fatichiamo a studiarli. Rifiutiamo di accettarli. Finiamo per esserne infestati. Gli artisti europei più sensibili raramente hanno saputo sintetizzare e universalizzare il respiro di qualcosa di così buio, metodico e gelido. Un grande intellettuale come Brunetau non ha avuto paura di misurare il male: al di là dei suoi colori. Rosso, nero, bianco. Nessun daltonismo.
Sulla scia della sua onesta e limpida visione del secolo del sangue, un artista ceko – vale a dire, uno parte di un popolo testimone dell'infamia e della bassezza nazista, e della ferocia e della crudeltà sovietica: i ceki sono come i polacchi, a ben guardare – ha raccontato, con nerissimo sarcasmo e franca disperazione, il grottesco, l'assurdo e la pazzia del male, in un romanzo breve liminare e spiazzante. “L'officina del diavolo” (Zandonai, Rovereto, 2012. Traduzione di Letizia Kostner) di Jáchym Topol (Praga, 1962) è un libro che guarda nel buio, e dal buio cerca di emergere, guardando al di là di questo tempo.
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Il narratore viene da Terezín, borgo militare fondato dall'imperatrice Maria Teresa. Un borgo dalle mura antiche e bellissime, ferite dalla storia, pulite dalle capre e basta, coi loro “musi famelici” e il loro infinito bisogno di erba. Un borgo con una stazione per cui passavano i deportati, centinaia di migliaia di persone passate da là per andarsene più a Est, e non tornare più.
Figlio di un maggiore dell'esercito e di un'eroina di guerra, morta suicida quando era appena adolescente, è cresciuto sotto regime socialista sovietico. Addestrato in accademia militare, dai militari rifiutato come elemento inadeguato, è campato pascolando le capre; e litigando spesso col padre. È successa una disgrazia e si è ritrovato in galera, orfano. Quando è uscito, le vecchie capre non c'erano più. E così tanti vecchi amici, migrati. L'impero sovietico svanito, sgretolato. Tornava la libertà, tra i ceki. Si respirava democrazia. Libertà e miseria:
“Ad accogliermi fu il silenzio, il silenzio di una città non ancora morta ma agonizzante, una città che, dopo la dipartita dei soldati, era precipitata in una miseria spaventosa. I pochi turisti che c'erano gironzolavano intorno al Monumento e lungo i due o tre sentieri didattici sul genocidio che il Monumento aveva istituito” [p. 29].
Il narratore è libero di vivere in una città in miseria: finisce per lavorare speculando sulla tragedia che ha ferito l'Europa. Il Monumento serve a insegnare la storia dell'orrore del Novecento. Terapie incluse. Quel monumento richiama tanti giovani occidentali. Giovani ossessionati dal passato: dalla primitiva coscienza della possibilità del male assoluto. Una coscienza che figlia disperazione. Disperazione: ossessionati magari “dagli orrori capitati ai loro genitori, nonni, parenti, o anche solo dal pensiero che certe cose fossero accadute – e che possono ripetersi? Di cosa è capace l'uomo? E come mi sarei comportato, io, se a morire ci avessero portato me?” [p. 41].
In quel Monumento nasce una Comune. Quella Comune diventa un richiamo irresistibile per i nipoti del massacro, per i turisti della memoria, per gli infestati dal male oscuro del Novecento: la febbre del genocidio. Ma a qualcuno non sta bene. Speculazione assurda, tanto denaro, niente tasse, turiste libertine, nessuna autorizzazione. E alè che la Comune finisce smantellata. E per evitare guai il nostro narratore se ne va. E passando per Praga, si ritrova a Minsk, Bielorussia. E come “esperto in rivitalizzazione di luoghi di sepoltura”, finisce per dare manforte a chi vuole entrare a far parte della mappa del mondo con l'aiuto di un artista, nel genere. Dove? Nell'officina del diavolo: dove si trovano le tombe più profonde della Mitteleuropa e dell'Europa dell'Est, a Chatyn'. Un'altra Chatyn', diversa dalla Katyn polacca.
“Visitate il monumento europeo del genocidio, l'Officina del Diavolo! Abbiamo per caso il mare, le montagne o altre attrazioni turistiche, noi? No, tutto quel che c'era da vedere è stato bruciato. E allora vorrà dire che in Bielorussia costruiremo il Jurassic Park dell'orrore, il museo all'aperto dei totalitarismi. Entreremo a far parte della mappa del mondo grazie ai nostri sacchi pieni di ossa, ai fagotti di pus e di sangue. Va bene, no? Sarà un colpaccio, che ne dite?” [p. 122].
Cinico, mattoide e ispirato, “L'officina del diavolo” è un romanzo che potrebbe servirci a ricordare che su certe disgrazie non si specula, e invece in tanti ci campano; che servono tanta cautela e tanta freddezza, negli anni dello studio e della ricerca, che non si deve dimenticare che ci sono stati popoli falciati da entrambi i totalitarismi, umiliati e feriti dalla selettiva amnesia di buona parte della cultura europea (est europea, mitteleuropea, occidentale), fino a oggi. Che, infine, abbiamo ancora molto da imparare, da tanti popoli, da tante storie. Basta predisporsi ad ascoltare. Non stancatevi di farlo.
EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE
Jáchym Topol (Praga, 1962), scrittore ceko, tra i firmatari di “Charta 77”.
Jáchym Topol, “L'officina del diavolo”, Zandonai, Rovereto, 2012. Traduzione di Letizia Kostner. 978-88-95538-83-9.
Prima edizione: “Chladnou zemí”, 2009.
Approfondimento in rete: WIKI it / Istituto Culturale Ceco / Tibor Fischer sul Guardian.
Gianfranco Franchi, febbraio 2012.
Prima pubblicazione: Lankelot.
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SEMPRE A PROPOSITO DE "L'OFFICINA DEL DIAVOLO"...
Con intelligenza, sensibilità ed equilibrio ceko, sulla scia della lezione democratica e libertaria di un artista come Milan Kundera, del coraggio e della sfrontata onestà di Patrik Ourednik, della grottesca e poetica vena di Bohumil Hrabal, il praghese Jáchym Topol, a breve distanza da “Artisti e animali del circo socialista” (Einaudi), torna a dialogare con la coscienza dei lettori forti italiani con questo romanzo breve, fresco di pubblicazione per la meritevole Zandonai di Rovereto. E stavolta Topol ci racconta una storia delicata e difficile, assolutamente europea e decisamente provocatoria; quella di un giovane figlio della cittadina di Terezín, borgo ceko fondato dagli austriaci, diventato celebre per via del terribile campo di concentramento di Theresienstadt.
Il protagonista della vicenda si ritrova, con disinvoltura e cinismo, a speculare sulla drammatica storia della sua città e ad animare, assieme ad altri negligenti compari, un museo alla memoria delle tragedie dei totalitarismi. La sua consapevole speculazione sulla ferita principe del secolo scorso, quella dei ripetuti genocidi, dirotta la vicenda raccontata in un'allucinata e allucinante satira delle ossessioni e della morbosità delle nuove generazioni, della loro incapacità di comprendere e di interiorizzare, senza fanatismi e senza esasperazioni, la storia complessa delle loro terre, e dei tanti popoli che abitano l'Europa.
Diventato celebre in tutta la Mitteleuropa e in buona parte dell'Est europeo, il narratore finirà, una volta perduta la scombinata e leggera direzione del suo fosco esperimento locale, per strapiombare in quella Bielorussia in cui nazisti e comunisti hanno saputo, in momenti differenti e con allucinante freddezza, fare del male al popolo: è quella la regione dell'officina del diavolo eponima, quella delle fosse più profonde d'Europa, e meno studiate, per assurde miopie o imperdonabili daltonismi. Una lettura intensa e spiazzante.
Gianfranco Franchi, febbraio 2012.
Prima pubblicazione: BlowUp
Il grottesco, l’assurdo e la pazzia del male, in un romanzo breve liminare e spiazzante.
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