Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde

Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde Book Cover Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde
Robert Louis Stevenson
Mondadori
1985
9788807900488

“Nelle mie sensazioni c’era qualcosa di insolito, qualcosa di nuovo e di indescrivibile e, per la stessa novità, di infinitamente dolce. Mi sentivo più giovane, più leggero, più felice (…) una libertà dell’anima sconosciuta ma non per questo innocente. Al primo vagito di questa nuova vita ebbi coscienza di essere più malvagio, dieci volte più malvagio, incatenato come schiavo al mio male originario. E quel pensiero allora mi inebriò, mi colmò di delizie come una coppa di vino. Stesi le braccia nella prorompente ebbrezza di quelle sensazioni…” (Stevenson, “Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde”, capitolo “Relazione completa di Henry Jekyll sul proprio caso”).

Romanzo chiave nella produzione legata alla figura del doppio, già felicemente interpretata nell’Ottocento, e giusto qualche decennio prima, da Dostoevskij ne “Il sosia”, il libro di Stevenson ha assunto, agli occhi dei contemporanei, valore di matrice. Merito d’una facilità di lettura e d’una fluidità nella narrazione certamente non comuni; merito d’una tecnica descrittiva per burrascose e rapide pennellate che sembrano incidere la carta fino a trapassarla; merito d’una semplificazione della “negatività” o del male che non lascia (apparentemente) adito a difese della metà oscura, Edward Hyde.

Quattro personaggi principali (due coppie, ombra di ombra), e un simbolo dal sapore archetipico: queste le direttive che rispetteremo nell’analisi del testo. Entriamo nel dettaglio. Utterson, il legale. Individuo “reticente”, “riluttante al sentimento”, “esile, malmesso e tetro”, “impacciato nel conversare”, “nonostante tutto sapeva comunicare un che di amabile”: le prime cinque righe del romanzo sono dedicate a questa singolare figura di legale-detective, e sembra che Stevenson non voglia lasciar scampo alla nostra immaginazione. Ogni aggettivo è un colpo di scalpello sul marmo: osserviamo, soltanto una riga dopo, lo sguardo in cui balugina “un senso di umanità profonda”. Non è un caso: è come se lo scultore c’invitasse a scorgere l’intelligenza e l’anima negli occhi della sua creazione. Domanda conferma: percepisci la vita nella mia creatura? Altrimenti, lettore, m’arresto, torno a cesellare, e a picchiare forte sul marmo perché possa scintillare di vita. Stevenson cristallizza l’idea e l’incarna in un personaggio delineato con grande precisione. Utterson prova una sensazione ibrida di stupore e invidia per la vitalità che spinge un uomo a uccidere: “comprende”, e “non condanna”. Schierato con Caino, è un emblema della tolleranza (che Stevenson stia descrivendo il narratore ideale?). Amico d’infanzia del dottor Henry Jekyll, depositario delle sue volontà testamentarie, e compagno di scuola del suo collega, il dottor Lanyon, Utterson è solito vagabondare per la città assieme al suo conoscente Richard Enfield.

Richard Enfield, prototipo del personaggio funzionale. Figura altrimenti superflua e aliena alla narrazione della storia, Enfield ha il compito d’accompagnare Utterson, nel corso di una passeggiata, fino alla misteriosa porta dietro la quale scopriremo vivere Hyde. Enfield è un “traghettatore”: ha osservato e ha ascoltato eventi che si riveleranno fondamentali per le indagini di Utterson, non deve esistere altrimenti che per comunicarli. Curiosa incarnazione di un daimon, questo sì. Enfield aveva assistito, alle tre di mattina di qualche tempo prima, a un piccolo (e surreale) incidente: una sorta di homunculus, piccolo e goffo, arrancava rapido verso casa; rovinato addosso a una bambina di dieci anni (alle tre di mattina?) che correva frenetica per tornare alla sua abitazione, s’era poi dileguato, mentre la piccola frignava spaventata in terra. Il prode Enfield s’era lanciato all’inseguimento del vile; raggiunto, strattonato e trascinato sul luogo del misfatto, l’aveva costretto, assieme ai familiari di lei (e siamo ormai attorno alle quattro di mattina, parrebbe mezzogiorno), a scucire un centinaio di sterline per evitare l’onta della divulgazione dell’accaduto (e la conseguente, evidentemente insopportabile, diffamazione cittadina). Hyde, comprato il silenzio dei famigliari della piccola (ovviamente incolume!), si ritira in casa: il curioso Enfield scopre che entra proprio attraverso quella strana porta. E quando il suo “lontano parente” Utterson associa il nome di Hyde a quello di Jekyll, in quanto erede d’un testamento che giudica “folle o infame”, ha inizio l’avventura.

Enfield è il daimon che accompagna l’autore fino alle soglie della creazione. Stevenson ha sognato, per prima cosa, una sinistra finestra cieca. S’entra, nella casa, attraverso una porta senza campanello e senza batacchio, dalla vernice increspata di bolle e screpolature. È l’ingresso nel mondo di Jekyll e Hyde. Enfield ovviamente scompare, a questo punto, dalla narrazione (per tornare nei sogni, immagino). Tratteggiata la porta, simbolo archetipico, ha esaurito la sua missione.

Henry Jekyll, lo scienziato “mistico”. Esempio di onestà, filantropo, medico di chiara fama, è preda da un decennio, a detta dell’amico Lanyon, di ricerche folli e astruse: “sproloqui pseudoscientifici”, così li definisce il vecchio compagno di studi. Robusto di costituzione, ha un volto “fresco”. Indaga negli abissi dell’anima, per correggere le proprie contraddizioni e perfezionarsi: rimane incagliato nelle oscure profondità sondate nella sua ricerca, trasformandosi, progressivamente, nel malvagio e tersiteo Hyde (e confonde un po’ sentir parlare di droghe o pozioni: è una semplificazione, parrebbe). Regala i suoi segreti nella relazione che svela il caso e chiude il libro. Non prima d’aver pregato, ancora distante da precipitare nella metamorfosi (semi)irreversibile, l’amico Utterson di curarsi di Hyde, qualora lui fosse sparito o fosse stato assente troppo a lungo. È un personaggio scivoloso e, paradossalmente, “derivato”. Perché, ammettiamolo, l’autentico protagonista è il neo-homunculus, il signor…

Edward Hyde, il male puro. “Arranca”, “non sembra un essere umano”, ma “uno juggernaut”; suscita istintivamente in chiunque incontri, compreso Utterson, celeberrimo amico dei Caino, odio, disprezzo e desiderio di sopprimerlo. È “sgradevole”, “ignobile”, “sconcertante”, “rattrappito”: la voce ha perso ogni umanità, è “gelida”, e a volte Hyde “sibila”. Vediamolo in viso: il sorriso è “repellente”, il colorito è “cereo”, esprime un “miscuglio di neghittosità e arroganza”. Ed ecco il felice cortocircuito: è vestito “in modo usuale” (splendida, questa). Per finire, sul suo viso si scorge “l’impronta di Satana”. Non avevamo dubbi. Nonostante questa incredibile quantità di orrori, c’è solo una descrizione d’un omicidio di Hyde: il crudele assassinio di un uomo politico (…). L’incidente fortuito con la bambina, infatti, non lo vede responsabile di nessun crimine; deve trascorrere un anno prima che la sua fama inizi a precederlo per gli spettegolanti vicoli londinesi, fino alla scellerata uccisione dell’aristocratico. Il sospetto è che qualcuno abbia esagerato nella descrizione della malvagità di Hyde: unica testimone dell’omicidio è una domestica, l’unica voce che si staglia per chiarire il mistero della sua natura è quella (poco credibile) dell’alter ego Jekyll. Non basta per farne un assassino inarrestabile, ammettiamolo.

Hyde è ciò che Jekyll voleva essere. Il nome parlante non tradisce: Hyde è “il nascosto”. Questo è più difficile da accettare. E allora il narratore cerca di farlo a pezzi. Invano. Vicenda torbida, e fondamentalmente irrisolta. Il grande fascino del libro risiede proprio nella sua contraddittorietà. Tutto nasce sulla soglia di una strana porta…

“L’azione della droga non faceva discriminazioni, non era né divina né diabolica in sé. Essa scardinava le porte che imprigionavano i miei desideri e, come i prigionieri di Filippi, fuggivano solo quelli che vi erano rinchiusi. Era un periodo in cui la mia virtù covava torbida e sonnacchiosa, mentre il male, tenuto desto dall’ambizione, stava all’erta, pronto a cogliere a volo l’occasione propizia: quello che ne scaturì fu appunto Edward Hyde. Pertanto ora avevo a disposizione due differenti fisionomie: l’uno era malvagità fine a se stessa, l’altro era il solito Henry Jekyll, incoerente miscuglio che ormai non speravo più di correggere e di migliorare” (Stevenson, “Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde”, capitolo “Relazione completa di Henry Jekyll sul proprio caso”).

Epilogo parallelo. Lettura empatica

Per immaginare una storia come questa, un artista deve aver conosciuto l’inferno; e il tentativo di esorcizzarlo deve essere stato velleitario, perché era impossibile considerarlo altrimenti, con coscienza, “una volontà”, o “un disegno”. Gli spettri infestano l’anima di quanti imparano a conoscerli per nome: e il gioco diabolico è nominarli e richiamarli alla vita, e popolare le storie dei loro sogni. C’è un’altra e più felice congettura: che Stevenson sia riuscito nell’incredibile impresa di razionalizzare e “ordinare” un lacerante conflitto interiore proprio trasfigurandolo. Solo una (ludica) lettura postromantica?

La creazione è un concetto pieno (naturalmente intriso?) di mistificazioni. È alterazione e trasfigurazione e traduzione dell’esperienza. La nostra specie sembra sempre meno in grado di conoscere l’alterità, perché vive ri-conoscendo. Abbiamo incenerito l’immaginazione: il traguardo è sondare nuovi e più profondi abissi nella mente. Metempsicosi o memoria genetica: schierati, lettore, a seconda del tuo (grottesco?) materialismo. Ma non dimenticare che Stevenson ha giocato a trasfigurare la scissione (la disgregazione) della propria anima commettendo apparentemente solo un peccato: voler illudere che esistessero esclusivamente un uomo di conoscenza e un assassino. Perché quella mente non era soltanto popolata di Jekyll e Hyde, ma nascondeva Utterson e Enfield, il razionale grafologo Guest e il riservato maggiordomo Poole. Un delizioso demone legione, Tusitala, il narratore di storie. È morto più di un secolo fa, e dal suo tumulo domina l’oceano. Fine, torniamo alle consuete regole del gioco. Romanzo gotico di fine Ottocento…

EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE.

Robert Lewis (“Louis”) Balfour Stevenson (Edimburgo, Scozia, 1850 – Samoa, 1894), romanziere e saggista scozzese.

Robert Louis Stevenson, “Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde”, Mondadori, Milano, 1985. L’edizione ospita anche il racconto “Il trafugatore di salme” e il saggio “Un capitolo sui sogni”, finora inedito. Introduzione, cronologia, bibliografia e traduzione a cura di Attilio Brilli.

Il romanzo è strutturato in dieci capitoli, provvisti di titolo e non numerati. Il libro è stato scritto tra settembre ed ottobre del 1885 a Skerryvore Cottage, Bournemouth. “Jekyll fu concepito, scritto e riscritto e stampato nel giro di dieci settimane” – annotò Stevenson – “per un paio di giorni mi tartassai il cervello per trovare una trama di qualsiasi genere; la seconda notte sognai la scena della finestra e un’altra scena che avrei poi suddiviso in due (…); tutto il resto lo composi da sveglio, in assoluta lucidità”.

Prima edizione dell’opera: “The Strange Case of Dr. Jekyll and Mr. Hyde”, London, 1886.

Gianfranco Franchi, settembre 2003.

Prima pubblicazione: Lankelot.

“Jekyll fu concepito, scritto e riscritto e stampato nel giro di dieci settimane” – annotò Stevenson – “per un paio di giorni mi tartassai il cervello per trovare una trama di qualsiasi genere; la seconda notte sognai la scena della finestra e un’altra scena che avrei poi suddiviso in due (…); tutto il resto lo composi da sveglio, in assoluta lucidità”.