Lo sguardo della paura

Lo sguardo della paura Book Cover Lo sguardo della paura
Filippo Tuena
Leonardo
1991
9788835501251

1991. Trentottenne, Filippo Tuena esordisce come narratore pubblicando il michelangiolesco romanzo “Lo sguardo della paura”, un giallo archivistico-antiquario, subito salutato da un riconoscimento di tutto rispetto: il “Premio Bagutta-Opera Prima”. Su “Repubblica”, Isabella Mazzitelli glossava, a fine novembre 1991, spiegando il senso di questa prima, credibile affermazione tuenia, che il Bagutta era e rimaneva un “premio schivo, fin troppo lontano dai riflettori e dall'interessata cura degli editori, e forse anche per questo cresciuto in una capricciosa, conviviale, bizzarra e assoluta libertà di giudizio”: in altre parole, un premio inequivocabilmente caratterizzato da “leggendario rigore”. Immagino che la giuria abbia apprezzato, al di là della singolarità della personalità autoriale – si fatica infatti a ricordare un romanzo giallo scritto da un antiquario, a certi livelli – diversi momenti di bella scrittura, qualche buona descrizione e una discreta eleganza.

“Lo sguardo della paura” è la rocambolesca indagine di un antiquario su una manciata di lettere antiche, comprate senza convinzione da uno zio artista caduto in disgrazia: un'indagine filologica che, passando per biblioteche, archivi e robuste collazioni si risolve restituendo il segreto iniziatico d'un disegno di Michelangelo. Lo spirito che anima la ricerca dell'antiquario, Filippo Tuena, sembra coincidere con quello originario, primitivo della sua scrittura; ha qualcosa di nobile: “Lei non ha pensato che io sono un dilettante; e cerco di esserlo nel senso più profondo del termine. Voglio divertirmi. Faccio queste ricerche come altri potrebbero giocare al pallone, o risolvere sciarade, o collezionare avventure erotiche. Ho un altro lavoro, che mi dà di che vivere. Dunque mi occupo di archivi e biblioteche seguendo soltanto il mio estro. E non potrei divertirmi se non scegliessi da me l'argomento delle mie ricerche. Anzi, spesso accade il contrario: è l'argomento che sceglie me. Allora, non posso far altro che seguirlo, ne vengo travolto, e questo è tutto. Non lo faccio per denaro, né per la gloria che potrebbero darmi le cinquanta persone che mi leggono. Lo faccio soltanto perché non posso farne a meno” [p. 141].

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Sin da questo esordio, s'intravedono notevoli capacità descrittive; Tuena, come tutti gli scrittori visivi, sa essere decisamente pittorico. Non stupisce che in un libro che va nominando, a un tratto, la serie di ritratti degli alienati di Gericault appaiano schizzi vividi di questo genere: “Eliseo, il suo viso glaciale, il suo corpo magro e stanco, lo vidi distintamente, seduto su una sdraio, sotto il porticato, che fissava, lui immobile, la mobilità del fuoco. Accanto aveva un cane tenuto alla catena che appoggiava il muso sul bracciolo della sdraio” [p. 22]. Più avanti, ecco Spiegel: “Un viso di cera, immobile, lucido, grigio, su cui stentava a formarsi un sorriso di circostanza. Dietro gli occhiali dalla montatura d'oro brillavano due occhi luminosi e sopra la fronte lucida aveva dei sottili e lucenti capelli bianchi. Alcune piccole venuzze viola, frastagliate come coralli, segnavano le guance e il naso. Profumava di lavanda e, ai piedi, portava delle pantofole di cuoio” [p. 44].

E allora, come ci si poteva forse aspettare, risultato simile si registra quando Tuena racconta la città en plein air. Villa Medici: “Mi affacciai dalla finestra dello studio. La vista dominava l'intera città. Il suo respiro, sornione e sciroccoso, raggiungeva le cupole delle chiese, i tetti dei palazzi sotto di noi, ma non le altane della villa, edificate per eluderlo grazie alla loro altezza. E da quella posizione, chiunque vi si trovasse poteva ben dire di dominare la città e di porre il proprio orizzonte sopra e al di là dei suoi nebulosi fumi” [p. 38].

Altro buon risultato descrittivo quando Tuena mostra d'aver interiorizzato la lezione del Baedeker: entriamo a San Pietro in Montorio, uno dei luoghi misterici di Roma, sull'ottavo colle, il Gianicolo: “La chiesa è a croce latina, con abside e transetti brevi, quasi monchi, ed a pianta absidale, minuta e raccolta; del tutto estranea agli eccessi dell'architettura ecclesiastica romana. Per queste sue caratteristiche, viene spesso usata per celebrare matrimoni. Le sue dimensioni ne denunciano un'origine assai più antica delle sovrastrutture rinascimentali che appaiono evidenti all'occhio del visitatore. È dedicata a san Pietro perché si credette (pare a torto) qui avvenuto il martirio dell'apostolo; quanto al nome 'Montorio', ha una sua vicenda che dovette prima incuriosire e poi soddisfare la voglia di lusso del cardinale. Deriva dal latino 'mons aureus', credendo gli antichi che il Gianicolo, dalla terra color paglierino, nascondesse una vena d'oro o, meglio ancora, fosse esso stesso una montagna del prezioso metallo luccicante” [p. 52].

Altrettanto notevole, in questo senso, la forse inattesa descrizione di Caprarola, “una delle magnifiche follie dell'arte italiana”: “lo è nell'impianto architettonico: un pentagono che appare come un quadrato dall'esterno e come un anfiteatro dal cortile interno. Ma lo è pure per il dominio che la sua mole esercita su di un paese senza ragione se non quella di far da cornice a quell'ambiguo solido geometrico. […]. Il Vasari lo chiama 'ricchissimo e reale villaggio', ma la realtà sembra contraddirlo. È una terra abbandonata, periferica. La logica di quel palazzo è nell'isolamento [...]” [p. 97].

Deliziosa, infine, la battuta che sgretola per sempre l'Istituto di archeologia e storia dell'arte di palazzo Venezia: “un fantastico esempio di biblioteca fantasma, di mastodonte rantolante, praticamente inutilizzabile” [p. 35].

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Punteggiano la narrazione, battute da antiquario professionista: vanno ricordate almeno quelle dedicate al segreto della porcellana dura, scoperto dal Böttger nel XVIII secolo cercando la pietra filosofale [p. 15] e quella dedicata alla mobilità delle opere d'arte, costrette dai capricci dei collezionisti e dall'alternarsi della fortuna e della moda a un'esistenza raminga [p. 85]; altrettanto impressa rimane la descrizione della riuscita lettura di scritti antichi qualche secolo, vissuta come una simbiosi [p. 30]. Tutto ciò è particolarmente riuscito e piacevole. Invece mi sembra funzionino poco il ritmo della narrazione, forse inevitabilmente fiaccato da qualche rallentamento e da qualche ripetizione, e la rappresentazione del dialetto romanesco, episodica ma molto forzata, e sghemba. La cornice del romanzo, ciclica – si parte dall'epilogo, e all'epilogo si torna – è leggermente manierista; il promettente personaggio dello zio artista matto e povero, Eliseo, si squaglia sul più bello in una fuga al seguito di un gruppo di improbabili zingari sabini. Tutte pecche e ingenuità classiche di un'opera prima: al di là di “Fame” di Knut Hamsun, e di poche altre eccezioni, è difficile che un bravo narratore esordisca mostrando una tenuta praticamente perfetta, e un passo regolare.

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Chiudiamo con una curiosità. L'artista ha ricordato il curioso incontro con il suo primo editore di narrativa in una recente, interessante intervista rilasciata a “Collettivo Mensa”: “Il primo romanzo lo spedii un po’ alla bruta, con la dicitura: ‘gentile casa editrice’. Poi, dopo un anno, iniziarono ad arrivarmi i primi, tragici, rifiuti. Dopo questi numerosi rifiuti mi arrivò una telefonata improvvisa di Giuseppe Pontiggia, che mi disse di aver letto il testo, e di volermi proporre alla Mondadori. A quel tempo facevo l’antiquario, ed entrò in bottega, per una fortunata coincidenza, Leonardo Mondadori. Io gli dissi subito che avevo un libro in attesa nella sua casa editrice e lui mi chiese se ne avessi una copia del manoscritto da leggere nel suo viaggio che avrebbe fatto a Capri. Inaspettatamente mi chiamò, tre giorni dopo, dicendomi che lo avrebbe pubblicato nella sua casa editrice che aveva fondato andandosene dalla Mondadori. Poi, pubblicato il primo con la 'Leonardo', è stato tutto più facile”.

“Lo sguardo della paura” ha avuto, ad oggi – 15 marzo 2013 – una sola edizione, quella Leonardo, 1991. Segnalo, a beneficio di tutti i cultori delle opere michelangiolesche dell'artista capitolino, che le radici di “Michelangelo. La grande ombra”, “Michelangelo. Gli ultimi anni” e soprattutto de “La passione dell'error mio” sono queste qui. E la fine del discorso forse la conoscete già...

EDIZIONE ESAMINATA E BREVI NOTE

Filippo Maria Tuena (Roma, 1953), scrittore e antiquario italiano, laureato in Storia dell'Arte alla Sapienza.

Filippo Tuena, “Lo sguardo della paura”, Leonardo, Milano, 1991. Premio Bagutta-Opera Prima. ISBN: 9788835501251.

Approfondimento in rete: Oblique + Wiki it

Gianfranco Franchi, marzo 2013.

Prima pubblicazione: Lankelot.

“Lo sguardo della paura” ha avuto, ad oggi – 15 marzo 2013 – una sola edizione, quella Leonardo, 1991. Segnalo, a beneficio di tutti i cultori delle opere michelangiolesche dell’artista capitolino, che le radici di “Michelangelo. La grande ombra”, “Michelangelo. Gli ultimi anni” e soprattutto de “La passione dell’error mio” sono queste qui. E la fine del discorso forse la conoscete già…