Lavieri
2011
9788889312933
“Non leggo romanzi. Non posso leggere romanzi. Voglio leggere e non posso accettare la storia che racconta un romanzo. Dopo un paio di pagine mi concentro nel cercare di vedere non quello che si racconta ma come me lo raccontano. Non vedo la storia ma il modo in cui la storia si presenta. Mi perdo nell'orditura del quadro e non vedo i colori. È come osservare il paesaggio con un microscopio, non si vede la bellezza della totalità. Allora smetto di leggere” [Liscano, “Lo scrittore e l'altro”, 3, p. 14].
Questo libro è la storia di un'indagine e di una scarnificazione. A essere indagata, è l'anima di un artista, un'anima scissa in due robusti e ben diversi tronconi. A essere scarnificata è la sua vita, nel folle sogno di raggiungere e rappresentare una verità assoluta, unica, incontrovertibile: in altre parole, l'essenza.
“Lo scrittore e l'altro” non è soltanto scrittura che medita sulla scrittura; o sul senso e sui significati dell'esistenza di chi alla scrittura si è consegnato [stavo per dire: consacrato. Forse non avrei sbagliato]. È, piuttosto, scrittura che finisce per andare ad abbracciare una persona che si sta disintegrando, ferita com'è dalle cose della vita, e va a restituire ordine, disciplina, direzione: ruolo, potenzialità, senso.
Liscano riesce in questa impresa – riesce a entrare e a uscire dal labirinto; meglio, riesce a mostrare una strada, nel labirinto – perché non ha paura di farsi del male, non ha più paura del male. È onesto. “Scrivere è questo, partire senza sapere dove si va a parare. Senza neppure sapere se si arriverà da qualche parte. Scrivere è un'arte immobile, mi dico” [3, p. 14].
Liscano è onesto e lucido, e sconsolato. “Scrivere sulla letteratura è una scusa. Per non scrivere sulla vita. La mia vita. Non c'è niente da scrivere sulla mia vita. Solitudine, reclusione obbligata, reclusione volontaria. Sporadiche ansie d'infinito” [5, p. 16].
Ed è così onesto, lucido e sconsolato che quando si confessa sembra sia ubriaco: “Non sarà che mi sono fatto un'immagine di me stesso, che mi sono inventato un individuo che non esiste, e che per dimostrare che invece esiste, mi costringo a scriverlo? Forse è un modo per dire: guardate, nemmeno io credo in me, ma qui c'è l'opera, ci sono i libri, e per questo anch'io devo accettare che esisto” [10, p. 21].
E quell'invenzione dell'identità da scrittore è successa parecchio tempo prima. E a un tratto, scrivendo, e scrivendo di scrittura, e di cosa sia uno scrittore, Carlos Liscano è tornato indietro, ha guardato nel passato, e ha capito cosa può essere successo.
Ha capito che da giovane stava vivendo per nutrire lo scrittore Liscano: nel bene e nel male, nelle sofferenze e nelle attese, nelle gioie e nelle frustrazioni, nei desideri e nei rimpianti, la sua esistenza era allora diventata il vivaio della creatività del suo alter ego artista. Lui scrive qualcosa di più drastico, e crudele: scrive che Carlos Liscano era il servo dello scrittore Liscano. Perchè “lo scrittore è un'invenzione del servo. Come per tutti i servi, nessuno gli dà importanza. Il servo, che conosce come nessuno la debolezza e la miseria del padrone, finge di non avere niente a che fare con lui” [p. 60].
E scrive Liscano che lo scrittore è l'opera maggiore dello scrittore, e che lo scrittore è una finzione, perché si costruisce e ricostruisce continuamente. È lui la sua opera principale. Già, ma a che prezzo?
A un prezzo del genere. “Ho una grande capacità di stare da solo. Non soltanto da solo: in solitudine, senza ascoltare musica, senza rispondere al telefono, senza neppure esistere. Non che io lo cerchi, è così. In solitudine, in silenzio, immobile, io sono” [18, p. 34].
Una scrittura nata nella fede e nella violenza, espressione di quella fede e di quella violenza, ha finito per disintegrarsi, per liquefarsi nel presente: un presente in cui l'artista sogna di poter trovare qualcuno con cui parlare per parlare, senza domandarsi né domandare niente. Forse perché “la scrittura insegna a parlare con se stessi. Non sono sicuro che insegni a parlare con gli altri”. Forse perché uno che è stato per tredici anni in galera, perché aveva disobbedito al regime e voleva rovesciare il regime, è uno che se ne è andato per sempre, come cittadino, e non può più tornare indietro. Forse perché Carlos Liscano, il ragazzo di ventitre anni uscito di galera a trentasei, nel 1985, dopo una prigionia dovuta a reati politici, è morto: la sua vecchia identità s'è impiccata negli anni del delirio claustrofobico del carcere, e da quelle ceneri è sorta l'identità di uno che cerca il senso nella letteratura – cioè nel più limpido rifiuto della realtà: nella più limpida forma di dissenso e distacco dalla realtà: nella più limpida strada per plasmare la realtà, per farla altra e nuova e umana – e indietro non può più tornare. Indietro c'è il dolore c'è il buio c'è il freddo ci sono le torture c'è la menzogna. E tutto il libro è puntinato di questi ricordi, della successiva esperienza svedese, della disillusione del vecchio socialista, della distruzione di quel mondo e di quei sogni in nome dei quali Liscano era caduto nelle mani del regime.
Forse un libro così si può scrivere soltanto quando si è vissuto abbastanza a lungo da aver preso le misure a tutti gli uomini, a diverse società, alla giovinezza, e a una stanza in cui si passa le giornate, in assoluta solitudine, sognando una parola che liberi dal male e dal dolore, e rigeneri il mondo, e annienti le violenze e le sofferenze. Ma quando si scrive un libro così ci stanno due strade. Una è quella che ha scelto Drieu, o che ha scelto Weininger, così giovane. L'altra è invecchiare, perché forse non è vero che quello è il finis terrae, perché forse non è vero che nec plus ultra, perché non è vero che non ha avuto senso niente.
"Scrivere è aprire la porta alla follia, che è quello che non devo. Scrivere dovrebbe essere un cammino per giungere alla contemplazione luminosa e così non aver bisogno di scrivere mai più. Anche se non si dovesse raggiungerla, un giorno o l'altro bisogna fermarsi, lasciare le parole al loro posto, non scrivere sulla vita, dedicarsi a vivere per davvero" [p. 62]. Appunto.
EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE
Carlos Liscano (Montevideo, Uruguay, 1949), scrittore uruguagio. È stato condannato dal regime militare dell'epoca a tredici anni di carcere, tra 1972 e 1985, per reati politici. Espatriato in Svezia, è tornato a casa nel 1996. Tra i suoi libri, fondamentale “La mansion del tirano”, scritto durante la prigionia, nel 1981.
Carlos Liscano, “Lo scrittore e l'altro”, Lavieri, S. Angelo in Formis, 2011. Traduzione e postfazione di Gianfranco Pecchinenda.
Prima edizione: “El escritor y el otro”, 2007.
Approfondimento in rete: WIKI fr.
Gianfranco Franchi, marzo 2012.
Prima pubblicazione: Lankelot.
Lo scrittore e l’altro” non è soltanto scrittura che medita sulla scrittura; o sul senso e sui significati dell’esistenza di chi alla scrittura si è consegnato [stavo per dire: consacrato. Forse non avrei sbagliato].