L’Italia dei poveri

L'Italia dei poveri Book Cover L'Italia dei poveri
Giovanni Russo
Hacca Edizioni
2011
9788889920626

Tenuta a battesimo da Mino Maccari nelle stanze del “Mondo” di Pannunzio, “L'Italia dei poveri” è un'appassionata raccolta di racconti-inchiesta firmati dal giornalista salernitano Giovanni Russo. Si tratta di scritti composti tra 1950 e 1957, senza pensare ad una futura pubblicazione in volume: sono pagine che erano rimaste, tendenzialmente, al di fuori dell'articolo commissionato dal giornale o dalla rivista. Sono pagine scritte da un intellettuale meridionale che prendeva e andava per le strade, per le fabbriche e per le campagne per raccontare spirito e condizioni di vita degli italiani: prediligendo quegli aspetti della realtà che giudicava “travisati dalle formule politiche, dal conformismo ufficiale, dalla propaganda di parte”. Sono pagine intrise di un bel sentimento: diciamo la piccola e romantica costola socialista di un lavoro monumentale come il “Viaggio in Italia” di Piovene.

Originariamente apparso per Longanesi nel 1958, quindi per Marsilio nel 1982, infine per Hacca nel 2011, “L'Italia dei poveri” abita gli anni, come ricorda il prefatore Giuseppe Lupo, della ricostruzione e del boom economico, “della guerra in Corea e della rivolta in Ungheria, dei primi voli spaziali e della tragedia mineraria di Marcinelle”. È l'Italia operaia in cui, dalle parti di Milano, a Sesto, si consegnava l'intera paga in famiglia, per farsi lasciare una mancia di due o tremila lire a settimana, per comprare le sigarette e andare a ballare. E questo fino al matrimonio. È l'Italia operaia in cui si lavorava a termine, con contratti da tre mesi, senza prospettive. Quella a cui stiamo tornando, dopo il disastroso e corrotto ventennio forzista. È l'Italia operaia che non esauriva la società nella fabbrica, e appena poteva prendeva e tornava al paese, dopo il lavoro, magari per andare a trovare i famigliari, per dare una mano in campagna. È l'Italia che stava alzando la testa dopo la sofferenza incredibile della guerra, è l'Italia che aveva deciso di ricominciare e non sapeva come – ma intanto, andava.

A Terni, per dire, c'erano baracche dove alloggiavano molte famiglie di operai, e nell'ex ospedale distrutto dalle bombe alleate ne abitavano una cinquantina. E da quelle parti, in particolare, l'acqua s'andava ancora a prendere coi secchi alla fontana. E il lavoro sembrava sparito: da anni diverse aziende non assumevano più, e parecchi cittadini non conoscevano bene nessun mestiere. La ragione è che nelle acciaierie e non solo erano stati ingaggiati tanti, troppi operai, nel primo dopoguerra, per assecondare le pesanti pressioni di diverse forze politiche. E così, negli anni Cinquanta, a un certo punto i posti si prendevano soltanto se si veniva raccomandati dalla cellula di partito, o dalla parrocchia, in certe fabbriche. E il partito che raccomandava i lavoratori era il partito comunista – che Russo ben conosceva e ben descrive. Sempre.

Veniamo a qualche altra cartolina di questa “Italia dei poveri” di Russo. A Roma, nel Palazzo dell'Eur, si teneva l'VIII Congresso del PCI: Togliatti aveva imposto “incondizionata approvazione dell'intervento armato russo in Ungheria, e definizione di 'fascisti' dei rivoluzionari”, tra profondi e ragionevoli contrasti. Un erede di Giolitti, per dire, tenne allora a puntualizzare che l'Urss non poteva proprio essere presa a modello, e che i comunisti dovevano accettare le libertà democratiche senza doppiezze di nessun genere. Divampò un furioso dibattito. Attraverso crisi come quelle, la libertà avrebbe fatto poco a poco ingresso nelle coscienze comuniste, osservò qualcuno. Aveva ragione.

Sempre a Roma, nel 1956, un amico toscano dell'autore commentava: “Roma è diventata come la Napoli di una volta: ci si imbatte a ogni passo in straccioni, miserabili e pitocchi. Sta diventando la nuova patria dei lazzari”. E Russo trovava avesse abbastanza ragione: una legione di poveri, diceva, marciava sulla capitale in cerca di lavoro e di fortuna, pronta ad arrangiarsi per campare, proveniente da mezz'Italia. Peraltro in città l'accattonaggio era una professione abbastanza lucrosa, giurava, tanto che sembrava addirittura regolamentata, su certi ponti, in certe vie.

Ancora una volta a Roma, nel 1956, i poveri – vale a dire “le persone prive di mezzi di sussistenza” - erano circa centomila. Roma era una città di quasi due milioni di abitanti che stava per diventare “la capitale degli affaristi che abitano in case di lusso o dei piccoli impiegati e burocrati che sacrificano il vino e la frutta per uscire in Seicento la domenica”. E queste Seicento sarebbero diventate così tante che a un certo punto ci saremmo ritrovati tutti in fila, a sbuffare. E il traffico sarebbe diventato una malattia brutta.

A Genova, nel 1950, sbarcavano poveri diavoli da mezza Italia: marittimi, ex borsari neri, contadini. Il porto era diventato il secondo del Mediterraneo, dopo Marsiglia. Lavoro non mancava. Si campava magari di espedienti, se le cose andavano male, e in quel caso si abitava dove capitava, dai dormitori pubblici alle stamberghe nell'ex convento di Santa Croce a Sarzano. Ma la città sembrava poter accogliere tutti. I genovesi un po' meno.

A Trieste, nel 1950, l'aria era ben diversa. La guerra non era finita. C'erano oltre seimila poliziotti, uno ogni quaranta persone, diecimila tra soldati inglesi e americani, diversi ufficiali alleati. Tredici alberghi erano ancora requisiti dagli Alleati. Assieme a quarantre palazzi, centoventuno ville, trecentotrentuno appartamenti, sessantaquattro negozi, due teatri, quindici uffici. La burocrazia s'era fatta elefantiaca: ottenere un certificato di residenza era un'impresa. Per la città vecchia s'incontravano spesso scritte di “off limits”, magari all'imbocco dei vicoli stretti, o di fronte certe osterie.

A Capodistria e Pirano i nostri compatrioti resistevano alla tentazione di partire alla volta di Trieste, perché speravano che alla fine di quel buio periodo sarebbero tornati a essere italiani, a casa loro: speranza tradita, come sappiamo. E così, qualche anno più tardi, i vaporetti sarebbero sbarcati a Trieste carichi di esuli. Ma questo Russo non ce l'ha raccontato – peccato, perché avrebbe saputo farlo meglio di tanti altri giornalisti.

“L'Italia dei poveri” torna nelle librerie, a distanza di trent'anni dall'ultima volta, per ricordare quanto è stato faticoso e difficile costruire questo paese, e quanto complesso vincere la miseria, e arginare il dramma dell'emigrazione – della facilità e della naturalezza dell'emigrazione, soprattutto dalla Campania in giù.

È una nuova edizione particolarmente gradita. Un'iniezione di memoria e di umiltà. Necessaria.

EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE

Giovanni Russo (Salerno, 19**), giornalista e scrittore italiano. Già inviato speciale del “Corriere della Sera”, collaboratore del “Mondo”.

Giovanni Russo, “L'Italia dei poveri”, Hacca, Matelica, 2011. Copertina di Maurizio Ceccato. Bandella e prefazione di Giuseppe Lupo.

Prima edizione: Longanesi, 1958. Quindi, Marsilio, 1982.

Gianfranco Franchi, Luglio 2011.

Prima pubblicazione: Lankelot.

Tenuta a battesimo da Mino Maccari nelle stanze del “Mondo” di Pannunzio, “L’Italia dei poveri” è un’appassionata raccolta di racconti-inchiesta firmati dal giornalista salernitano Giovanni Russo…