Einaudi
1957
9788806222642
“Il principe Tristano davvero delirava quando diceva che la notte è più bella del giorno! Io, da quando sono nato, non ho aspettato che il giorno pieno, la perfezione della vita: ho sempre saputo che l'isola, e quella mia primitiva felicità, non erano altro che una imperfetta notte; anche gli anni deliziosi con mio padre, anche quelle sere là con lei! Erano ancora la notte della vita, in fondo l'ho sempre saputo. E adesso, lo so più che mai; e aspetto sempre che il mio giorno arrivi, simile a un fratello meraviglioso con cui ci si racconta, abbracciati, la lunga noia...” (Morante, “L'isola di Arturo”, IV, “Regina delle donne”, p. 187)
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“L'isola di Arturo” è un romanzo di formazione non convenzionale: non certo per via della voce narrante adolescente (la memoria va almeno al “Grande Meaulnes” di Alain-Fournier), e non soltanto a causa dell'ambientazione isolana (Procida): non solo per la prorompente sensualità, e non per la grande capacità di descrivere le psiche dei personaggi della Morante. La novità dirompente, per il 1957 – anno in cui apparve, a circa dieci anni di distanza dal primo romanzo della Morante, “Menzogna e sortilegio” – è la rappresentazione della bisessualità paterna. Raccontare la formazione d'un adolescente, orfano di madre, non era forse innovativo; poteva risultare, al limite, patetico. Raccontare una sua attrazione per la matrigna, praticamente coetanea, era forse meno prevedibile; ma distruggere la figura paterna, mostrandola bugiarda, traditrice e avventurosa soltanto negli amorazzi maschioni e clandestini, è una soluzione che la Morante potrebbe condividere, nel 2010, con registi come Ozpetek o con Almodovar. Estremamente provocatoria, estremamente coraggiosa, comunque credibile.
“L'isola di Arturo” viaggia, sino al momento dell'agnizione dell'identità paterna, sul quieto binario della discreta prevedibilità dell'intreccio, e della sua grande tenerezza; scintillando per le introspezioni del giovanotto protagonista e per la sua capacità di raccontare i suoi amori, le sue passioni e le sue convinzioni; e brillando, qua e là, per le sue sempre meno incoscienti pulsioni erotiche nei confronti della matrigna. Ma quando arriva lo sganassone della rivelazione della vera natura delle lunghe e ripetute e misteriose fughe paterne, allora sì che la Morante indovina una dinamica spiazzante e vincente. Allora sì che decide di restare impressa nella nostra memoria, radicalmente.
Arturo racconta tutto di sé a partire dal suo nome (omaggio a una stella o al ciclo bretone), e dalla morte per parto di sua mamma, diciottenne. “Di lei, in realtà, io ho sempre saputo poco, quasi niente; giacché essa è morta, all'età di nemmeno diciotto anni, nel momento stesso che io, suo primogenito, nascevo. E la sola immagine sua ch'io abbia mai conosciuta è stata un suo ritratto su cartolina (…) adorazione fantastica di tutta la mia fanciullezza” (p. 11).
Sembra aver superato il dolore con naturalezza, ma qualcosa ci racconta quanto ne abbia sofferto: il suo odio per la morte. Un odio invincibile. Nemmeno la nomina nelle sue “leggi” bambinesche, in segno di “eleganza e sprezzo”: “scansavo tutti i miei pensieri dalla morte, come da una impossibile figura di vizi orrendi: ibrida, astrusa, piena di male e di vergogna” (p. 34). Ama tutte le prodezze, ama tutti i rischi, forse proprio perché odia la morte. La morte è l'unica macchia astrusa sulla sua realtà. Vuole distruggerla.
Vive in un'isola in cui “Le porte sono tutte chiuse, pochi si affacciano alle finestre, ogni famiglia vive fra le sue quattro mura, senza mescolarsi alle altre famiglie. L'amicizia, da noi, non piace. E l'arrivo d'un forestiero non desta curiosità, ma piuttosto diffidenza” (p. 14); Procida è sempre stato un paese di poveri contadini e di pescatori, e i rari “palazzi” sono conventi, chiese, fortezze o galere. Le donne vivono in una condizione ingiusta e arcaica; non scendono mai in spiaggia, perché è peccato sia farsi il bagno in mare che vedere altri che si tuffano. E bisogna stare molto attente ai pettegolezzi. Serve una condotta esemplare, al di sopra di qualsiasi sospetto. Sempre.
Idolo incontrastato dell'infanzia di Arturo è suo padre, Wilhelm, un tedesco naturalizzato, con tanto di cognome isolano (Gerace). Qualcuno sull'isola lo chiama “bastardo”, per le sue origini, e sulle prime il ragazzino pensa che sia un titolo onorevole, come margravio. Non è proprio così.
Sono poverissimi: Arturo ha un paio di calzoni e una maglietta di cotone corta e sbrillentata. Suo padre ha giusto un paio di calzoni in più. Assieme parlano in italiano – mai tedesco – ma l'italiano del padre è strano. Sembra inventato, selvatico: “e anche le stesse parole mie napoletane, ch'egli usava spesso, dette da lui diventavano più spavalde e nuove, come nelle poesie. Questo linguaggio strano gli dava, innanzi a me, la grazia delle sibille” (p. 32). Non ha neanche vent'anni più del figlio, ma ai suoi occhi è sacro e santo: è la legge, la certezza, l'eroismo, la ricchezza e la forza. È un totem. Per diventare grande, Arturo dovrà distruggere questo totem. Distruggendolo, dovrà stare attento a non ferirsi lui stesso. Per questo sarà meglio andarsene.
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La prima descrizione del fisico del papà è stupenda. Sentite qua: “Il suo corpo, nell'estate, acquistava uno splendore bruno carezzevole, imbevendosi del sole, pareva, come d'un olio; ma nella stagione invernale tornava chiaro come le perle. E io, che ero sempre scuro in ogni stagione, vedevo in ciò quasi il segno d'una stirpe non terrestre: come s'egli fosse fratello del sole e della luna” (p. 30). Gli occhi del padre, “turchino-violaceo”, somigliavano al colore di certi specchi di mare intorbidati dalle nuvole. Quando avanza per le strade è risoluto, “Come una vela nel vento”, e non guarda nessuno in faccia. Arturo gli va dietro, orgoglioso come un pazzo. Arturo è geloso di lui. Soprattutto quando Wilhelm non gli bada. Arturo detesta la sua distrazione. E quando magari prende e va a nuotare, è come se il mare fosse una sua sposa (p. 39): il piccolo vorrebbe poterlo accompagnare ovunque, e soffre per le sue ripetute, misteriose e presto leggendarie assenze.
Quando il padre decide di sposarsi con Nunzia, sedici anni, napoletana, Arturo neanche riesce a pronunciare il suo nome: non ne ha voglia. Lei però è bellissima, e ha una personalità molto diversa da quella di lui: è spirituale e religiosa (si circonda di madonne; crede negli spettri), e mostra un sentimento che lui nemmeno sospettava esistesse: la dolcezza. Poco a poco riesce a guadagnare la sua amicizia, e la sua considerazione. È un rapporto prima nutrito dalla rivalità, e dalla gelosia; quindi, man mano, quando lei rimane incinta e partorisce (Wilhelm non c'è, è di nuovo sempre in viaggio), il ragazzino s'accorge di sentire qualcosa per lei. Gli equilibri cambiano. Cambiano radicalmente. Tanto che pur di conquistare la sua attenzione Arturo è pronto a far finta di suicidarsi. La nascita del suo fratellastro, Carmine Arturo, non fa che spingerlo nelle sue braccia. Irrichiesto, e non ricambiato. A un tratto, ragazzino, capisce che il cuore, “nelle sue gare con la coscienza, è estroso, avveduto e fantastico quanto un maestro costumista. Per creare le sue maschere, gli basta magari una trovata da niente; a volte, per travestire le cose, sostituisce semplicemente una parola con un'altra... E la coscienza si aggira in questo gioco bizzarro come uno straniero a un ballo mascherato, tra i fumi del vino” (p. 262).
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Tutto quel che accade, da questo punto in avanti – un altro amore, il rifiuto del suo amore da parte di Nunziatella, la lenta e inesorabile rivelazione della natura paterna – serve semplicemente a guastare l'adolescenza di Arturo, a farlo “uomo”: a spingerlo ad andarsene dalla sua isola tanto amata, perché tutte le sue certezze sono state scardinate, e adesso è tempo, ora che non ha più pregiudizi né tabù da sfatare, di andare nel mondo per vivere la propria vita. Nelle ultime battute, in barca, mentre s'allontana per sempre da Procida, chiede al suo amico di avvisarlo quando alle sue spalle non ci sarà più altro che il mare – perché quello vuole vedere, dietro di sé, e non il suo passato.
Il passato fa letteratura, fa letteratura soltanto. In essa s'incarna, trasfigurato, e sempre meno solenne, e più vero. Più doloroso, soltanto.
EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE
Elsa Morante (Roma, 1912 – Roma, 1985), scrittrice italiana.
Elsa Morante, “L'isola di Arturo”, Einaudi, Torino 1957.
Gianfranco Franchi, marzo 2010.
Prima pubblicazione: Lankelot.
Il passato fa letteratura, fa letteratura soltanto. In essa s’incarna, trasfigurato, e sempre meno solenne, e più vero. Più doloroso, soltanto.