Guida
1985
Contorto, farraginoso, cervellotico ed eccessivamente e ingiustamente ambizioso, “L'isola dei condannati” è probabilmente il romanzo meno riuscito di Stig Dagerman. Non so se questo sia dovuto alle difficoltà della traduzione, più volte ribadite dalla curatrice, o semplicemente derivi dalla fragilità (non voluta: pretesa) della struttura del romanzo, estranea al raziocinio. Sta di fatto che questo libro è come una discesa in uno strapiombo – questo strapiombo è l'epifania del male – che si vive come una caduta libera, contrastata, contraddittoria, confusa. Dimenticate l'ordine, la linearità e la chiarezza del “Bambino bruciato”; accantonate la sensibilità e la gentilezza del doloroso reportage “Autunno tedesco”, o le voci dell'infanzia (rubata, ferita, inconsolabile) dei “Giochi della notte”. L'egoarchia dagermaniana è qui frammentata e scossa, scissa e compromessa; permane la ricerca di interazione diversa e migliore ma impossibile, tra i suoi personaggi, così come la successiva ritirata nell'interiorità. Ma come già anni fa scrivevo, parlando dei libri di Stig, “L’io è il rifugio: l’io è l’origine del male. Perché è l’io d’un genio della sofferenza o perché è l’io d’un essere (dis- , o sovra-) umano estraneo alla sua specie, forse”.
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“Sete, pensò Lucas Egmont, tutto è sete. Colpa, paura, le torture della coscienza, la crudeltà e la menzogna, tutto è sete, la fuga e la degradazione, la gloria e il desiderio di relazioni, tutto è soltanto sete” (p. 36)
Un'isola deserta, un pugno di naufraghi, uomini e donne. L'esistenza in pericolo ogni giorno, e intanto tutta una serie di flashback, di momenti del passato restituiti alla luce, ad avvolgere e confondere la narrazione, a farla scivolare regolarmente su un piano onirico, allucinato, caotico: ben poco dagermaniano. Lucertole e serpenti rossi sono presenze e simboli al contempo, tornano dal passato, aleggiando come cupi emblemi di predestinazione. La natura s'è fatta (s'è ripetuta?) ostile all'umanità; la realtà si tinge di delirio, di assurdo, di sangue. I personaggi emergono alla luce e poi sembrano sgretolati dalla luce dello sguardo lettore; sono creature degli abissi, maledette e tetre, e sgorgano male con una facilità eccessiva.
Secondo romanzo di Stig Dagerman, originariamente pubblicato nel 1946, “L'isola dei condannati” (“De dömdas ö”) è, nelle parole della curatrice, il racconto delle “perversioni di una cultura, quella luterano-europea, che se costruisce una grande solidarietà dell'organizzazione distrugge la volontà e il desiderio individuale di creare la propria esistenza. E allora l'azione individuale viene vanificata, destituita di significato” (p. 6). Diciamo che si dovrebbe, allora, confrontare il senso delle ambientazioni letterarie luterano-europee di naufragi nell'isola, a partire da quella ben famosa di Defoe. Il nodo, stavolta, è diverso: l'isola sembra una piattaforma, a Stig interessa fare a pezzi dei personaggi, come il vecchio capitano. Riesce nell'impresa. Dagerman umilia l'umanità delle sue creature, mostrando tutti i loro limiti, tutte le loro lacune, tutta la loro mediocrità; in questo senso, e in questo soltanto, il baricentro dell'opera è indovinato.
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“Qualcosa ci si rompe dentro dolcemente, le lacrime salgono agli occhi e stanno lì come termosifoni, prima di sciogliersi. Poi ogni cosa si collega all'altra in una catena infinita, presto non si vedrà né si ascolterà o sentirà niente che non sia immediatamente collegato all'oggetto del dolore, e ogni volta che questo emerge c'è un'esplosione dentro di noi, forte, scioglie le lacrime, uno strano narcotizzante dolore se ne va dal diaframma verso l'alto, poi le esplosioni diventano deboli, infine non sono più segnate da intervalli. Adesso piangiamo come in continuo calmo e scorrevole, da molto tempo abbiamo deciso di asciugarci le lacrime, attraverso il pianto abbiamo anche una sensazione al naso stranamente sana e pura, come quando si mangiano pastiglie per la gola” (p. 89)
Ecco, chiudiamo così con questi due frammenti. Quello appena trascritto e il successivo parlano – una volta ancora – di sofferenza, di pianto, di solitudine. Mi sembrano degni campioni della scrittura di Stig, e probabilmente proprio frammenti come questi saranno quel che rimarrà di questo libro. Isole dell'isola, in un certo senso, gioia dei suoi aficionado e degli studiosi di letteratura svedese.
“Siamo soli nello spazio, buttati nello spazio come una zattera in mare, nudi come il centro di un tiro a segno, non sfuggiremo alla sentenza e tutto può accadere. Possiamo aspettarci aquile o sparvieri che precipiteranno su di noi cadendo dalle stelle, dato che ognuno di noi è la sola cosa tenera al mondo, qualcosa in cui affondare un becco, conficcare un artiglio, aspettiamo che meteore o altri oggetti ci lacerino il petto nudo contro l'infinito, e invece succede soltanto che lo spazio si mette a cantare, a cantare di solitudine, 'soltanto' – ma no, non è 'soltanto', è spaventoso” (p. 153)
Tutto qui. L'edizione, attualmente irreperibile (Guida, 1985) in libreria, circola fortunosamente per bancarelle e librerie dell'usato. Là, a Bologna, ne ho rimediata una. Va a completare il mio scaffale, ma non vi nascondo che sognavo fosse qualcosa di degno della fama dell'artista, e del grande amore che tanti proviamo per la sua letteratura. Così non è.
EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE
Stig Dagerman (Älvkarleby, 1923 – Stoccolma, 1954), scrittore, poeta, saggista, sceneggiatore svedese. Diresse “Storm”, giornale della gioventù anarchica. Debuttò pubblicando il romanzo “Il serpente” nel 1945.
Stig Dagerman, “L'isola dei condannati”, Guida, 1985. Collana “Archivio del romanzo”, 21. A cura di Vanda Monaco Westerstahl.
Prima edizione: “De dömdas ö”, Stoccolma, 1946.
Gianfranco Franchi, “Lankelot”. Luglio 2009.