L’invenzione della morte

L'invenzione della morte Book Cover L'invenzione della morte
Hubert Aquin
Il Sirente
2010
9788887847246

“È una buona cosa ritrovarsi soli in una camera d'albergo ben chiusa, camminare nudi sul tappeto in fibra, guardarsi a lungo allo specchio e decifrare sul proprio viso i segni che si è abituati ad analizzare sulle linee della mano. Attendendo che la vasca da bagno si riempia fino all'orlo, mi guardo nudo nel riflesso dello specchio, come un ricordo stereotipato. Il pallore, è il sovraffaticamento degli ultimi mesi al giornale. Le occhiaie violacee, e il peso invisibile che tira le labbra verso il basso, è Madeleine. Negli d'occhi d'un blu spento, che mi trafiggono freddamente, riconosco la mia disperazione, o forse la follia. Ho il volto dell'autunno che finisce” (Aquin, “L'invenzione della morte”, p. 5).

Primo libro scritto da Hubert Aquin, scrittore e intellettuale francocanadese morto suicida nel 1977, nemmeno cinquantenne, “L'invenzione della morte” è apparso postumo nel 1991. Siamo dalle parti della scrittura scarnificata, idealmente curativa: siamo dalle parti di quel disperato tentativo di guarigione dalle ferite dell'anima che a volte riesce nel miracolo, altre volte semplicemente annuncia il sentiero dell'autodistruzione. In questo frangente, si direbbe che l'esorcismo sia riuscito. La morte chiamata e invocata come una liberazione dal presente e dal niente l'artista è riuscito a scacciarla per un bel pezzo. Ma non ha saputo resistere dalla tentazione di essere padrone di darsela, qualche anno più tardi.

“L'invenzione della morte” è la storia di René Lallemant, giornalista di un buon quotidiano del Quebec in crisi esistenziale, e del suo grande e clandestino amore per Madeleine. Lui è uno che sembra massacrato da un male di vivere che non conosce fine, né origine. “Della mia vita – scrive – io non conosco che i tempi morti. […]. La morte è divenuta un'abitudine, la vita un piacere rubato al caso” (p. 24). Le sue medicine – le soluzioni al male – sono il corpo di Madeleine, e il whisky. Niente altro. L'amore con lei sa essere quello “dei due amanti novelli, appena scaturiti dal fango della terra” (p. 41). La sofferenza di René è l'incontro col nulla: la coscienza di nulla sentire. E che nulla esiste.

Così: “Non provo più nulla, sprofondo lentamente nell'inesistenza. Il mio corpo è un ricordo, il mio viso lo stampo impaziente d'una maschera mortuaria. Il piacere, che cos'è in fin dei conti? Io ho disimparato l'estasi e il suo arrivo abbagliante attraverso i canali segreti del sesso. Io non so più nulla […] Ciò che ora temo di più è il sonno” (p. 57).

René crede che il linguaggio sia un'abitudine. Che serva una “lenta fermentazione del sentimento” e una sorta di “consenso ante litteram” per correggere il destino di due lessici che non comunicano. E intanto avanza, sul sentiero del niente – preparandosi al male. “Io non ho più paura di nulla” - scrive. “L'angoscia mi ha abbandonato strada facendo; l'angoscia, in fondo, non è che un derivato della speranza, e io sono senza avvenire” (p. 125).

Si sente solo. È solo. È stanco di nascere e morire due volte a settimana, tra le braccia di Madeleine. Vuole suicidarsi per questo, vuole fuggire da tutto il resto. La sua disperazione va facendosi calma, man mano. È come se René avesse fame di finirla: è come se pretendesse la sua sconfitta, il suo annientamento. Tutto è finito, proprio come ha scritto al principio del viaggio. “Tutto è finito”: una frase “che non vuol dire niente, non contiene niente, e comunque sembra la brutta copia di un melodramma. Nessuna espressione può coprire adeguatamente la morte del reale e la distruzione di ogni significato” (p. 153). Vero? Davvero è così? Il Novecento è stato il secolo d'un nuovo genere narrativo: chiamiamolo “narrativa suicida”. E l'impresa di questa narrativa suicida, e di questi narratori (di lì a poco) suicidi, è stata proprio rappresentare “la morte del reale e la distruzione di ogni significato”. Qualche esempio: naturalmente penso al “Fuoco fatuo” [1931] di Drieu La Rochelle che Aquin non poteva non avere letto. Penso a tutto quel che scrisse il povero Jacques Rigaut. Penso al nostro Guido Morselli, col magnifico “Dissipatio H.G.” [1973]. Penso ai “Taccuini” del povero Otto Weininger [1903]. Potrei andare avanti a oltranza, mi fermo qui. Che c'è che non va? C'è che dopo tanti anni di lettura di narrativa suicida comincio a sentirmi stanco di scrivere sempre lo stesso articolo. E ho già letto “Il Dio selvaggio” di Al Alvarez [1971], per dire. E ne ho scritto. Aquin sembra un discreto narratore, espressione d'una letteratura sin qui chiaramente derivativa ma non sempre minore come quella canadese in lingua francese. La sua letteratura non rappresenta niente di nuovo, e così la sua smania autodistruttiva, tutt'altro che infrequente tra gli artisti. Diciamo questo, ho scoperto Aquin pensando “un altro ancora”. E l'ho letto senza stupirmi più di niente. Perché ben conosco questo “niente”. Avanti il prossimo.

EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE

Hubert Aquin (Montréal, Canada 1929 – Montréal, Canada 1977), scrittore, sceneggiatore, regista e giornalista del Québec. È stato direttore della rivista “Liberté” dal 1961 al 1971 e direttore editoriale delle Editions La Presse negli anni Settanta.

Hubert Aquin, “L'invenzione della morte”, Il Sirente, Fagnano Alto 2010. Traduzione dal francese di Maria Antonietta Fontana.

Prima edizione: “L'invention de la mort”, 1991.

Gianfranco Franchi, novembre 2010.

Prima pubblicazione: Lankelot.