Guanda
2013
9788823501720
Una totalizzante dedizione all’arte, un’amara rassegnazione all’estraneità ai ruoli e alle consuetudini della società, una travolgente e toccante spiritualità: il Vincent Van Gogh delle lettere è trascinante e profondo, esasperato e scintillante di fede nella pittura e nell’umanità, sinceramente alieno a qualsiasi questione economica e tutto rivolto alla ricerca d’un’armonia che non potrà che derivare da una sorta di “sacerdozio laico” – il sogno del geniale pittore è un inesauribile studio e un inestinguibile processo di interiorizzazione dell’arte; e inevitabilmente, quindi, innovazione e sperimentazione, sulla scia dei grandi maestri. Millet è idolatrato senza interruzione di tempo, sin dalle lettere del 1873: ma l’epistolario, in genere, è un emozionante archivio di impressioni, suggestioni, sensazioni e note a proposito dei pittori d’ogni tempo. La scuola di Barbizon va a costituire, nell’immaginario di Van Gogh, la felicissima reincarnazione dell’Arcadia: e a quel modello si ispirerà nel momento più magmatico e contraddittorio della sua esistenza, purtroppo solo evocato nelle lettere destinate al fratello Theo – s’allude al periodo della tumultuosa relazione artistica con Gauguin, quando utopia pareva poter prender vita.
Non stupisce, considerando la spiritualità dell’artista e la sua sensibilità nei confronti dei poveri, dei lavoratori sfruttati e degli infelici, l’iniziale vocazione religiosa: Vincent voleva predicare, alleviare il male e denunciare le inaccettabili condizioni di lavoro degli operai e dei carbonari.
Fondamentale, a questo proposito, l’esperienza vissuta nel Borinage, al fianco di minatori malati, oppressi e depressi. Il suo linguaggio riflette questa predisposizione mistica: campioniamo, ad esempio, qualche frammento tratto da una lettera notevole, quella spedita da Amsterdam il 3 aprile del 1878: “Se si continua ad amare sinceramente ciò che è veramente degno di essere amato, e non si spreca il proprio amore per delle cose insignificanti, vuote e sciocche, si riceverà poco a poco sempre maggior luce e si diventerà più forti”: poco più avanti, emblematico questo passo: “Non abbiamo bisogno che dell’infinito e del miracoloso ed è giusto che l’essere umano non si accontenti e non sia soddisfatto finché non li avrà conquistati” (pp. 30-31).
Van Gogh adotta spesso la parola “meta”, agogna l’infinito: è un adoratore dell’arte, prima ancora d’essere pittore, un uomo invasato da una “fede incrollabile”. Coincidono amare e sapere: si veda, a questo proposito, quanto affermato nella lettera spedita da Cuesmes nel luglio del 1880: “(…) il miglior modo per conoscere Dio è quello di amare molto. Ama il tale amico, la tale persona, la tale cosa, quel che vuoi e sarai sulla via del sapere, ecco ciò che mi ripeto. Ma occorre amare con simpatia seria e intima, con volontà, con intelligenza e bisogna sempre cercare di saperne di più o meglio – questo conduce a Dio, alla fede incrollabile” (p. 57). Nella stessa lettera, poco prima, spiega in poche battute l’origine del suo disordine interiore: “Il mio tormento si riassume in questo interrogativo: a che potrei servire, come potrei essere utile in qualche modo, come potrei saperne di più e approfondire questa o quella cosa? Vedi, tutto questo mi tormenta continuamente e mi sento prigioniero, impotente a partecipare a tale o tal’altra opera. A causa di questo si diviene malinconici” (p. 56)
Nonostante le ripetute professioni di fede nell’arte e nell’umanità, traspare irregolarmente un senso di sfiducia nei confronti dell’alterità che strazia: Van Gogh afferma, ad esempio, che la tragedia interiore non appare all’esterno (p. 56), o che la vita stessa non faccia che mostrare all’uomo il suo lato “infinitamente vuoto, scoraggiante, privo d’ogni speranza (…) come una tela vuota” (p. 201), salvo poi voler accantonare, per ultima generosità nei confronti del fratello o per stoica resistenza al male, ogni depressione – e scolpire sulla carta le parole della speranza. “Per quanto vuota, vana e morta possa sembrare la vita però, chi ha fede, energia e calore umano, colui che sa qualcosa, non si lascia portare su una strada sbagliata per questo. Egli ci si butta e costruisce, in breve rompe, rovina” (Nuenen, ottobre 1884, p. 201)
Serenamente pronto ad accettare un’esistenza di stenti e privazioni, pronto a giudicare la miseria come mezzo per assicurarsi la solitudine necessaria per avanzare lungo il sentiero della ricerca artistica ed esistenziale (ma i due termini si devono considerare eteronomi: si sarà compreso), s’infastidisce quando l’amato fratello sembra dedicarsi a una difficoltosa integrazione nel sistema, come mercante d’arte, rinunciando alle sue ambizioni e alle sue velleità artistiche: in numerose circostanze si rivolge a Theo chiamandolo a sé, o richiamandolo alla sua sempre più trascurata vocazione per la pittura e la poesia. Vincent Van Gogh, in altre parole, rifiuta integralmente la realtà: esalta l’esempio di quei pittori che vivevano, come eremiti, d’un tozzo di pane e godendo della contemplazione d’una natura madre, sorgente e destinazione d’ogni pensiero e d’ogni attività. Una natura che, fatalmente, è intrisa di reminiscenze artistiche: per esemplificare, sarà opportuno annotare una percezione delle radici contorte, dei rovi e dei vecchi alberi; che, a distanza di un mese, in differenti lettere, sono sempre identificati con quelli che appaiono nella tela di Albrecht Duhrer “Ritter, Tod und Teufel” dal venticinquenne pittore (p. 39, p. 40: novembre e dicembre 1878).
Si veda, come esempio della singolare percezione della natura, questo frammento, tratto da una lettera spedita da Drenthe nel settembre del 1883: “La sera, quando una povera figuretta si muove attraverso il crepuscolo – quando quella vasta estensione di terreno spicca scura contro le delicate tonalità violastre del cielo vespertino ed è proprio l’ultimissima piccola linea blu scura all’orizzonte a separare la terra dal cielo – quello stesso punto esasperante e monotono può farsi sublime quanto un Jules Dupré. E le figure, uomini e donne, hanno proprio quello stesso tratto – non sempre sono interessanti, ma quando le si guarda con pazienza, si scopre di certo in esse qualche tratto che ricorda Millet” (p. 137).
È una mente vivacissima, costantemente ricettiva, pronta ad associazioni rapidissime e a collegamenti sempre fascinosi, pure nell’occasionale improbabilità: lucida nell’ammettere ossessioni, nel rivendicare la propria folle dedizione ad una e infine una sola causa, la pittura; orgogliosa nel rifiutare un ruolo nella società che sia altro da quello dell’artista.
La malinconia, nelle lettere a Theo, non è mai sentimento esclusivo, è sempre attutita; è evocata, ma non maledetta; constatata, riconosciuta, ma non ostentata. E, negli intenti dell’artista, “fattiva” (p. 53): “Pur di non abbandonarmi alla disperazione, mi sono incamminato verso una malinconia più fattiva possibile. In altre parole, ho preferito una malinconia con speranze, aspirazioni e ricerche, piuttosto che una malinconia tetra, stagnante e disperata” (Cuesmes, Luglio 1880: p. 53)
Destinato all’immortalità, l’infelice sognatore olandese, pur di non tradire il senso della sua ricerca, vedrà vacillare la sua mente: consapevole del deterioramento del suo equilibrio, e della degenerazione della sua lucidità, dopo diversi ricoveri preferirà arrendersi al male. A pochi mesi di distanza, l’empatico fratello, sconvolto dal suicidio di Vincent, s’ammalerà gravemente fino a morire. A testimonianza d’una dialettica intensa e stupenda, questo volume – il ritratto dell’anima di Van Gogh.
Qualche nota, per concludere, a proposito della struttura e della composizione dell’epistolario del pittore. Nell’introduzione, Mauro Giancaspro afferma che oggi siamo in possesso di 821 lettere, composte tra 1872 e 1890: 668 sono destinate al fratello Theo, delle quali 466 in olandese, due in inglese e 200 in francese. La corrispondenza con Theo conobbe un intervallo di due anni, tra 1886 e 1887, nel corso dei quali i due vissero assieme a Parigi.
La prima, incompleta edizione del corpus di lettere, risale al 1914. Il corpo completo apparve nel 1952, nell’edizione curata dal figlio di Theo, Vincent Wilhelm Van Gogh. A proposito di questa nuova edizione italiana, Giancaspro spiega: “Questa antologia propone una scelta delle numerosissime lettere a Theo lungo un percorso umano e artistico, snodato tra il 1873 e il 1890, che possa rendere più agevole la lettura, favorendo un approccio al cosmo dei sentimenti, delle passioni e dei processi creativi, integrando, tuttavia questo itinerario con alcune di quelle indirizzate alla mamma, alla sorella, alla mamma e alla sorella insieme e agli amici più vicini come Van Rappard e Bernard” (pp. 8-9)
EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE
Vincent Van Gogh (Groot Zundert, 1853 – Auvers-sur-Oise, 1890), pittore olandese.
Vincent Van Gogh, “Lettere a Theo”, Tullio Pironti Editore, Napoli, 2003. Introduzione di Mauro Giancaspro. Contiene sedici tavole fuoritesto. In appendice, un regesto biografico.
Prima edizione del corpus delle lettere: “Brieven a zijn broeder”, a cura di Johanna Gesina Van Gogh Bonger, Amsterdam, 1914.
Gianfranco Franchi, aprile 2004.
Prima pubblicazione: Lankelot.