Mondadori
2000
9788804484738
“Nel 1945 io e Kardelj fummo mandati da Tito in Istria. Era nostro compito indurre tutti gli italiani ad andar via con pressioni di ogni tipo. E così fu fatto” (Milovan Gilas)
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L'opera è strutturata in tre parti: “La questione giuliana”, “L'Adriatisches Künsteland”, “Istria Addio”. Nella prima, Petacco parte da quanto accadde il 7 ottobre 1954, con la cessazione dell'esistenza del Territorio Libero di Trieste e la suddivisione delle sue due zone – la Zona A, da Duino a Trieste, la Zona B, da Capodistria a Cittanova – rispettivamente tra Italia e (provvisoriamente) Jugoslavia. La ratifica della rinuncia italiana alla Zona B avvenne soltanto nel 1975, con l'ingiusto Trattato di Osimo. Quel 7 ottobre 1954 altre ventisette borgate (3.855 persone) appartenenti al comune di Muggia passavano alla Jugoslavia; i poveri abitanti, osservate le decisioni dei commissari inglesi, fuggirono a Trieste. Ci furono casi grotteschi: case tagliate a metà (cucina e camera da letto in IT, salotto e magazzino in Jugoslavia) e fattorie private di aia e pollaio. L'intero paese di Crevatini optò per l'esodo. Ci fu chi fuggì in Italia portandosi dietro pure i mattoni, perché gli slavi non potessero servirsene. Ben fatto. Paradossalmente, c'era andata bene: nei piani socialisti sovietici, 600mila italiani sarebbero diventati jugoslavi. Perché volevano rubarci anche Trieste, e un bel pezzo di Friuli.
L'esercito jugoslavo si assestò al confine, portandosi dietro autocarri pieni di coloni. Qualcuno cantava “Bandiera Rossa”, in italiano. Gli istriani erano stati abbandonati da Roma. La Jugoslavia si sarebbe autodistrutta, post caduta del comunismo, negli anni Novanta. Nata nel 1918, terminava di esistere e si autodistruggeva con lotte tra tutte le etnie che la componevano, non più unite dal semplice odio anti-italiano (“complesso di inferiorità”, secondo Petacco); tutte eccetto quella italiana, già vittima di una pulizia etnica ante litteram (p. 12), ridotta a poche migliaia di cittadini, alle spalle una diaspora di oltre 300mila persone.
Petacco ricorda che in buona parte la compresenza di slavi in città come Trieste derivava dall'antica politica asburgica, che voleva cambiare gli equilibri sociali integrando una sempre crescente componente slava: cattolica e filoaustriaca, slovena e croata, contrapposta a quella italiana, atea e irredentista (p. 13). I rapporti erano tornati normali quando molti slavi erano passati oltreconfine, post annessione di Trieste all'Italia, per evitare di fronteggiare la sua crisi economica. Durante il ventennio fascista, nazionalisti italiani s'erano spesso scontrati con nazionalisti sloveni e croati, in Istria; molti di essi abbracciarono il comunismo solo in funzione anti-italiana (p. 19). Mussolini, brutalmente, credeva che “l'etnia” dovesse muoversi per risolvere la “geografia”: e così, già nel 1923, chiuse le scuole slave, licenziando i maestri slavi e vietando ai parroci slavi di tenere messa nella loro lingua, qui in Italia; assieme, soppresse tutti i periodici slavi della regione. Un tribunale speciale per la difesa dello Stato punì col carcere o col confino circa duecento patrioti sloveni o croati, e comminò dieci condanne a morte. Nel 1927 Mussolini impose l'italianizzazione – dove necessaria – dei nomi dei paesi e dei cognomi di famiglia (terribile), tollerando qualche eccezione per i casati più antichi. Vale la pena ricordare che misure analoghe nascevano, prima di quelle italiane, in Dalmazia, per decisione di Belgrado: Petacco rileva che questi approcci brutali del fascismo rispondevano alle analoghe leggi jugoslave.
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La tradizionale ostilità tra serbi e croati aveva dato vita al movimento croato dei ribelli Ustascia, nazionalisti capeggiati da Ante Pavelic, ambiziosi di estendere i propri confini sino all'Isonzo e al Tagliamento, e precariamente alleati al fascismo. Nei terribili e atroci anni della Seconda Guerra Mondiale, nata dall'aggressività e dalla violenza tedesca e italiana, la Jugoslavia prima ratificò un Patto a Vienna con l'Asse, nel 1941, garantendosi la neutralità; quindi, per moti interni – incoraggiati da Francia e Inghilterra – rovesciò la decisione. Churchill si defini “eternamente grato agli eroici jugoslavi”. Hitler e Mussolini non gradirono, e scattò una mostruosa rappresaglia: 24 ore di bombardamenti tedeschi sull'indifesa Belgrado, senza interruzione. Che vigliaccata. Poi, attacco di fanteria; gli ungheresi che riconquistarono senza combattere i loro antichi territori, gli italiani che si spingevano sino a Lubiana (!) e a Karlovac, e poi sino a Ragusa, in Dalmazia, per ricongiungersi con le truppe reduci dall'Albania. L'esercito jugoslavo era distrutto; l'Asse non badò a disarmarlo. Grave errore. Quei fucili “daranno vita a un'epopea partigiana unica in Europa” (p. 32).
Divisi i territori tra Italia, Germania, Albania (Kosovo), Romania e Ungheria, la sola Croazia restava indipendente: completa di Bosnia, Erzegovina e di un pezzo di Dalmazia. In Montenegro, regno indipendente, ecco un rampollo della casata Savoia: la regina Elena era montenegrina e poteva vantare diritti.
I croati, intanto, sterminavano – ancora orrore – serbi, musulmani ed ebrei, nei loro lager. Sembra che le vittime serbe siano state tra 300mila e 500mila. Gli italiani difendevano ebrei (p, 49, fatti di Arbe) e serbi dalle persecuzioni croate (p. 39), opponendosi ai tedeschi e agli ustascia (fatti di Gospic, 1941: gli alpini sparano agli ustascia). La notizia, in questo disastro, è onorevole. Gli ustascia, man mano, si tedeschizzavano, in funzione scopertamente anti-italiana.
I partigiani comunisti titini, sin da subito, trattavano i “rivali” partigiani cetnici esattamente come tedeschi e italiani. Tito liquidava – letteralmente – tutti i partigiani che non si riconoscevano nella sua guida (p. 41); massacrò i cetnici (partigiani serbi filobritannici, monarchici) e riuscì a ostacolare la loro successiva collaborazione con l'Asse. A fine guerra, poté uccidere 75mila croati nei dintorni di Maribor, 30mila ancora nella foresta di Kocevlje; altri morirono nella “marcia della morte” verso i campi di lavoro. Già che c'era, Tito massacrò 12mila domobranci sloveni – assieme ad altri collaborazionisti (p. 121). Chiamatela pure democrazia. La stessa che dimostrarono quando occuparono Trieste, uccidendo e seviziando povera gente.
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Petacco sintetizza brutalità e violenze italiane e slave (p. 48: terribile elenco di fatti compiuti dagli italiani), senza dimenticare episodici atti di pietà; sino al settembre 1943, caduta del regime, e promessa nazista alla Croazia di potersi guadagnare Fiume, Zara e la Dalmazia tutta. Gli italiani si ritrovavano sotto il fuoco tedesco, ustascia e partigiano titino. La propaganda comunista annunciava vendetta contro italiani fascisti, col sostegno del clero locale (cfr. studi di La Perna): sarebbero stati cacciati i padroni, dicevano. “Non vogliamo l'altrui, ma il nostro non diamo” era uno slogan titino; intanto, reclamavano Venezia Giulia, Carinzia e Dalmazia. I comunisti italiani non vedevano negativamente la nascita di uno Stato Socialista in territori italiani; c'era chi, come Luigi Longo, era pronto ad accettare “l'annessione di Trieste e del Litorale alla Slovenia come un inevitabile fatto storico” (p. 55. Unreal). Cambiarono idea solo quando la Russia scomunicò Tito, nel 1948. Abbastanza tardi. Non impedirono nemmeno la devastazione dei cimiteri istriani, bieco tentativo slavo di cancellare la storia (p. 142).
Post 8 settembre, a parte Fiume e Pola e poche altre cittadine, i titini avevano occupato l'Istria. La loro fu, a tutti gli effetti, un'occupazione militare. Gli antifascisti italiani, i partigiani italiani comunisti, presto se ne sarebbero accorti: altro che bandiera rossa, l'ambizione era la bandiera jugoslava e la distruzione di quella italiana. Punto. Tito fondò un “Tribunale del Popolo” a Pisino, nuovo capoluogo di regione istriana: da quel momento ebbero inizio stragi di italiani. A capeggiare il tribunale, un avvocato di Zagabria; a decidere le sorti dei nostri fratelli, tre contadini. Tre contadini. Tre contadini. Questo boia di Zagabria, Ivan Motika, morirà novantenne nel 1998; per gli slavi, era stato un uomo degno di sedere in Parlamento. E bravi.
Petacco chiarisce: altro che caccia al fascista, quella fu “caccia all'italiano”. Rinchiusi nei sotterranei del castello dei Montecuccoli, a Pisino, vennero torturati, umiliati e “interrogati”; quindi, liquidati senza processo, oppure con processo-farsa. Atroce rilevare che tra i “giudici-carnefici” ci sono nomi italiani come quelli di Giusto Massarotto, tra i successivi leader dell'Unione Italiani dell'Istria (!), e Benito Turcinovich, accolto in seguito come “profugo anticomunista” in Italia. Terminati i processi-farsa, cominciarono le “uccisioni multiple e sommarie”. Falciati a mitragliate nelle cave di bauxite o infoibati, i nostri fratelli perdevano la vita, legati ai polsi con fil di ferro; “spesso però gli aguzzini si limitavano a uccidere il primo della fila il quale, cadendo nel baratro, si trascinava dietro i compagni di sventura. Molti venivano evirati e torturati prima dell'esecuzione, altri obbligati a spogliarsi di ogni indumento fino a trovarsi completamente nudi di fronte ai carnefici” (p. 59).
Nelle località costiere, gli jugoslavi cambiavano abitudine: “annegamenti collettivi”, con tanto di zavorra e fil di ferro. Sistema meno pratico della foiba, certo. Sembra, peraltro, che gli allegri eroi rossi si prendessero tempo per stuprare a oltranza le donne (pp. 61-62) prima di infoibarle: anche da morte. Che utopisti. Riuscirono anche a infilare una corona di filo spinato in testa a un parroco; in bocca, aveva i suoi genitali. Fantasia rossa. Si chiamava Antonio Tarticchio. Non mancarono giulive lapidazioni (Giuseppe Cernecca).
Tra gli infoibati, assieme agli italiani “fascisti”, tedeschi, ustascia, cetnici (!), neozelandesi dell'esercito UK. E qualche comunista italiano. Perché? Perché diceva d'essere italiano. Fu il caso di Antonio De Bianco e Nicola Carmignani. Le cifre sono poco chiare: oltre 10mila anime morirono nelle foibe. Nella sola foiba di Basovizza – l'unica rimasta in territorio IT, assieme a Monrupino – si calcola che siano stati uccisi 2000 cittadini. Per evitare la conta, gli jugoslavi distrussero archivi comunali e schedari dell'anagrafe (p. 60). Tattici.
Avevano un tetro rito, i massacratori comunisti: “Dopo l'infoibamento veniva lanciato sul mucchio dei cadaveri un cane nero vivo. Secondo un'antica leggenda balcanica, l'animale 'latrando in eterno toglieva per sempre agli uccisi la pace nell'aldilà'” (p. 64). Deliziosi. Nell'ottobre 1943, i tedeschi riconquistarono l'Istria e la Dalmazia; nasceva allora la loro nuova provincia del “Litorale Adriatico”. Era un antico progetto tedesco, stando a Petacco; capitale della provincia, Trieste. Goebbels e Hitler sognavano di inglobare anche il Veneto, negli anni a venire. Per ora, contava su Udine, Trieste, Gorizia, Pola, Fiume, Buccari, Veglia, Casta e Ciabar. Gli italiani provenienti dallo stivale dovevano avere il passaporto per entrare. I nazisti abbatterono monumenti (Capodistria: Nazario Sauro; Gorizia, Caduti) per stabilire le premesse d'una progressiva snazionalizzazione. A Trieste si giocò molto sulla nostalgia per la non troppo distante fortuna austriaca, figlia di sei secoli di dominio asburgico. Ma altro che Austria: i nazisti impiccarono 51 persone in via Ghega per rappresaglia d'un attentato dinamitardo, sterminarono ebrei e oppositori del loro regime nella Risiera di San Sabba (p. 87 e ss.), si mostrarono, al solito, infami e prepotenti.
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Nella nuova provincia, i collaborazionisti slavi non combattevano i partigiani comunisti: ma gli italiani, in quanto tali (p. 75). Adorabili, no? Nel frattempo Tito ordinava i bombardamenti alleati su Zara: 54 incursioni quasi consecutive, per “cancellare le orme secolari di italianità” e non per scopi bellici (p. 78). Rasa al suolo al 90 percento, migliaia di morti. Quando i comunisti entrarono in città, bruciarono i libri italiani (per tre giorni: communist style!), gli archivi comunali, l'anagrafe; abbatterono i Leoni di San Marco, e infine fucilarono, impiccarono e annegarono gli zaratini. Colpevoli solo di essere italiani: finirono “massacrati come cani”. Dei 22mila italiani di allora, 2mila morirono per mano partigiana, 4mila morirono sotto i bombardamenti alleati, gli altri fuggirono. Come scrisse il poeta croato Vladimir Nazor: comunista titino, è ovvio: “Spazzeremo dal nostro territorio le pietre della torre nemica distrutta e le getteremo nel mare profondo dell'oblio. Al posto di Zara distrutta risorgerà la nuova Zadar che sarà la nostra vedetta nell'Adriatico” (p. 112). Che Dio lo perdoni.
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Molti soldati italiani diedero vita alle truppe titine: la brigata “Italia” nasceva dalla “Garibaldi” di Spalato (duecento carabinieri e centinaia di militari) e dal “Matteotti” (Bosnia). Nel Montenegro, la “Garibaldi” includeva le divisioni “Venezia” e “Taurinense” (5mila italiani, più 11mila smistati altrove). Quei comunisti italiani che non volevano obbedire a Tito, ma solo al PCI di Trieste, venivano fucilati (Pezza, Dorino) stessa sorte valeva per gli antifascisti non comunisti, nazionalisti italiani (capitano Filippo Casini: fucilato con la moglie dai partigiani slavi). Scoccimarro, membro del governo del Sud, comunista italiano, fiancheggiava questa linea: “La Venezia Giulia – intimava – deve essere conquistata dai partigiani jugoslavi, e dai partigiani italiani che combattono con loro, prima dell'arrivo degli Alleati... I partigiani italiani che combattono con le formazioni jugoslave devono essere considerati a tutti gli effetti partigiani jugoslavi. Nella Venezia Giulia i soli patrioti sono quelli che combattono con gli jugoslavi” (p. 97).
Il PCI ha la coscienza molto sporca. Quando Tito occupò Trieste, il PCI fu l'unico partito a non venire messo fuorilegge. Curioso, nevvero? Molto.
Quanto ai partigiani italiani, tutti conoscete i fatti di Porzus, ormai (p. 104 e ss.): la brigata “Garibaldi-Natisone”, comunista e presto comandata dagli sloveni, massacrò la brigata “Osoppo”, composta da alpini, italiani e tutt'altro che disposti a venderci ai comunisti slavi. Sembra stessero cercando di collaborare con la Decima, per difenderci dai rossi. Non è provato. Il loro comandante, Francesco De Gregori detto “Bolla”, zio del famoso cantante, non voleva sporcarsi di rosso e venderci al nemico; così come il giovane Guido Pasolini, fratello di Pier Paolo, vent'anni appena. Verranno fucilati, e poi pugnalati e pestati, in nome della Jugoslavia e del comunismo. 37 dei carnefici furono graziati dall'amnistia di Togliatti, dopo regolare processo e condanna complessiva a 800 anni di carcere, nel dopoguerra. E bravo Togliatti. Ma Pertini sarà peggio di te. Ci arriviamo a breve.
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Gli slavi non volevano che si parlasse delle foibe. Quando nel 1975 Leone offre una corona d'alloro al cippo marmoreo della Foiba di Basovizza, senza peraltro aver omaggiato i caduti, essi accusano, con nota ufficiale dell'agenzia Tanjug, il Capo dello Stato di “avere ceduto alle pressioni dei neofascisti e delle destre” e di “aver offuscato le cerimonie del trentennale della Liberazione” onorando – reggetevi forte – un “monumento dedicato ai nazisti e ai fascisti”. Poche ore dopo, teppa slava rubava la corona d'alloro e le dava fuoco (p. 93). Accadeva soltanto trentacinque anni fa. Quando in Italia NON si poteva parlare della tragedia dei giuliani, degli istriani e dei dalmati.
Nel 1982, “Panorama” (non di Fiume: di Milano) cadeva nell'equivoco: pensate quanta disinformazione, per mano comunista, se addirittura su “Panorama” si doveva leggere che la foiba di Basovizza era “una grande tomba per fascisti” (p. 93). Accadeva soltanto ventisette anni fa. Non so se riuscite a realizzare. Ma ecco il colpo di grazia. Il peggiore in assoluto fu Pertini. Il partigiano Pertini non salutò i martiri suoi compatrioti, a Basovizza, umiliando la memoria di tanti italiani innocenti; politicamente, rifiutò di farlo, il partigiano Pertini. E andò soltanto alla risiera, a onorare i morti. Quell'uomo era Presidente della Repubblica. È stato una creatura vergognosa, in quel frangente, lurido. Anti-italiano, filoslavo, filocomunista. Lurido. Passerà alla storia – e con la dovuta infamia. Ma più ancora per aver graziato quel famoso brigatista “Giacca”, partigiano come lui, Mario Toffanin, assassino capo della brigata Garibaldi, massacratore della brigata Osoppo a Porzus: nel 1978, dopo anni di “esilio” tra Jugoslavia e Cecoslovacchia, “l'eroe” venne graziato. Con tanto di pensione militare dell'INPS, da noi tutti pagata, 670mila lire mensili. L'infame, morto soltanto nel 1999, abitava a Sesana, oggi Slovenia, a 500 metri dal confine italiano. Se voleva, veniva a trovarci, insomma: e coi nostri soldi. Non si pentì mai delle sue azioni e dei suoi omicidi, e dall'INPS pretese anche la pensione della moglie defunta. Tutto questo lo permise il Pertini immortalato – pazzia – come “presidente di tutti”. Tutti i comunisti, è il caso di dire. Come giudicare la scelta di assicurare la pensione a un boia? Comunista, e condannato all'ergastolo? Sarà bene non dimenticarsene, nei libri di storia. Io non me ne dimenticherei. E non mi dimenticherei nemmeno di quel quotidiano sloveno di Trieste, il “Primorski Dnevnik”, che nel 1945 festeggiava il ritrovamento di una nuova foiba in città: “Non è la prima e non sarà nemmeno l'ultima” (p. 128), annunciava, pomposo. Squisito.
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Nel 1998, la Garzantina ha aggiunto alla voce “Foibe” qualcosa di diverso da “Varietà di doline presenti in Istria”: ha parlato di “teatro di massacri di italiani”, per mano delle “truppe partigiane” di Tito. Accadeva solo undici anni fa. Undici anni fa. Ho detto: undici anni fa. Punto.
EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE
Arrigo Petacco (Castelnuovo Magra, La Spezia, 1929 - Portovenere, 2018), storico, giornalista e scrittore italiano.
Arrigo Petacco, “L’esodo. La tragedia negata degli italiani d’Istria, Dalmazia e Venezia Giulia”, Mondadori, Milano 1999. In appendice, Bibliografia e Indice dei Nomi.
Gianfranco Franchi, novembre 2009.
Prima pubblicazione: Lankelot.
Uno dei libri più coraggiosi di Arrigo Petacco…