L’era del porco

L'era del porco Book Cover L'era del porco
Gianluca Morozzi
Guanda
2008
9788850214037

MISIRIZZI

Lajos (come Detari, l'ex indolente e talentuosa mezzala del Bologna) preferisce non rivelare nome e cognome: è un narratore con una gran voglia di nascondere la sua vera identità. Lavora di notte, come impiegato, e di giorno, quando può, in un negozio di fumetti usati. Ha una trentina d'anni, e sta per rovinarsi magnificamente la vita. Ha scelto tre strade diverse: la prima, pubblicare il suo primo romanzo (“L'era del porco”) con un piccolo editore di progetto, della provincia di Reggio Emilia; la seconda, suonare in una rockband (i Sickboys) conosciuta giusto nel territorio; la terza, innamorarsi – proprio come il Kabra del primo romanzo di Morozzi, “Despero” - di un'altra musicista. In pieno stile Morozzi, sarà un amore sconclusionato, incompiuto e masochista: appariranno altre figure femminili, nel frattempo, regolarmente incapaci di sostituire la musa nel cuore del protagonista.

“L'era del porco” potete accoglierlo in due maniere. La prima, quella più semplice, istintiva e immediata, è quella di leggerlo come un buon romanzo satirico, storia di un giovanotto sfortunato e delle sue relativamente sfortunate passioni; Morozzi vi strapperà più d'una risata, raccontandovi ad esempio storie come questa...“Senti a me cos'è successo, ero in Russia, a un certo punto arrivo in un paese, vedo uno striscione, lo striscione dice Benvenuti idioti!, oh, ci crederesti?, era un raduno di scemi del villaggio, ogni villaggio mandava il suo scemo al raduno, forte, eh?” (p. 57).

… oppure sollazzandovi con i retroscena relativi alle presentazioni dei romanzi degli artisti esordienti o relativamente sconosciuti; quanti nutrissero ancora sospetti o dubbi a proposito di come possono andare le cose (ossia, di quanto possono realmente andar male), qui troveranno tutta una serie di risposte. Il lettore in vena di goliardia incapperà in un romanzo di formazione – a volerlo infilare in una gabbia, direi proprio che è questa qui – capace di prendersi gioco con intelligenza e personalità dell'editoria, dell'amore, della musica amatoriale, delle delusioni sentimentali, delle delusioni editoriali, delle delusioni di tutte le piccole band.

C'è una seconda strada. Quella che personalmente preferisco. È quella di accogliere e trattare “L'era del porco” come una tragicommedia. Non c'è granché da ridere considerando lo stato d'animo del personaggio principale: è solo, è incompreso, si danna per tenere in piedi i propri sogni (amore incluso) e sembra campare di briciole. Briciole dell'amore della donna che ama, che riuscirà a umiliarlo (per chi ha letto, dico solo: candela rossa. E aggiungo: vicenda dei cinquanta euro); briciole di successo artistico, perché non soltanto viaggia qua e là senza rimborsi per leggere frammenti del suo romanzo di fronte a sette, dieci persone, ma si ritrova a vivere il complesso della grande fortuna editoriale del padre. Un padre – per la cronaca – che aveva preso e tagliato la corda qualche anno prima, sparendo nel nulla e ritornando, per così dire, nella vita del figlio solo e soltanto come “narratore di fama internazionale”.

Briciole, in generale, di fortuna. Un po' di pace deriva dai suoi due grandi amici, dal calcio (e stavolta un personaggio spiega al narratore: ti piace il calcio perché è comprensibile e razionale, confortante e alieno alla realtà, p. 231), da qualche sbronza, dalle piccole gioie d'esser stato pubblicato e di aver strappato un pizzico d'intimità all'innamorata, Elettra. E poi? E poi ci sono una valanga di problemi. Un sospetto d'impotenza (triplice: e sinistro), calcoli renali, concerti di Bob Dylan visti a fianco di una fan – chiamiamola così per non rovinarvi tutto – sinceramente ossessionata, frustrazioni a tutto spiano, episodiche consolazioni. Da un certo punto di vista, è uno dei romanzi più amari che ho letto in vita mia. A un tratto mi veniva da chiedermi che senso avesse tutto questo sbattimento, per il narratore; se ci fosse una componente autopunitiva nell'insistenza abnorme sulle cause sbagliate, perché una forma di dedizione così eccessiva alle cause sbagliate è davvero troppo. Ho simpatizzato per questo povero cristo che, candela rossa a parte, diciamo così, ho sentito davvero come una sorta di lontano parente. È vero, c'è qualcosa di terribilmente idiota nell'avere fiducia nella piccola editoria; paga poco – quando paga – e fa spendere tanto, dal punto di vista dell'energia, del tempo, della speranza, della benzina, della fiducia in sé stessi. E stesso principio sembra guidare le relazioni con certi tipi di donna, che probabilmente ognuno di noi ben conosce. Lei, quella indolente, lunatica – lunatica è la parola d'ordine – imprevedibile, cattiva (senza volerlo, è chiaro), sicuramente ferita da qualcosa di tremendo e di indicibile (tanto indicibile che non viene fuori mai), artistoide (ma non necessariamente: artistoide nel caso delle donne di Morozzi. Dei libri di Morozzi, dico), naturalmente problematica dal punto di vista sessuale. Che senso ha perdere un quarto d'ora della propria vita dietro a figure femminili così stupide? Sembra che ne abbia. Sembra che serva, sembra che serva a capire qualcosa (di sé, della vita, della letteratura). Sembra che sia fondamentale per farsi gli anticorpi; a un tratto, quel genere di donna riesci a riconoscerlo da lontano, e non ti attrae più. Ma prima, è il caso di ricordarlo, sputi sangue. E non poco.

In questo romanzo, ti appassioni alla vicenda di Lajos e di Elettra, sin dai primi scambi; ti appassioni ai loro improbabili dialoghi, agli equivoci, alla possibilità che lei scelga lui e sappia esserne degna. E invece, invece rimane tutto così: irrisolto, rocambolesco, sballato. Vitalissimo, ma storto. Insensato? Non so. Incompiuto, sicuro.

Ho qui di fronte a me l'edizione tascabile del romanzo: “Si ride, e di gusto”, ha scritto qualcuno sul “Venerdì” di Repubblica, qualche anno fa, commentando questo libro. Si ride, e di gusto, anche di “Fantozzi”, se è per questo; tragicamente poi ci si accorge, nell'esperienza quotidiana, che di impiegati fantozziani la nostra italietta è piena, e che probabilmente ridere del loro capitano ci aiuta a non ridere di quella gente. Dei nostri vicini di casa, in pratica. Forse, dico. Forse. Se davvero volete ridere, e di gusto, leggendo questo romanzo, io dico che andrete a ridere, e di gusto, della poco meravigliosa sorte di quella minoranza magnifica di giovani allucinati dall'ideale. Cosa fa, Lajos? Va a presentare il libro in oscure cittadine di provincia per quattro sconosciuti e per ben due copie vendute. Si danna per conquistare una tizia che come minimo ha un altro amante da un pezzo: una “lupa tossica col cervello in pappa”. Vive in compagnia di tre gatti, coi nomi rubati ad Andrea Pazienza (altro topos morozziano, l'omaggio a Pazienza: cfr. il personaggio “Zanna” in “Despero); senza padre, e lontano dalla madre. Ha un'amica bona e disponibile ma sono così amici che con lei non ci andrà mai; infine, ha un amico giornalaio (amico?) che sostiene di essere un superoe e di poter viaggiare nel tempo, combattendo con oscure personalità provenienti dal mondo del rock (il personaggio sarà sviluppato a dovere nel recente “Colui che gli dèi vogliono distruggere”). Suona con gli amici, ma già sa che non andranno da nessuna parte (ma vogliono veramente andarci, da qualche parte?).

Sapete una cosa? Una volta sola non trova il termine tecnico per definire qualcosa. Proprio nella prima pagina, dice che “io sono come quei pupazzetti che li prendi a pugni e si rimettono in piedi”. Quei pupazzetti si chiamano “misirizzi”. Misirizzi poteva essere il titolo perfetto per questo libro. Per una valanga di buone ragioni, grottesche e tragicomiche e autoironiche. Pensateci bene.

Questo è il quarto libro di Morozzi che leggo, incluso “Il rosso e il blu” che sta per uscire, e sto notando tutta una serie di cose interessanti. La prima: i personaggi sono regolarmente imparentati tra loro: Lobo – uno dei suoi amici musicisti, in questo romanzo – assomiglia molto a Lore, il batterista di “Despero”; l'Orrido e la trasferta-diluvio di Alessandria ritornano tali e quali ne “Il rosso e il blu”; la musica e il calcio (e i fumetti) sono sempre presenti, con ruolo più o meno protagonista; le donne meritano (meriterebbero: dovrei studiare l'opera omnia) un capitolo a parte. Da una parte dovremmo prendere in esame le storie “fortunate” dei personaggi del Morozzi: sono quelle regolarmente sintetizzate in venti righe, non so perché. Dall'altra, dovremmo campionare le storie “sbagliate”: sono quelle che si mangiano due libri, tra quelli che sin qui ho letto, “Despero” e questo. E se li mangiano per bene, come a dire che è da ciò che non capisci, che non comprendi, che forse non ha senso; da ciò che non si compie, non si realizza, non va a termine, che nasce letteratura, e da ciò soltanto. Possibile? Non so. Affascinante, comunque. Ci ritorneremo su.

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Infine, una curiosità linguistica: ho notato due stravaganze, le espressioni “tocciare dei biscotti” e “zigare come un bambino”. “Tocciare” e “Zigare” sono verbi in uso, a memoria mia, nei dialetti veneti, laddove “tocciare” sta per tuffarsi (a Trieste, il “tocio” è il tuffo in mare, o per traslato il “bagno”); e “zigare” sta per “gridare”, “strillare”. Che siano in uso anche dalle parti delle Due Torri? Non a memoria mia – autoctoni correggetemi.

EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE

Gianluca Morozzi (Bologna, 1971), scrittore e musicista, ha esordito pubblicando il romanzo Despero per Fernandel nel 2001. È stato tradotto in Inghilterra, America e Germania. Sostiene di essere “il più grande tifoso del Bologna mai esistito”; a quanto pare è proprio così.

Gianluca Morozzi, “L'era del porco”, Guanda, Parma, 2005.

Approfondimento in rete: WIKI It

Gianfranco Franchi, agosto 2009.

Prima pubblicazione: Lankelot.