Longanesi
1996
9788850240593
«“Vogliamo scambiarci una promessa, Hans Thomas?” “Dipende”, risposi, cauto. “Promettiamo di non lasciare questo pianeta prima di aver capito un po’ meglio chi siamo e da dove veniamo”. “Promesso”, dichiarai, stendendo il braccio sul tavolo per stringergli la mano. “Prima però dobbiamo ritrovare la mamma”, soggiunse. “Senza di lei, non credo che ce la potremmo fare”» (p. 275)
“L’enigma del solitario” è l’avventura allegorica d’un ragazzino, Hans Thomas, dodici anni, e del suo pater, filosofo e jolly, in viaggio per ritrovare la madre e la moglie nella patria della filosofia e dell’arte, la Grecia. È un romanzo di formazione, nel pieno e originario senso: un grand tour di due scandinavi tra le rovine e gli spettri delle civiltà mediterranee, volto a restituire pace, equilibrio, armonia e coscienza a un adulto in crisi esistenziale, e a un passo dall’alcolismo, e ad un bambino che non sopporta d’essere stato abbandonato dalla madre quando aveva appena quattro anni. Senza ragione.
Il romanzo ha una architettura atipica: è strutturato come un mazzo di carte. Diviso in cinque parti: Picche, Fiori, Jolly, Quadri, Cuori. Con l’eccezione di “Jolly”, ogni parte è suddivisa in tredici capitoli. Al viaggio del padre e del figlio s’alterna la narrazione fantastica della segreta predestinazione al dolore, alla sofferenza e alla perdita d’un consanguineo della loro famiglia: isolando un trauma così terribile nella dimensione della trasfigurazione, dell’alterazione della verità e della favola – sic et simpliciter – il romanziere norvegese riesce nella difficile impresa di sostenere e accompagnare questo bambino ferito all’agnizione dell’arcano e alla comprensione dei rovesci dell’esistenza, della sua ingiustizia e della sua contraddittorietà; la predestinazione, il senso d’appartenenza ad altro e più alto disegno, ereditato e interiorizzato direttamente dalla classicità, mitigano e attutiscono i contrasti; ibridati con la dolcezza della fantasia, impediscono alla depressione e all’abbattimento di prevalere.
La scrittura di Jostein Gaarder, qui alla sua prima prova romanzesca (1990) d’ampio respiro – annuncio di quel capolavoro di intelligenza e umanità che è “Il mondo di Sofia” – è d’una immediatezza e d’una accessibilità che non devono illudere il lettore; la comprensibilità e il nitore espressivo dell’artista non implicano semplificazioni semantiche o più facili scioglimenti e letture dei simboli; Gaarder ha il dono di sapersi rivolgere a ogni lettore, parlando di Socrate, della Pizia, dello splendore selvatico di Capo Sounion, della bellezza della natura italiana e della decadenza e della fatiscenza di certe nostre città; i suoi artifici immaginifici non precludono una efficace e credibile rappresentazione del malessere e dei contrasti che animano i suoi personaggi; all’opposto, se possibile, esasperano il dolore nascondendolo o tramutandolo in un balocco visionario, allucinato, tutto letterario.
Cronologia delle vicende narrate: 200 anni prima il brigantino di Frode, carico d’argento ha fatto naufragio; 156 anni prima, Hans il Panettiere è approdato nella strana isola degli homunculi, nell’azzurro dell’Atlantico. Qual è il legame che unisce Frode ed Hans al piccolo Hans Thomas? Il ragazzo, dapprincipio, è soltanto – come si scriveva – un bambino che vuole capire perché la mamma Anita se ne sia andata ad Atene, lasciandolo solo. Il viaggio comincia da Arendal, sud della Norvegia. Il pater, ex marinaio, guida la macchina concedendosi qualche pausa sigaretta e qualche intervallo etilico. Nel frattempo, va filosofando; parla del cosmo, dell’umanità, di Dio, della verità; dei robot – convinto che manchi poco alla creazione dell’uomo artificiale, in grado di pensare come ognuno di noi. E mostra, mentre s’avvicinano ad Atene, sempre più inquietudine e incertezza. Otto anni di distanza possono costituire un divario incolmabile; il pater ha paura che Anita non voglia tornare indietro. Partita per ritrovare se stessa, s’era costruita un’altra esistenza altrove; dimenticando – possibile? – le persone che più aveva amato.
Il pater era un figlio della guerra: un “bastardo del tedesco” (p. 15), figlio di Ludwig, scomparso sul fronte russo senza poi lasciare notizie. Sua madre, rifiutata dai concittadini perché emblema del tradimento di parte dei norvegesi, s’era ritirata dai suoi zii, ad Oslo; il pater era cresciuto comunque in un ambiente ostile, detestato e additato dai suoi compagni come figlio del nemico, e per questa ragione s’era imbarcato come mozzo a neppure diciotto anni. Sette anni dopo, era tornato: e con sé aveva già Anita. La famiglia del pater era una famiglia in cui era sempre venuto a mancare, all’improvviso, qualcuno di importante: la loro tradizione era segnata dal dolore, dai vuoti e dagli abbandoni.
La prima sosta dei due viaggiatori è a Dorf, in Svizzera. Poco prima, un curioso benzinaio, omino enigmatico e beffardo, aveva consegnato al piccolo Hans Thomas una piccola lente d’ingrandimento, convinto che gli sarebbe tornata utile (al lettore contemporaneo viene spontaneo associare questa stravagante epifania d’un homunculus con una delle opere più recenti di Gaarder: “Il venditore di storie” – è il daimon dell’artista norvegese, che sin dai primi testi s’intravede, ghignante). Il pater spiega, convinto, che quel benzinaio era un uomo artificiale: quindi, finisce a filosofare, parlando delle stelle. Hans si ritrova in questo paese che gli appare come un villaggio della Lego, pensando ancora che Dio rida d’ogni essere umano, come gli ha ripetuto il padre, discutendo del senso della creazione e del rapporto che lega il creatore alla creazione. E a Dorf, l’incontro con un panettiere assai famigliare regalerà al piccolo una delle chiavi di lettura della sua esistenza: un libro minuscolo, nascosto in un panino, che solo con quella lente potrà leggere, narrerà della “gazzosa purpurea e dell’isola incantata”: e di come Albert conobbe Hans il panettiere, e di come Ludwig venne a conoscenza dell’accaduto e scoprì il mistero d’una stirpe…
Da Dorf, attraverso l’Italia, il viaggio del padre e del figlio alla ricerca della verità, dell’origine, della coscienza e del perduto amore si nutrirà di riflessioni sulla meraviglia dell’esistenza d’un pianeta e d’un’intelligenza come quella degli esseri umani, di digressioni sui jolly – mania paterna – e sull’arte dei solitari, e su franchi riconoscimenti dell’appartenenza e dell’adesione a certi simboli: “Un jolly è un giullare, un piccolo essere diverso da tutti gli altri. Non è di fiori né di quadri; non è di cuori né di picche. Non è un otto né un nove, non è un re e neppure un fante. Fa parte del mazzo come tutte le altre carte, ma in realtà è un corpo estraneo. Ecco perché lo si può addirittura togliere senza che nessuno ne senta la mancanza. Credo che, durante la sua infanzia ad Arendal, quando era un bastardo del tedesco, il pater si sentisse simile a un jolly. Ma c’era di più: anche come filosofo il pater era un jolly. Affermava sempre che vedeva cose bizzarre cui tutti gli altri erano ciechi” (p. 70).
Un romanzo che sa fondere realismo, fantasia, filosofia e romanticismo: destinato ad essere letto e apprezzato da chi ha ancora la capacità di stupirsi, di meravigliarsi e di innamorarsi della vita, nonostante la vita.
EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE
Jostein Gaarder (Oslo, 1952), ex insegnante di filosofia, romanziere e favolista norvegese.
Jostein Gaarder, “L’enigma del solitario”, Longanesi, Milano, 1996. Traduzione di Danielle Braun Savio. Revisione di Stella Boschetti.
Prima edizione: “Kabalmysteriet”, Oslo, 1990.
Gianfranco Franchi, novembre del 2004.
Prima pubblicazione: Lankelot.