Rizzoli
2005
9788865592342
Immagino che possano esistere due strade diverse, per raccontare un libro macabro come “Le variazioni Reinach”. La prima è tutta curve e discese ripide, e si fonda sui sentimenti: sull'emotività. È una strada torrenziale, prepotente, imprevedibile. È affascinante e cupa, e singolare. La seconda è dritta e frontale, e piena di salite. È una strada fredda, forse addirittura ostile: si fonda sull'umiltà, e sulla profonda coscienza delle difficoltà.
La prima strada è quella che mi ammutolisce e normalmente mi frena molto, almeno quando scrivo critica letteraria. Perché può essere rovinosa, perché può essere ombelicale. La seconda è quella che mi difende e mi sostiene molto, soprattutto quando scrivo critica letteraria. Perché è sempre facilmente condivisibile, perché ciò che è lineare sa essere, tendenzialmente, universale. Ma “Le variazioni Reinach” è un libro che diventa a un tratto così straziante, spiazzante e sconquassante, che penso di dover provare a battere, almeno per un po', la prima strada. E poi vediamo. Poi vediamo.
Dove vanno “Le variazioni Reinach”? Vanno a sprofondare il lettore in un pozzo buio, buio pesto: in quel buio pesto, infine, quel lettore si può specchiare. E cos'è quel buio pesto? Quel buio pesto è tutta la brutalità, la ferocia e la violenza che la nostra razza conosce. La letteratura è lo scudo di Perseo – la medusa è la memoria e la coscienza di tutto il male di cui siamo capaci, di cui siamo stati capaci. Niente è stato violento, feroce e brutale come la distruzione delle comunità ebraiche europee negli anni dell'abominio nazista. Una distruzione che ha saputo essere meticolosa, perché s'è fondata su ritmo e logica industriale: meticolosa ed eccezionalmente spietata, perché fondata sulla subumanizzazione o sulla disumanizzazione, in toto, di un'alterità.
“Le variazioni Reinach” sono la musica della resistenza dell'essere umano alla ferocia dell'umanità. Sono la poesia della vita che risorge dalle ceneri della distruzione: infestando le generazioni future di giustizia, e speranza. Sono la cruda e spoglia narrazione della disintegrazione di una famiglia. Una narrazione sconvolgente per la sua tristezza, e per la sua complessità.
Dove vanno “Le variazioni Reinach”? Vanno ad annoverarsi tra le pagine più tragiche della letteratura concentrazionaria, la letteratura superstite ai campi di sterminio, la letteratura della memoria dei campi di sterminio, la letteratura che non può conoscere né bellezza né eleganza, ma soltanto sentimento, e rigore. Un rigore scarnificante. E a chi parlano “Le variazioni Reinach”? Parlano a chi non sa, o non ha capito, che i fantasmi di chi è caduto senza ragione e senza pietà rimangono tanto a lungo nelle loro case e nelle loro terre, a cercare giustizia, a domandare una parola. Parlano a chi non ha mai immaginato come fosse possibile che la borghesia, che la grande borghesia, potesse sbriciolarsi nel niente, per l'esattezza assurda e malata dei disegni tedeschi. Parlano a chi ha amato “Il pianista” di Roman Polanski, perché a voler cercare qualcosa di simile, vagamente, tanto vagamente, e soltanto per il ruolo nobile che la musica va ad assumere – lì per piena coscienza dei personaggi, qui per sola volontà autoriale, per sola volontà di Tuena – è soltanto lì che bisogna andare. Parlano, infine, a chi pensa che non sia più possibile aggiungere una riga alla letteratura sul disastro nazista: alla memoria del genocidio degli ebrei. Tuena ha aggiunto un libro intero. Uno strano libro, asimmetrico e irregolare, molto. E ha plasmato il golem di un compositore di musica che può tornare, almeno nella sua musica, nell'unica musica che ha potuto comporre e pubblicare, in vita, per essere ciò che non è mai stato. Parla a chi si domanda come sia possibile estetizzare i campi di sterminio. Risponde mastro Filippo Tuena: “Auschwitz non ha paragoni con la realtà, è un mondo dove l'individuo si cancella e rimangono generi, specie ma non individui e tuttavia le storie sono tutte individuali e non paragonabili e il labirinto è infinito e anche chi è sopravvissuto continua a percorrere sentieri fangosi tra le baracche e poi ormai a tanti anni di distanza la memoria si modifica i volti che appaiono sono sempre più sfumati forse in sogno, si dice, negli incubi possono riapparire nitidi come la prima volta che arrivarono al campo, salvo ritornare improvvisi come accadde a quell'ebreo romano sopravvissuto al campo che nei giorni dell'alluvione di Firenze andò in quella città per aiutare nel ripristino della sinagoga invasa dal fango putrido dell'Arno e che entrando appunto nella sinagoga si fermò impietrito e a chi gli era accanto sussurrò sgomento 'questo è lo stesso odore che c'era ad Auschwitz proprio lo stesso odore' e senza dire più nulla stramazzò al suolo morto fulminato dal ricordo che per tanti anni latente e nascosto improvvisamente era riemerso e lo aveva avvolto” [“Le variazioni Reinach”, p. 373].
Leggere questo libro è sprofondare nella polvere, nella polvere di questo male. Leggere questo libro è smettere di respirare. Scriveva l'artista, nel suo sito ufficiale, sei anni fa: “Credo che questo sia il libro. Credo che questo sia il libro che giustifica una carriera letteraria. È quello che mi porto nell'anima, quali che siano i suoi pregi e i suoi difetti”. Punto.
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2005. L'artista romano Filippo Tuena, cinquantaduenne, pubblica, a quattro anni di distanza dall'ispirata biografia romanzata di Michelangelo, “La grande ombra”, un nuovo romanzo: “Le variazioni Reinach”, a metà strada tra una grande e terribile saga borghese, quella della famiglia Reinach, una commossa inchiesta sulla loro storia e sulla loro dissoluzione, un'oscura meditazione sul senso della scrittura, e della sua letteratura.
Scriveva Giacomo De Benedetti, sul «Corriere della Sera»: “Nell’accingersi a raccontare la fine dei quattro Reinach, non senza essersi prima attrezzato della
necessaria documentazione storica e archivistica, Tuena ha elaborato un’ingegnosa tecnica narrativa. Decidendo di tenersi opportunamente lontano dalle strade più tradizionali e battute, cioè dal romanzo storico come dalla saga, ha cominciato con l’infrangere l’orologio della memoria. I frammenti, così ottenuti, sono diventati brevi capitoli montati in modo da illuminare l’irragionevolezza e la fatalità d’una vicenda umana determinata dal caso, dalla cattiva fortuna non meno che dalla storia. Basta, per rendersene conto, sfogliare qualche pagina delle 'Variazioni Reinach'. Gli avvenimenti non si succedono come in un calendario, accompagnati o meglio tenuti per mano da una concatenazione temporale. Il prima e il dopo, in questo libro inquietante, non sono separati da un preciso confine. Tutto diviene contemporaneo a tutto [...]”.
A dar retta a Sergio Pent [«TTL-La Stampa»]: “Non c’è commozione né deriva fantastica, in questo percorso accurato e realistico di Tuena, che ha offerto un’immagine abbastanza rara dell’Olocausto percorrendo un’epoca attraverso alcuni personaggi privilegiati, quasi estranei alla vita comune. E forse per questo il contrasto tra ricchezza e orrore risulta più netto, perché solo nell’orrore l’uomo ritrova le sue radici: «Bisogna provare tutto: essere i primi e gli ultimi», dice Léon Reinach da Drancy. In questo viaggio lento e meticoloso verso la fine, senza concessioni narrative defatiganti, Tuena ha costruito dolorosamente un libro essenziale e nobile, che merita rispetto perché aggiunge – in qualche modo – un nuovo tassello al mosaico mai terminato delle testimonianze sull’Olocausto. La sue «variazioni» agganciano la ricerca intellettuale dell’epoca di Proust e la portano lentamente nell’estrema disperazione, dove il tempo è veramente perduto”.
Secondo Alberto Cavaglion [«L'Indice dei libri del mese»]: “Vita e letteratura s’intrecciano in ogni pagina, e anche fuori, come si vede: Tuena s’introduce dans son histoire con un eccesso di zelo che talora deborda, nuocendo alla meraviglia di una storia che, non avendo bisogno di supplementari orpelli, incanta di per sé. Tipograficamente il romanzo si giova di interventi iconografici intertestuali resi con molta sobrietà ed eleganza e dalla sovrapposizione di materiali di provenienza diversa: foto dall’album di famiglia, dattiloscritti di corrispondenze private, e-mail, riproduzioni anastatiche di documenti di polizia, di cui ci vengono fornite lunghe didascalie. La ricerca è originale, confortata da un’utile bibliografia e da note testuali che si segnalano per rigore”.
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Nel contesto dell'opera omnia tuenia, questo libro sembra derivare, almeno nella prima metà, da due diversi modelli: da un lato, l'indagine fantasmatica e chimerica su una vicenda passata sembra venire dritta dallo stupendo “Volo dell'occasione” [1994; 2004]; dall'altro, l'inchiesta emisaggistica, emigiallistica sulle radici e sulle vicende della famiglia Reinach pare discendere dall'esordio, “Lo sguardo della paura” [1991]. Nella seconda metà, o comunque da quando Tuena descrive i campi di sterminio, si registra più d'una riuscita adozione del flusso di coscienza, tecnica adottata con qualche fortuna nella seconda parte del suo romanzo partigiano romano “Tutti i sognatori” [1999], e che da quella lirica e buia conclusione sembra derivare.
Il fantasma, stavolta, appare proprio nelle prime battute: “viso bianchissimo, glaciale, spaventoso”, scrive Tuena – e glossa: “ancora una volta a Parigi per lui ricomincia tutto, un'altra volta ancora una storia, ancora una storia, ancora” [p. 16]. E a differenza che in passato, in questo libro Tuena comincia a raccontare il senso dei suoi fantasmi: dei fantasmi, in assoluto. “Un passato che mi assale, che pretende d'essere ascoltato, che non vuole morire” [p. 18]; “questo è un libro sulla nostalgia e sul conflitto con il passato che giace e che però fortemente desidera ritornare in vita” [p. 41]; a un tratto, il narratore comprende di provare “profondissima nostalgia per qualcosa di cui non riusciva a cogliere l'essenza” [p. 122]; come a dire che ciò che fonda l'ispirazione di Tuena è una sorta di nostalgia assoluta. Infine, come ogni romanzo, questo è “la storia dell'anima che avanza sulla via della conoscenza di sé, che cerca l'avventura per sperimentare in essa e invenire, dopo esservisi verificata, la propria essenza” [p. 48]. E la risposta sta quasi alla fine, in un irreale dialogo tra sé stesso e la sua ombra: “è sempre difficile descriversi, definirsi, si dice mentre la motocicletta corre veloce sull'Aurelia; come mi definirei, si chiede, forse narratore, cercatore di storie; certamente narratore se dovesse scegliere una sola parola, cercatore di storie se potesse concedersi il lusso di tre parole. Cercatore di storie. Compositeur de musique” [p. 365]: compositore di musica, come lo sciagurato borghesone Léon Reinach, elegante e ordinato, fragile, “dilettante irrisolto, distante e vicinissimo” [p. 85], padre di una musica “dolce, sognante ma anche indisponente, capricciosa, ribelle” [p. 392], che senza Filippo Tuena non avrebbe più potuto ascoltare nessuno, interrompendo una caduta – una caduta “così verticale e silenziosa e inaspettata” dal potere alla povertà, “dall'identità allo zero”. Zero: amnesia di tutto, oblio d'ogni memoria: dissipatio humani generis.
EDIZIONE ESAMINATA E BREVI NOTE
Filippo Maria Tuena (Roma, 1953), scrittore e antiquario italiano, laureato in Storia dell'Arte alla Sapienza.
Filippo Tuena, “Le variazioni Reinach”, Rizzoli, Milano, 2005. Pagine 412, euro 17,50. ISBN: 9788817005746. Premio Bagutta.
Approfondimento in rete: Oblique + Wiki it + Reinach in Wiki
Gianfranco Franchi, marzo 2013
Prima pubblicazione: Lankelot.
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SEMPRE A PROPOSITO DELLE "VARIAZIONI REINACH", IN OCCASIONE DELLA NUOVA EDIZIONE, GENNAIO 2015
A dieci anni di distanza dalla prima edizione, torna in libreria uno dei più scarnificati e abissali lavori dello scrittore romano Filippo Tuena, “Le variazioni Reinach”: si tratta della frammentaria e abbacinante descrizione di una caduta, una caduta “così verticale e silenziosa e inaspettata che procede dal potere alla povertà, dall'identità allo zero”, perché “lunga e faticosa è la strada che porta al nulla”. È la saga di una carismatica famiglia ebraica e borghese, la famiglia Reinach, che finisce per strapiombare ed essere annichilita nell'abisso dei campi di sterminio: è un romanzo storico asimmetrico e irregolare, in cui viene infranto l'orologio della memoria, in cui le immagini vengono adottate, à la Sebald, con ruolo diegetico, iperrealistico, e vanno puntinando la narrazione con sofisticata intelligenza. È un libro di una nostalgia assoluta per la perduta bellezza; è letteratura concentrazionaria, è una complicata e rovinosa rappresentazione della disintegrazione. È, infine, una superba sublimazione dell'ingiustizia, e della disumanità: è la storia di una musica che può risorgere quasi miracolosamente dal passato e tornare a raccontare quel che è stato, e quel che nessuna violenza e nessuna malvagità potranno sradicare. A pubblicare la nuova edizione è una collana economica e commerciale della Beat Edizioni; la prima, invece, era stata stampata dalla Rizzoli. L'artista ha dedicato larga parte del lavoro di revisione del testo alla punteggiatura, restituendole diversa uniformità rispetto alla prima edizione, dandole un altro respiro; per il resto, ha provveduto ad asciugare dove necessario, senza integrare, tuttavia, niente di nuovo. Ogni cosa è puntualmente spiegata nella nuova Nota al testo, che appare in appendice; completa il libro una buona bibliografia essenziale.
Non si è trattato del primo romanzo storico e politico di Filippo Tuena: nel 1999, per Fazi, l'ex antiquario romano aveva pubblicato l'atipico romanzo resistenziale “Tutti i sognatori”, d'una grazia vicina alla lezione umanissima di Meneghello, e tuttavia d'una sensibilità aristocratica, fenogliana, per la bellezza; il romanzo è la trasfigurazione d'una vicenda famigliare elvetico-capitolina e borghese che ha più di qualche somiglianza con quella dell'artista. È la restituzione degli anni degli sfregi e delle umiliazioni sofferte dalla vecchia capitale, e dalla sua antica e orgogliosa comunità ebraica: delle violenze delle carceri di via Tasso, del tradimento della deportazione, dei massacri delle Fosse Ardeatine; un lavoro meno sperimentale ma altrettanto sentimentale, con un epilogo romantico, onirico. Il terzo e ultimo grande romanzo storico di Tuena è stato “Ultimo parallelo” [2007], riproposto due anni fa in una nuova edizione dal Saggiatore: è il romanzo dell'autodistruzione di Robert Falcon Scott e dei suoi uomini, dell'antieroica impresa dell'Antartide: l'epica di una sconfitta assoluta, e annichilente; tecnicamente, come già “Le variazioni Reinach”, è un ibrido, a metà strada tra un diario, pieno di foto adottate à la Sebald, un'inchiesta romanzata e un quaderno di grandi reminiscenze letterarie, per lo più shakespeariane. Un libro di “disorientamento, distruzione, fallimento”, elegante e spietato.
Qualcosa s'è spezzato, a questo punto, nella scrittura di Tuena. Negli ultimi dieci anni, l'artista ha pubblicato lavori piuttosto diversi, per struttura, portata e tenuta, virando sul racconto lungo, sul diarismo stretto, sull'amarcord o sul frammento puro, con esiti piuttosto diseguali. È come se si fosse interrotto qualcosa, nel suo cammino artistico; le ultime cose inedite sono apparse nel raro, ma non introvabile, “Quanto lunghi i tuoi secoli. Archeologia personale”, pubblicato nel '14 dai Pro Grigioni Italiano, nell'avita Svizzera; si tratta di materiale interessante per lo più per questioni filologiche, destinato a fare la gioia degli aficionado e degli appassionati della scrittura tuenica; amalgama è una malinconia eccezionale, quasi inconsolabile, e una profonda nostalgia per il passato. Tra i momenti migliori, un pezzo che sembra quasi una “b-side” di “Tutti i sognatori”: si chiama “Labò, Guttuso e un caffeuccio sconosciuto”, ed è stato precedentemente pubblicato in «Art & Dossier» numero 19, nel 2006; è la triste storia di un giovane amico del grande pittore, morto massacrato a Forte Bravetta nel 1944; assieme, va segnalato un pezzo già apparso in una ormai introvabile antologia di racconti romani curata da Maugeri: si chiama “Esercizio di memoria n. 112” ed è un amarcord della Roma sparita nel Novecento, dalle parti di Villa Glori, piazza Pitagora, viale Parioli. Difficile accettare l'idea che un artista di così grande talento possa già essere costretto all'esercizio dell'archeologia personale. Preferisco pensare che tanta nostalgia finisca per essere un capriccio d'artista. O giù di lì.
Gianfranco Franchi, gennaio 2015.
Prima pubblicazione: Alfabeta2
Immagino che possano esistere due strade diverse, per raccontare un libro macabro come “Le variazioni Reinach”. La prima è tutta curve e discese ripide, e si fonda sui sentimenti: sull’emotività. È una strada torrenziale, prepotente, imprevedibile. È affascinante e cupa, e singolare. La seconda è dritta e frontale, e piena di salite. È una strada fredda, forse addirittura ostile: si fonda sull’umiltà, e sulla profonda coscienza delle difficoltà.