Mondadori
2005
9788804535362
“Il pregiudizio ideologico è curiosità pornografica” (Buttafuoco a “La Stampa”, intervistato dalla Zucconi, qualche anno fa)
Atipico thriller politico, stilisticamente fumoso e onestamente pretenzioso, “Le uova del drago”, secondo libro di Pietrangelo Buttafuoco, giornalista e scrittore classe 1963, ha ricevuto una discreta serie di responsi critici: consensi e dissensi che hanno mostrato, tra 2005 e 2006, una spaccatura politica identica a quella del 1943. Giuliano Ferrara (“Il Foglio”, 21 ottobre 2005) parlava di “capolavoro massimalista del fascistissimo Buttafuoco”, esaltando “un grande scrittore barocco che si è fatto romanziere”. Non solo: da Céline, Buttafuoco aveva mutuato la febbre nemica della storia e appassionata della sconfitta fino alla demenza, mentre da Manzoni aveva ereditato la compassione senza fronzoli e la fede cristiana. Questo romanzo era, secondo l'ex comunista Ferrara, opera di “clamorosa e fragorosa e fragrante bellezza”. Stelio Solinas (“Il Giornale”) parlava di “Iliade fascista degli sconfitti”, dove “spie nazionalsocialiste, preti siciliani combattenti, guerrieri musulmani e soldati italiani si muovono persi e presi dietro l'acuta coscienza dell'onore, l'onore smarrito, l'onore da ritrovare, l'onore da difendere”. Non stupisce, a questo punto, scoprire che sul quotidiano comunista “Il Manifesto” Enzo Di Mauro parlava di “Uova marce del drago”, stupendosi perché in questo libro i nazisti fossero “i veri partigiani”, “guardati con simpatia e affiancati dalla gente in azioni di sabotaggio”, aggiungendo che lo stile di Buttafuoco non somigliava nemmeno “al peggior Malaparte” (che pure in fin di vita si convertì al comunismo: ma i nuovi comunisti hanno memoria molto selettiva, oppure non credono più al vecchio Togliatti). Già che c'era, Di Mauro inorridiva per le buone parole spese da Canali su “L'Unità” (sacrilegio!), e spendeva due parole in più per suoi recenti lavori commissionati da un certo gruppo editoriale. La vecchia tattica del personalismo non si smentisce mai. È così italiana.
Torniamo a noi. In sintesi, sfogliare oggi la rassegna stampa del 2005 suggerisce che “Le uova del drago” fu caso più politico che letterario; più ideologico che estetico, al di là delle cannonate di Ferrara. Probabilmente, l'opera è destinata a restare alla storia della letteratura italiana più per queste ragioni, e per il (divertente) dibattito guelfo-ghibellino combattuto per una manciata di mesi, che per i talenti di un giornalista, ex libraio, innamorato della Letteratura, non ancora romanziere (Di Mauro segnalava che il romanzo sembrava un'opera giovanile rifiutata a oltranza e ripescata quando era il momento. Ipotesi cattivella ma non astrusa), senza dubbio gran fascista.
Qualcuno ha evocato lo spettro di Fenoglio per mormorare che forse Buttafuoco poteva essere un Fenoglio di destra: peccato che dell'essenzialità, della semplicità e dello sperimentalismo dell'artista piemontese qui non ci sia proprio nulla; questo romanzo è invece d'un rococò grossier, tutto artificioso e pasticciato, e d'una presunzione abbastanza respingente. Qualche esempio: nota di abominio per l'avverbio “tampoco” (p. 168) – che andava cassato con una certa decisione dall'editor, Sergio Claudio Perroni. Simili perplessità potrei esprimerle per frasi come “Dentro la cuba dell'invasione americana” (eh? ah), “faccia ruzzolata nel bofonchio”, “pedata sazia”, “s'accartocciava di brividi”; ecco, incontrare a un tratto il pronome “costei” è poi la sassata finale. Allora diciamo che il buon giornalista Buttafuoco è uno scrittore in via di formazione (dell'identità; della coscienza; dell'umiltà, che sospetto non abbia) e un'intelligenza politica già ben cosciente, ideologizzata e formata (cfr. bibliografia: in calce a un romanzo. Politico). Merito di questo suo romanzo, al di là della coraggiosa rilettura dei fatti catanesi-palermitani post 1943, è quello di aver dedicato una fantasia letteraria – fondata, assicura, su fatti realmente avvenuti: gli crediamo, o meglio: io ti credo – a un argomento scomodo e doloroso come la nostra terrificante sconfitta del 1943: coincide con la fine del riconoscimento di tutti in una e una sola patria, in una e una sola bandiera, in uno e un solo partito. Quello dello Stato: perché sino ad allora, e per qualche tempo nel Novecento, lo Stato era sinceramente e assolutamente la Patria, e i politici dovevano e potevano essere tecnici soltanto. Il popolo mostrava di gradire, stando ai nostri migliori storici (Guerri, De Felice). Sin quando non fu Spagna, e alleanza col nazista, e leggi razziali: autodistruzione, e sterminio della patria – e massacro nel nome di patrie differenti. Il sangue di tutti non smette d'essere versato; da qualche anno, almeno, ciò accade solo nella cultura, e quindi – diciamo così – simbolicamente. Sangue rimane.
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“Capitò di tutto, in Sicilia. Capitò ogni cosa, nel periodo che corre dal 1943 al 1947. Ci capitò dentro una guerra, e ci capitò male. Fu perduta. Capitò infatti l'invasione, e capitò che l'isola venisse spaccata in due. Capitò la carnezzeria, con gli americani a far campo da un lato e gli inglesi dall'altro, a Catania. (…) Capitò la strettezza e la sete, a quel tempo. I tedeschi superstiti, colorati di rosso più che abbronzati dopo una lunga estate, s'intestavano a sparare fino a esaurire le munizioni. Quattro di loro, nei pressi di Regalbuto, in quattro che erano fecero un cimitero ordinato e rasato di quasi trecento anime, tutti liberators (...)” (Incipit de “Le uova del drago”, pp. 11-12).
In quegli anni di miseria, si sognava la pace. Si fumava la paglia, lo zucchero era introvabile. Si soffriva di fame nerissima, da crampi allo stomaco. In una terra che la fame non l'aveva mai conosciuta, si diceva: “Quando dicevamo buongiorno mangiavamo ogni giorno, ora che diciamo 'gubbai' non mangiamo mai” (p. 19). Le ragazze finivano per prostituirsi, e così qualche ragazzo. Non c'erano alternative, per mangiare. Intanto, “l'alta società palermitana, quella in tight”, familiarizzava col nemico: “quando i tempi corrono, i ricchi si portano avanti, come le femmine di casino”, chiosa Buttafuoco. E dire che i liberatori americani, per puro odio o per rappresaglia, appena atterrati dalle parti di Caltagirone avevano preso e ucciso 84 civili, uno dopo l'altro (p. 17). Poco dopo, a Castelvetrano, sarebbero stati ammazzati cento invasori, nel mistero.
In quegli anni moriva Turi Orlando, che sognava la Sicilia “una, libera e indipendente”, e qualcuno, come lui, riuscì a sputare in faccia ai badogliani che venivano a cercare nuove truppe per sparare ai nuovi nemici, ossia altri italiani e vecchi alleati tedeschi. Episodio memorabile, senza dubbio.
Incontriamo Eugenia Lanbach, bavarese dal viso orientale di sangue greco, cresciuta tra i Wandervogel, mentre lavora negli States, sotto lo pseudonimo di Alice Rendell. Ha venticinque anni. A lei hanno affidato “Le uova del drago”: “focolai di germinazione rivoluzionaria da destinare al futuro. Uomini, mezzi e forze di mobilitazione: monadi autonome, dunque da preservare e occultare per preparare alla sopravvivenza e al riscatto della Missione le nuove generazioni, nel caso la guerra in corso non avesse visto la vittoria del Reich” (p. 29). Lascia gli States per il Nordafrica prima e per le Madonie poi, scampando alle manovre dell'FBI. Tra i soldati tedeschi, “Ghez” è una figura leggendaria, come quella di Rommel. Nessuno sospetta che sia una donna. Fermiamoci qua, con la trama. La storia del romanzo è quella di una spia nazista, scelta personalmente da Hitler, che sbarca in Italia per organizzare, assieme a dieci islamici – col sostegno della Romana Chiesa – i futuri focolai di rivolta. Buttafuoco orchestra tutta una serie di cammei (da Franco Franchi ad Arafat, da Hugo Pratt a Lucky Luciano) dal vago retrogusto epico; laddove vi invito a leggere l'aggettivo “vago” come un eufemismo, considerando i ripetuti omaggi alla Chanson de Roland. Sui quali non spendo una riga per evitare di perdere la calma.
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Propongo, a questo punto e per concludere, una scelta di passi per orientare il lettore nello spirito del romanzo. Il primo è dedicato alla “verità storica”: “La verità s'è sempre raccontata alla fine; e infatti più che verità è accordo tra gente di mondo per trovare una versione dei fatti, è tabula fatta rasa in fretta e furia collocando alla rinfusa i mucchietti della premiata macelleria Guerra. Raccontare la verità a partire dal principio è invero altra cosa che non si fa, che non sta bene” (p. 42).
Il secondo, a chi combattè contro gli “invasori”, ossia i “liberators”: virgoletto entrambe le parole a beneficio di chi chiama gli angloamericani “alleati”, così ci si capisce tutti, come avveniva fino al 1943: “Cominciavano i sorvoli notturni del nemico. Il tenente colonnello Sommaruga aveva già fatto i suoi miracoli, inseguendo i liberatori per dar loro il benvenuto con il miglior fuoco degno di Catania, facendoli a pezzi a oltranza. E a oltranza continuò a combattere, fino a morirne. Con lui, eroi furono il sottotenente Santangelo Fulci e il tenente Barone: oggi i loro nomi sono vani dettagli della toponomastica cittadina: nessuno ne sa più niente” (pp. 66-67).
E quindi sul tradimento della Marina: “Comincia a rovesciarsi il fuoco dell'autodistruzione, con gli italiani a sparare contro le loro stesse basi: come se, oltre all'obbligo di fellonia, la marina italiana fosse comandata di annientare ove possibile il resto delle forze nazionali” (p. 46). Più avanti: “Sono cose ancora oggi difficilmente decifrabili. Negli anni Sessanta andavano a ruba i libri di Antonio Trizzino, pubblicati da Longanesi. Spiegavano il tradimento della Regia Marina, e, poiché la verità è conio successivo ai fatti, non hanno mai fatto testo: però dicono il vero. Era la guerra fatta al mondo nuovo, quella. Guerra dove non mancarono – come suol dirsi nei necrologi e nei discorsi – né il coraggio né l'onore, ma abbondarono in compenso i traditori. Fu guerra con gli amici dei nemici, la Seconda Guerra Mondiale: un 'fuoco grande' per i siciliani, che furono i primi a subire l'invasione e gli ultimi a liberarsi dal governo d'occupazione militare” (p. 47).
Infine, sul Mare Nostrum. Dopo un saluto tra siciliani e saraceni, un saluto romano al quale risponde una mano sul torace e un leggero inchino, Don Angelo spiega e chiarisce: “Noi e loro abbiamo la stessa meta: cacciare gli inglesi e gli americani (…). Cacciarli dal suolo patrio e dal mare nostrum, che così si chiama perché appartiene a noi e agli arabi nostri dirimpettai (…). L'alleanza è nel destino dei nostri popoli”. Tutto molto chiaro. È ancora narrativa? Fingiamo di sì.
EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE
Pietrangelo Buttafuoco (Catania, 1963), giornalista (“Foglio”, “Panorama”) e scrittore siciliano. Ha esordito pubblicando “Fogli consanguinei” (Edizioni di Ar, 2001)
Pietrangelo Buttafuoco, “Le uova del drago”, Mondadori, Milano 2005. In appendice, bibliografia.
Gianfranco Franchi, ottobre 2009.
Prima pubblicazione: Lankelot.