Sellerio
2000
9788838916373
Esordio letterario di Ugo Mattone, alias Ugo Pirro (1920-2008), scrittore e sceneggiatore cinematografico, padre di “Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto” e di “La classe operaia va in Paradiso”, “Le soldatesse” (Feltrinelli, 1956; Bompiani, 1962; Sellerio, 2000) è un romanzo nato dalla sua esperienza di soldato al fronte, in Grecia. È una delle testimonianze letterarie più intense, crude e toccanti relative alla nostra scellerata occupazione d'una nazione libera, povera e culturalmente gemella, sin dagli albori della civiltà. Nelle prime battute ci troviamo a Volos, Tessaglia. I soldati soffrono di malaria. La malaria ha decimato i reparti più delle mitragliatrici e dei mortai, racconta Pirro. Sono così spossati che non hanno nemmeno le forze di andare in cerca di donne, nel casino. Per riuscire nell'impresa, si devono riempire di chinino. Il chinino è un bene raro, e molto ricercato: “In quei giorni una scatola di chinino valeva più di un'ocà di benzina, più di un'ocà di olio, più di cinque ocà di vino resinato, assai più di una notte d'amore” (p. 43).
Nel paese, ferito dalla guerra e dall'occupazione italo-tedesca, passano tanti asini e qualche tram, polveroso e stracolmo. Ad Atene l'aria non è diversa: piuttosto, nella capitale la fame diventa “spettacolo e cataclisma”. Alle porte di Atene c'è il tifo. Per le strade, miseria nera. Centinaia di sciuscià. I bambini gironzolano qua e là, rubacchiano tutto quel che trovano. Macchine non se ne vedono facilmente: i tedeschi hanno rubato autocarri e automobili sin dai primi giorni della loro occupazione. Pirro scrive che le macchine si sono date alla macchia, come i partigiani. Le donne chiedono il pane, non hanno neanche più la forza di essere infuriate e disperate, hanno soltanto fame. E non fanno che invitare i nostri soldati ad andare a letto con loro. È una cosa che umilia tutti, soldati e donne. C'è chi prova a ridere della cosa, ma poi sbotta a piangere, pensando forse che una sorte non dissimile potrebbe capitare anche alle proprie donne, a casa, un giorno. Ci sono poi le donne dei tedeschi: “quasi non si sentivano prostitute, soprattutto si inferocivano quando le nostre si infilavano tra i tedeschi” (p. 19). Non hanno nessuna intenzione di mescolarsi con i nostri soldati. Si sentono superiori. La tragicommedia continua.
I nostri soldati sono un “esercito di straccioni e di maleducati” (p. 12); dall'Italia ricevono “cotone, calze da donna, frutta secca e stoffa autarchica”: è la merce necessaria per comprare qualche litro d'olio, da rispedire in patria. Il narratore, in missione ad Atene, raduna le nuove reclute della favolosa “armata sagapò”, l'armata dell'amore. Sono quindici giovani prostitute. Loro sono felici di partire, perché così avranno viveri e sigarette. Hanno fame, fame e basta. Hanno al limite vent'anni, ma sono vecchie: “vecchie di piaceri e di privazioni” (p. 36). Diversi soldati italiani si sono fatti una “piccola famiglia greca”, per le libere uscite. Parecchi si sono buscati la blenorragia, e per questo non possono tornare in patria. Tutti sembrano avere bisogno d'un po' d'amore. E che sia l'amore di donne costrette a prostituirsi dall'estrema indigenza, e che sia l'amore d'un corpo scheletrico, e che sia l'amore velenoso di chi si deve concedere per sopravvivere, non pare avere importanza.
Camilleri ha scritto, nella nota all'ultima edizione Sellerio: «Il lungo viaggio dell'autore che accompagna per le strade di una Grecia devastata un trasporto di prostitute diventa un lungo viaggio dentro la coscienza, la progressiva approssimazione al baluginare di alcune certezze, di alcune verità. In parte, su quel romanzo di formazione di Pirro mi formai anch'io. Imparai, tanto per dirne una e in forma che certamente parrà ingenua, che tutto può essere scritto in un romanzo, solo che quel tutto va saputo scrivere muovendo dalla necessità di scriverlo. Altre cose mi parve di avere imparato allora da questo libro e sarebbe lungo andarle a cercare, perché ormai entrate in circolo».
A volte la narrativa sa dare lezioni di storia memorabili. Qualcuno potrebbe obiettare che a distanza di mezzo secolo abbondante non ce ne sia più bisogno: questo qualcuno s'è illuso che la storia non possa e non voglia ripetersi, chissà, oppure preferisce farsela raccontare addomesticata. Io credo invece, molto semplicemente, che documenti letterari come questo servano a tutti, nuove generazioni in primis, per capire cosa sia stata la seconda guerra mondiale: non importa che Pirro si sia concentrato su un microcosmo, su una vicenda di sicura secondaria centralità, considerando a posteriori quanto è accaduto. Importa che questo microcosmo sia scritto con una vivacità e un nitore tali da non lasciare scampo a equivoci: importa che riesca, a cinquant'anni di distanza dalla prima pubblicazione, a restituirci fotogrammi d'una guerra che la propaganda dell'epoca presentava in maniera ben diversa, e importa che sappia farci commuovere e adirare per quel che abbiamo inferto a un popolo intero, aggredendolo e occupandolo. Importa che riesca a raccontarci cosa significhi la miseria e la povertà sotto straniero, e cosa l'egoismo e la prepotenza di certi soldati. Importa che riesca a ricordarci quanto sia facile vedere sgretolarsi e disintegrarsi l'identità, e ogni forma di gentilezza in un essere umano, e quanto sia squalificante per una nazione in guerra vedere ridotto il suo popolo alla miseria, e alla prostituzione.
L'alter ego di Pirro è uno che sembra sapersi innamorare di queste giovani greche costrette a diventare puttane: è uno che sembra voler almeno provare a dare loro ascolto. Si parlano lingue improvvisamente diverse, di rado si riesce a ritrovare armonia, a stabilire i presupposti per un dialogo rispettoso, e non equivoco. Non può essere altrimenti.
Il momento di massima franchezza e di sommaria autocoscienza del disastro italiano è questo qui: “Ho visto treni carichi di feriti, tornavano dall'Albania. Quelli che non avevano le ossa fracassate, avevano le mani o i piedi congelati... Avevano combattuto senza scarpe, sotto le bombe, le mani nella neve... E il freddo è come la fame. Più ci ammazziamo tra noi e più mi convinco che nulla può cambiare tra noi. È come se vi conoscessi da sempre... E poi... poi... vuoi che dica la verità? Non ci capisco niente nemmeno io”, dice il soldato. Ed Eftichia “non seppe più essere forte, nascose il viso sulla mia spalla e cominciò a singhiozzare, cercava di trattenersi, ma non vi riusciva, i singhiozzi le esplodevano egualmente in gola. Capii che solo se continuavo a parlare potevo evitare di unire i miei singhiozzi ai suoi: non c'è niente di più penoso e di più umiliante che vedere piangere un uomo. Ma poi ero già un uomo?” (p. 108).
“Le soldatesse” non è forse un capolavoro. Ma del capolavoro ha la forza spirituale, la capacità indiscutibile di parlare al cuore del lettore, di accompagnarlo indietro nel tempo, di farlo guardare nelle oscurità della storia della nostra nazione, di obbligarlo a meditare.
EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE
Ugo Mattone, alias Ugo Pirro (Salerno, 1920 – Roma, 2008), scrittore e sceneggiatore cinematografico italiano. In narrativa esordì con “Le soldatesse” nel 1956.
Ugo Pirro, “Le soldatesse”, Bompiani, Milano 1962.
Prima edizione: Feltrinelli, 1956; Bompiani 1962; Sellerio, 2000.
Adattamento cinematografico: “Le soldatesse”, di Valerio Zurlini, 1965.
Approfondimento in rete: WIKI it
Gianfranco Franchi, luglio 2010.
Prima pubblicazione: Lankelot.