ISBN Edizioni
2011
9788876382987
Che scrittore avrebbe potuto essere Pier Antonio Quarantotti Gambini [1910-1965] se non fosse stato ferito e sconvolto dalla sorte della sua madrepatria, l'Istria? Sarebbe stato, probabilmente, un onesto scrittore sentimentale, sedotto dai disordini emotivi dell'infanzia e dell'adolescenza, non estraneo a qualche capitombolo morbosetto, capace di giocare con tutte le luci e le ombre del mare, e della vita delle città e delle cittadine di mare. Sarebbe stato un narratore giuliano forse non sempre all'altezza della tradizione del primo Novecento triestino: e tuttavia chissà cosa avrebbe potuto sprigionare. Il destino della terra di Quarantotti Gambini è stato ben differente – e così, inevitabilmente, il suo destino e il suo ruolo di letterato, e di scrittore. L'artista nato a Pisino e cresciuto a Semedella, Capodistria, è una di quelle anime martiri della tragedia dell'Istria, di Fiume e di Zara: è un'intelligenza mortificata dall'esodo, una sensibilità incapace di accettare quel che al popolo e alla storia venne fatto, in quei frangenti. Oppure, e più semplicemente, è uno scrittore che sapeva che uno dei suoi compiti e una delle sue responsabilità nei confronti dei posteri era eternare le storie del suo popolo: i costumi, i colori, le tradizioni del suo popolo. E a quelle restava uncinato.
“Cosa vado raccontando! Sono storie che interessavano soltanto noi, nati e cresciuti qui, come i padri dei nostri padri; sin dalla notte dei tempi; e che c'interessano ancora, sebbene ci sia toccato andarcene; mentre qui, nelle nostre case, è entrata gente nuova”, scrive, per esempio, in questo romanzo. Scrive a cuore aperto. Riuscite a capire? Poco importa. Saprete sentire.
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“Le redini bianche”, uno dei suoi libri postumi, è appena tornato in libreria grazie alle benemerite edizioni meneghine ISBN, nella favolosa collana “Novecento Italiano” di Guido Davico Bonino, consacrata ai recuperi degli artisti e delle opere laterali del secolo scorso. È il secondo giuliano – su tredici autori – ad essere ospitato in questa collana, dopo il caro Renzo Rosso della “Dura spina”: io m'aspetterei Stelio Mattioni, a questo punto, e Fulvio Tomizza, entro la venticinquesima uscita. Chissà. “Le redini bianche”, si diceva, è appena tornato in libreria e finirà per parlare al cuore di tanti lettori forti, e di tanti giuliano-dalmati: a loro, per primi, è rivolto e a loro, per primi, parla. Parla con chiarezza e con decisione: con malinconia e con tenerezza: con rabbia, e con onestà. Onestà profondamente istriana.
È un libro diviso in due parti. La prima, politica e magnificamente lucida, è più breve e trascinante. Si intitola “Tre bandiere”, e racconta l'avvicinamento a Capodistria, ormai caduta in mani jugoslave da più di dieci anni, dell'aristocratico Paolo de Brionesi Amidei, alter ego dell'autore. La seconda parte, eponima, racconta l'infanzia del piccolo Paolo da quelle parti – negli anni in cui, sotto la mai abbastanza onorata bandiera austriaca, la comunità italiana [diciamo “veneta autoctona”, per aiutare a capire tutti quanti], assolutamente maggioritaria, viveva serenamente nelle terre in cui erano vissuti i loro e i nostri antenati: a differenza del passato sembrava a un passo dal poter abbracciare la vagheggiata bandiera italiana. Austriaca restava, e intanto si godeva le prime conquiste tecnologiche del secolo: meraviglie, allo sguardo del bambino Paolo e non solo, come l'automobile e il telefono.
La seconda parte può disorientare quei nostri concittadini che hanno dimenticato quanti italiani, o se preferite quanti italofoni, vivessero sotto Austria al di là del Veneto e nell'Adriatico, nel secolo scorso. Leggere persone che parlano di Austria come propria nazione come niente fosse, in lingua italiana s'intende, e intanto ascoltano tutto quel che viene dall'Italia come fosse oro, può essere estraniante. Ma è vero: era vero.
Figuratevi dunque quanto può essere stato estraniante per quel bambino, per quel Paolo de Brionesi Amidei, vale a dire per Pier Antonio Quarantotti Gambini, nascere in Istria sotto bandiera austriaca, crescere sin dalle elementari nell'Istria riunita alla patria italiana, e ritrovarsi, adulto, esule ed estraneo alla sua terra, come trecentomila e più nostri fratelli. Paolo parte per l'Istria – che rifiuta di considerare jugoslava, “sebbene essa fosse ormai staccata dall'Italia: tanto che bisognava entrarvi con tutti i controlli e con tutte le formalità di quando si va all'estero” [p. 11] – e man mano che s'avvicina alla sua Capodistria stenta a riconoscerla: non riesce a mandar giù certi edifici nuovi, quei terribili grattacieli e quell'oscena architettura socialista, e racconta com'era la sua cittadina, quella in cui era cresciuto:
“Un tempo Capodistria era tutta circondata dal mare, come lo sono ancora Venezia e Chioggia. Quando ero bambino l'acqua si vedeva da per tutto là in giro. Capodistria era unita alla terraferma soltanto da due strade che correvano verso le colline, come due ponti, in mezzo all'acqua: e una di esse – alzò il braccio per indicarla, in faccia al punto dove si trovavano, all'altro capo del porticciolo – veniva chiamata appunto il ponte... il ponte di Semedella” [pp. 20-21].
E non manda giù l'idea che lui, nato lì, debba sbarcare nella sua città e nella città dei suoi antenati ritrovandosi a dover mostrare il passaporto magari a un serbo o a un bosniaco o a un contadino delle campagne croate o slovene, a gente immigrata per volontà titina: e non manda giù l'idea che si può ritrovare per le strade della sua città senza più incontrare un'anima della popolazione di un tempo. Della popolazione storica. Senza più incontrare praticamente nessuno che parli italiano: che parli istriano. Si ritrova a essere meno d'uno sconosciuto, per i nuovi abitanti della cittadina. Un morto: “un fantasma”, dice. E così è. Un fantasma che loro possono giudicare pericoloso, oltretutto.
“E poi, sentir parlare nella propria città, da tutti, una lingua che non si conosce! Vi figurate, se tornando un giorno a Chioggia non trovaste più i volti e le voci di sempre? Nessuno, nessuno più della Chioggia di oggi, ma tutt'altra gente, che si esprime addirittura in una lingua che non capite?”, prova a spiegare a un marinaio veneto, disperandosi.
Già, Tito era riuscito nel suo intento. Capodistria, come Isola, come Pirano, come Pola, come tanti paesini dell'entroterra, erano state praticamente abbandonate dalla totalità o quasi dei vecchi abitanti. Ma vedere con i propri occhi ciò di cui Paola aveva sentito parlare, o aveva soltanto immaginato, era comunque terribile, per lui. “Ma non te l'ho già detto? È stato come quando i pescatori scuotono una cassetta del pesce che c'è dentro, buttandolo in mare, e noi istriani siamo stati buttati proprio in mare, come pesce marcio. E poi la riempiono d'altro pesce appena pescato, o la lasciano vuota, perché molti dei nostri borghi e paesetti, specialmente all'interno, nella valle del Quieto e altrove, sono rimasti disabitati” [p. 39].
Infine l'angoscia di Paolo si fa muta – e si fa sguardo all'interno di sé. Nella memoria ritrova gioia e pace. Il presente è uno spettro malvagio. Fa niente. Basta presente. Serviranno generazioni intere per esorcizzarlo, e per restituire speranza a un popolo intero, costretto a una diaspora che non ha più avuto fine.
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Guido Davido Bonino sintetizza la storia editoriale di questo romanzo, parte di un “possente polittico”, nella notevole postfazione all'edizione ISBN: “Quando uscì nel 1967 nei Coralli Einaudi Le redini bianche, l'istriano di Pisino Pier Antonio Quarantotti Gambini era scomparso da due anni all'età di cinquantacinque. Il romanzo fu ritrovato nelle sue carte, dalle quali fu per noi facile evincere che esso faceva parte di una tetralogia narrativa, di cui erano stati già proposti 'Amor militare' (1955, poi reintitolato 'L'amore di Lupo', 1964), 'Il cavallo Tripoli' (1956), e 'I giochi di Norma' (1964): quest'ultimo, anziché un romanzo compatto, un romanzo in tre racconti ('Alle saline', 'Le trincee', 'La lettera'). Le quattro opere, nell'implicito rispetto della volontà dell'autore, riunite insieme ad altri tre racconti lunghi ('La corsa di Falco', 'L'imperatore nemico', 'Le estati di fuoco'), vennero a costituire l'imponente suite 'Gli anni ciechi', di oltre 650 pagine, proposta al pubblico nel 1971”.
E rispetto agli altri libri del polittico, in questo Quarantotti Gambini “con una vigorosa (e assai dolorosa spallata)” - ci spiega Davico Bonino - “svestiva i panni curiali dello scrittore-despota, che tutto sa, vede e giudica, per indossare quelli, più umili, ma assai più avvincenti per il lettore, di chi nulla sa, tutto osserva e tenta di comprendere”. Già: tenta di comprendere addirittura cosa poteva significare che la propria madrepatria fosse diventata una terra di fantasmi popolata da stranieri, per lo più. Per dirla con le parole di Italo Calvino: “un mondo scomparso per sempre, che non è sopravvissuto alla tragedia della guerra, all'esodo dei pescatori e dei contadini”. Non è sopravvissuto, ma è stato eternato almeno dalla dolcezza, dalla potente dolcezza, della letteratura.
EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE
Pier Antonio Quarantotti Gambini (Pisino d’Istria [Pola], 1910 – Venezia 1965), bibliotecario, poeta, giornalista, saggista e scrittore italiano, figlio di Giovanni Quarantotto da Rovigno, patriota irredentista, e Fides Histriae Gambini, da Capodistria. Pier Antonio Quarantotti Gambini studiò a Capodistria e si laureò in Legge a Torino. Esordì in letteratura col volume di racconti "I nostri simili" (Solaria, Firenze 1932).
Pier Antonio Quarantotti Gambini, “Le redini bianche”, ISBN, Milano 2011. Collana “Novecento Italiano”, 13. Con uno scritto di Guido Davico Bonino e una nota biografica di Daniela Picamus. ISBN 9788876382987.
Prima edizione: Einaudi, 1969.
Approfondimento in rete: Wiki it
Gianfranco Franchi, luglio 2011.
Prima pubblicazione: Lankelot.
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SEMPRE A PROPOSITO DELLE "REDINI BIANCHE"...
A quarantaquattro anni di distanza dalla prima edizione – Einaudi, collana Coralli, bandella di Italo Calvino pubblicata anonima – "Le redini bianche" torna a disposizione dei lettori in una nuova, seducente edizione ISBN, ospite della fertile e ultraletteraria collana Novecento Italiano, completa di postfazione di Guido Davico Bonino. E così i lettori forti, i letterati più snob e radicali e tutti i cittadini giuliano-dalmati potranno tornare a sfogliare le memorie d'infanzia dello scrittore Pier Antonio Quarantotti Gambini, nato a Pisino d'Istria nel 1910, sotto bandiera austriaca, cresciuto a Capodistria sotto bandiera fieramente e naturalmente italiana, invecchiato altrove, tra Trieste e Venezia, pieno di nostalgia per la perduta patria, caduta in mano jugoslava e sotto regime titino. "Le redini bianche" è un bel romanzo sentimentale sulla Capodistria perduta, quella popolata da sempre da una popolazione veneta: se non vogliamo dire “italiana”, diciamo pure “italofona”, e tutti ci siamo capiti e siamo felici e contenti. Quello di QB è il racconto della quotidianità dei nostri compatrioti istriani negli ultimi anni del governo austriaco, all'inizio del secolo scorso, nel momento in cui facevano capolino tutte quelle innovazioni tecnologiche che avrebbero cambiato la storia, dal telefono all'automobile, dal grammofono in avanti, nei giorni in cui s'avvicinava la gioia tricolore. Assieme, è il canto di dolore di un artista istriano che morì senza poter tornare a casa, maledicendo il destino, le guerre e la malvagità dei nazionalismi del Novecento, compiangendo la sorte sua e quella d'altri trecentomila e più, costretti all'esodo pur di scampare alle violenze jugoslave e alla vita sotto regime titino. Come scriveva Italo Calvino: quello di Quarantotti Gambini è un mondo scomparso per sempre, che non è sopravvissuto alla tragedia della guerra, all'esodo dei pescatori e dei contadini. Ma nella memoria tutto è rimasto intatto. Nella memoria, e nel sogno.
Gianfranco Franchi, agosto 2011.
Prima pubblicazione: BlowUp
Nuova edizione di un introvabile libro di Quarantotti Gambini…