Garzanti
1988
9788811662921
Sesto libro di narrativa di Renzo Rosso, “Le donne divine” (Garzanti, 1988) è un romanzo d'agnizione tragica e di nostalgia sconfitta. L'agnizione finale è quella della reale natura del rapporto tra lo “zio” e il “nipote” protagonisti del libro; la nostalgia è quella, dell'artista e forse del suo primo protagonista, per la lontana Trieste. Tecnicamente non è il miglior romanzo dell'artista giuliano, padre della “Dura spina”: è un buon libro esistenzialista, un po' mélo, politicamente velleitario (si dice e non si dice, ma appare il fantasma della spia triestina per eccellenza, l'oscuro Vittorio Vidali, stalinista: uomo lugubre, eppure amico di zio e nipote), morbosetto e febbrile.
Venezuela, primi anni Settanta. Un vecchio italiano, Tommaso, immigrato da una decina d'anni, riceve la visita del nipote, Giacomo, tutto il ritratto di sua sorella, la mamma. Lei è morta da poco. Lo zio è ammalato, sta in ospedale, febbrone che va e che viene. Si fa raccontare di Trieste, perché da quando è partito c'è tornato soltanto di passaggio. Il ragazzo gli dice che la città è ferma, c'è chi guarda con nostalgia al passato austriaco, c'è chi sogna un futuro nuovo, meraviglioso. Il presente non piace a nessuno, a quanto pare.
E intanto lo zio ricorda e racconta la sua storia, l'incontro col Venezuela, “terra sconclusionata, enorme”, dei soldi guadagnati e di quelli scialacquati, delle donne difficili e delle pute, del suo primo viaggio negli States per cercare il papà, malridotto. Nostalgia non ne ha troppa, in ogni caso. Ufficialmente. “Niente affatto. Nostalgia! Rimpiangere i luoghi e le cose che sono state! No. Guardare indietro piagnucolando. Non so neppure che cosa è esattamente, dentro. Fuori sì. L'ho vista addosso agli altri. A mio padre. È una vera e propria malattia; può divorarti” (pp. 24-25).
Il nipotino vuole diventare come lo zio. Vuole emigrare. Sa lavorare il legno, sa cucinare, dolci soprattutto. È un ex studente di Filosofia impiegato in banca, a quanto dice. Ma lo zio non è convinto. Scrive a un vecchio amico giuliano per avere conferma del suo passato. A quanto pare il nipote non ha mentito; merita sostegno. È forse lo zio che deve farsi un esame di coscienza, guardarsi dentro, cercare di ricordare qualcosa... Fermiamoci qua.
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Trieste, a volte, ritorna, come accennavo in apertura. Inaspettata, molto. Prima come archetipo, diciamo così: “Ah Trieste! Bianca e rigida di vento, il catrame e il vino dei tuoi moli, una ragazza ti guardava dalla finestra, assorta di fatica, guardava la tua serena compagine di case e strade e rotaie verso il mare, straniero luogo nuovo per lei, straniera serenità, dove sola speranza è la giovinezza nell'orizzonte aperto dietro la nave che accosta, dove nessuno ti difende, se un vecchio elegante ti stende sul suo letto, e la città ti si infila con lui dentro le vene con la sua ruggine superba, e tu ascolti un lurido, magro sussulto” (p. 37).
Poi, appare per un severo giudizio sul dopoguerra. “Il fascismo era bello che sepolto, tutti parlavano di libertà, i lavoratori, ma a Trieste per esempio c'era quel clima angoscioso degli slavi, le foibe, le beghe dei confini, quell'ingordigia camuffata da comunismo. Pensai di trasferirmi a Treviso (...)” (p. 44).
Infine, sul presente: “Io la vedo sempre uguale – dice il nipote – cioè non è come le altre città che crescono, anzi, chi può se ne va. Le case sono piene di vecchi, di pensionati, qualche volta hai l'impressione che dietro ogni finestra ce ne sia uno che guarda in strada. E il porto è deserto, quasi sempre. Hanno chiuso i cantieri. È diventata un grande negozio per gli slavi. Arrivano a migliaia, il sabato non ci sono che loro. Comprano di tutto, vengono perfino dal Montenegro. Sono come le formiche. La città nel complesso li guarda con distacco. Intorno alla stazione sporcano molto, bivaccano. Certi bottegai fanno affari d'oro, molti sono meridionali, sono piombati a Trieste a vendere montagne di jeans. È solo d'estate che è sopportabile” (p. 121).
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Romanzo tutt'altro che fondamentale; scritto con semplicità e onestà, fondato su una trama esilissima, poteva essere un documento letterario intelligente dell'emigrazione giuliana nel primo e nel secondo Novecento; oppure, una sorta di tragedia autentica. Così com'è, è poco più che un melodramma famigliare – molto provinciale – con vaghe ambizioni di satira triestina. Talmente vaghe che mi sento, in tutta onestà, di consigliarlo solo agli studiosi di letteratura triestina e agli appassionati di Rosso. La nostra letteratura italiana ha avuto momenti decisamente più alti, nel Novecento. Non ci piove.
EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE
Renzo Rosso (Trieste, 1926 – Tivoli, 2009), scrittore e drammaturgo triestino. Laureato in Filosofia con tesi su Antihegel e Hegel in Kierkegaard, fu dirigente RAI. Esordì pubblicando “L'adescamento” nel 1959.
Renzo Rosso, “Le donne divine”, Garzanti, Milano 1988. IBSN 9788811662921
Approfondimento in rete: WIKI it
Gianfranco Franchi, marzo 2010.
Prima pubblicazione: Lankelot.
Trascurabile romanzo di un artista che aveva chiaramente perso ispirazione…