Alet
2011
9788875201647
Scrive Maria Teresa Carbone, curatrice della nuova edizione del necessario e terribile romanzo autobiografico dell'artista sudafricano Breyten Breytenbach: “Sono passati poco più di vent'anni da quando 'Le veritiere confessioni di un africano albino', uscite originariamente in Olanda nel 1984, sono state pubblicate per la prima volta in IT. Era la primavera del 1989. […]. Pochi allora immaginavano che di lì a qualche mese il mondo, così come ci eravamo abituati a concepirlo, immutabile, avrebbe subito una trasformazione radicale. E con il mondo, molto presto, il Sudafrica. Il 19 febbraio 1990 il presidente Frederik Willem de Klerk annunciò la liberazione di Nelson Mandela dopo 27 anni di carcere, nel 1991 vennero abolite le leggi dell'apartheid, nell'aprile 1994 per la prima volta nella storia del paese tutti i cittadini sudafricani, indipendentemente dal loro colore, furono chiamati a votare. Fra grandi speranze e non meno grandi contraddizioni, nasceva il nuovo Sudafrica, quella 'nazione arcobaleno' che nelle pagine delle 'Confessioni' appare come un miraggio irraggiungibile” (p. 355).
Sette anni di carcere (1975-1982) per un artista e un intellettuale colpevole d'aver militato contro l'apartheid: unica sua difesa, dall'alienazione, dalla sofferenza, dalla disperazione figlia della privazione di qualsiasi libertà, la scrittura. È lo stesso autore a parlarne come di un “mezzo di sopravvivenza” (p. 159), ideale per suddividere il suo ambiente in “bocconi digeribili”, per afferrare, capire e interiorizzare tutto quel che stava vivendo.
“Le confessioni di un terrorista albino” è tornato in libreria nel 2010 per i tipi di Alet, a circa vent'anni di distanza dalla prima edizione IT (Costa & Nolan, 1989). Ed è tornato a parlare ai cittadini italiani con innocenza e potenza, con tutta la carica del suo disperato e crudo lirismo: “Non è naturale non vedere mai le stelle, o la luna se è per quello – è crudele come privare una persona del suono. Rivedo la luna per la prima volta il 19 aprile 1976 quando, alle quattro meno ventitrè del pomeriggio, mi trovo nel più grande dei tre cortili per l'aria, che ha muri incombenti, che lo rendono un po' simile a un pozzo. Guardai verso l'alto e con sbalordimento vidi nella chiazza di cielo lassù una forma biancastra rattrappita. Avevo forse una perla nell'occhio? Era la placenta di un'astronave? No, poteva solo essere la luna. E mi avevano detto che era stata impiccata, che era morta!” (p. 125)
Breytenbach ci accompagna negli abissi d'una nazione allora intossicata dall'apartheid: secondo l'artista, si trattava di una “mutazione del potere e dell'avidità”, non giustificata da nessuna religione, eccettuata quella “dottrina distorta” modellata e plasmata dagli afrikaner nel deserto, quella d'un dio “crudele inquisitore bianco”. L'apartheid aveva non soltanto separato i bianchi dai neri, ma stabilito i presupposti per l'estraneità tra tutti. Lui, bianco, si ritrovava a combattere una battaglia di civiltà, democrazia e giustizia a fianco dei neri: da afrikaner, poteva essere uno dei privilegiati in quell'infausto regime, eppure aveva saputo scegliere da che parte stare, perdendo tutto. E aveva scelto da che parte stare senza precipitare nel terrorismo, e nella lotta armata: Breytenbach aveva saputo farne una questione culturale, e con le armi dell'intelligenza e della controinformazione s'opponeva all'infamia del regime. Come se non bastasse, sposato con una vietnamita conosciuta in Francia, a Parigi, aveva violato le leggi del suo nuovo Stato: per il Sudafrica boero, non poteva tornare in patria assieme a quella donna. Questione razziale. E così era stato costretto a un'esistenza sotto pseudonimo, a ritorni in patria sotto mentite spoglie, sotto falsa identità. Aveva perduto il nome, acquisendone diversi altri.
La prigionia viene descritta con incredibile efficacia e lucidità. L'artista ci racconta che per prima, a cadere, è l'identità: già a partire da quando i cittadini inquisiti vengono torchiati, per “disorientarli, distruggere il loro senso di sé stessi e l'intera area i consapevolezza indiscussa del mondo circostante, l'intero tessuto di relazioni con altre persone” (p. 29). Il prigioniero viene tenuto in uno stato di costante instabilità. Breytenbach descrive le strategie di comunicazione e di resistenza attiva dei prigionieri, descrive la pessima qualità dell'alimentazione e la disperazione per la costrizione alla quotidiana testimonianza di violenza e morte; e racconta che i galeotti non trovano consolazione nemmeno nella presenza dei cappellani, considerati “soltanto funzionari del sistema penale, orgogliosi come pavoni delle loro uniformi” (p. 197). Impressiona la dovizia di particolari, la straordinaria capacità di vincere la ripetitività e gli automatismi con una presenza mentale abnorme. Su tutto, impressiona il suo coraggio. Un coraggio sinceramente grande, ed esemplare.
E adesso la situazione com'è? Spente le luci sul recente mondiale sudafricano, festa popolare e internazionale, in quali condizioni ritroviamo il popolo ferito fino a vent'anni fa dall'apartheid? Stando a quanto raccontava Breytenbach al Corriere della Sera un mese fa, a giugno, bisogna tornare a lottare per un nuovo Sudafrica, benedetto da pari diritti e pari opportunità. A quanto pare, il cammino è ancora complesso e faticoso. Cerchiamo di non dimenticarcene. Non è finita.
EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE
Breyten Breytenbach (Bonnievale, Western Cape, Sudafrica, 1939), scrittore, saggista, pittore e poeta sudafricano. Attivista antiapartheid, è stato in carcere tra 1975 e 1982. Collabora con diverse università americane e africane.
Breyten Breytenbach, “Le confessioni di un terrorista albino”, Alet, Padova 2010. Traduzione e postfazione di Maria Teresa Carbone. In appendice, Note al testo.
Prima edizione: “The True Confessions of an Albino Terrorist”, 1985.
IT: Costa & Nolan, 1989.
Gianfranco Franchi, luglio 2010.
Prima pubblicazione: Lankelot.