Mondadori
1985
9788804649755
“Nella sua voce entrò qualcosa di cupo e di sordo, come se d’un tratto gli fosse caduta addosso la sua condizione di uomo solo, con la famiglia distrutta, che si trovava alla testa del presidio di un popolo senza speranza. Nei momenti liberi si aggirava attorno a Marta come un cane sperduto attorno a un casolare. Una volta le disse: – Il Friuli e la Steppa si somigliano almeno in una cosa. – Ossia? – Nei nostri cimiteri sono seppelliti molti italiani, e nei vostri molti cosacchi. Una specie di gemellaggio nella morte” (Sgorlon, “L’armata dei fiumi perduti, capitolo IX, “Il Salvadi”).
L’armata dei cosacchi, capitanata dal generale Krassnov, approdò in Friuli nell’estate del 1944. Orgogliosi nemici del regime sovietico, si trovarono schierati dalla parte delle truppe nazifasciste: la promessa era una terra dove poter vivere, nell’attesa di tornare in patria per combattere i rivali di sempre. Il Friuli, nelle idee dei nazisti, doveva diventare l’attesa “Kosakenland”. E così, questo popolo sventurato e contrastato da tutti gli eserciti si ritrovò in una nuova patria che non gli apparteneva e che spontaneamente l’avrebbe rifiutato, pur compatendo le sue sorti. “L’armata dei fiumi perduti” è un romanzo “misto di storia e d’invenzione”, per diretta ammissione dello stesso Sgorlon: l’intento era quello di raccontare la tragedia poco nota di due popoli, affratellati dall’oblio e dal martirio.
Se il dramma dei cosacchi è narrato tramite il racconto delle parabole esistenziali di ufficiali e soldati, il dramma del Friuli è tratteggiato nella figura paradigmatica di Marta, che fa da cornice al romanzo e da trait d’union alla storia nei momenti di maggior confusione negli eventi. Marta avrà quattro amanti. Un ragazzo ebreo, un soldato italiano d’origine meridionale, disperso sul fronte russo, un ufficiale cosacco e un partigiano. La sorte le sottrarrà i primi tre per sempre, in tempi e modi differenti; al termine del libro, non è un caso se a rimanerle vicino sarà l’ex leader carismatico partigiano Ivos, quasi a voler testimoniare la sorte dell’intera sua terra. Ivos incarna la nuova Italia, e la memoria storica della tragedia della guerra: Marta rappresenta e vive, nella sua carne, i rapidi passaggi di potere e d’influenza subiti dalla sua terra: mantenendo, se non orgoglio, almeno sempre una splendida dignità.
Libro intenso, rilettura interessante del tempo della guerra e delle sue conseguenze sugli uomini: pregevole la documentazione di Sgorlon, commovente nella sua agghiacciante tristezza l’epilogo dell’avventura del popolo cosacco, tradito ancora una volta dai tedeschi e consegnato agli inglesi, con false promesse. Per evitare d’esser consegnati ai sovietici, migliaia di cosacchi si suicideranno. Stringe il cuore la vicenda di questo popolo senza patria, destinato all’eterna ricerca di una nuova terra. Uno dei più detestabili orrori della guerra si può riconoscere nella rimozione dalla memoria collettiva di certe vicende e di certi drammi. La letteratura viene incontro alla storia, prestandosi a documentare e raccontare quel che altrove è stato condannato al silenzio. A riprova di quanto sia fondamentale, oggi come in passato, che la letteratura rivesta il ruolo di memoria genetica degli uomini, questo libro di Sgorlon. Che ha una grave pecca, forse: qui come altrove, lo scrittore friulano sembra in grave difficoltà nell’approfondire l’introspezione di un personaggio maschile. Sgorlon è capace d’inventare seducenti e complesse figure femminili, come vedremo più avanti. Gli uomini rimangono, di norma, legati alla lettura della loro superficie profonda.
Limiti nella narrativa di Carlo Sgorlon è facile evidenziarne. Uno stile che definire omogeneo è riduttivo: è equilibratissimo, e compatto come cemento armato. Non si evidenziano sbavature: ripetizioni concettuali a distanza di qualche capitolo, questo sì. Che siano disattenzioni o ossessioni è difficile giudicare. Tendenzialmente, si avverte la sensazione di un autocontrollo che comporta la castrazione degli slanci lirici e la censura di qualsiasi descrittivismo. La peculiarità è legata alla figura femminile centrale in ogni romanzo: se non è archetipica, è almeno fortemente simbolica. Non riesco ad affermare con sicurezza che si tratti sempre di uno stesso personaggio, che s’incarna di romanzo in romanzo con minime variazioni estetiche e contestuali; il sospetto che l’anima dell’artista di Cassacco si nasconda dietro questo travestimento è piuttosto forte. Trattenuto e freddo, Sgorlon è comunque un narratore originale e non ascrivibile ad alcun movimento letterario contemporaneo. Un outsider, e un isolato. Un diverso, in altre parole: cerebrale fino al parossismo, erudito senza cadere nei bizantinismi o nei barocchismi, singolare nella sua ossessione per la storia recente della sua terra. Questa sua irrefutabile e totalizzante appartenenza a una cultura d’un popolo, che sta contribuendo a ricostruire e a inventare, quando necessario, può rappresentare il suo più grande limite o la sua principale ragione di fascino. Illustri conterranei come Pasolini o Maurensig non hanno alcuna affinità con Sgorlon: se delle pietre millenarie potessero scrivere, scriverebbero con il suo stile. Algido, ponderato, densissimo. Non è un autore esclusivo, ma non è un autore divertente. Non è un autore appassionante, non sempre almeno. È un autore intelligente. Tra un secolo, avrà assunto un forte valore documentaristico: sarà colonna portante degli studi sulla storia e sulla letteratura del Friuli, con buona pace di quanti continuano a confondere il Friuli e la Giulia. Altro non vorrei dire. Scrivere di una pietra è difficile quanto scrivere su una pietra.
“Non riusciva a liberarsi dal pensiero che il kazàk si lasciava dietro una scia infinita di morti, per i quali spesso non c’era nemmeno posto nei cimiteri dei villaggi, e bisognava buttarli nei laghi o nelle fosse comuni. Paradossalmente cominciava davvero a sentire un po’ il Friuli come la patria del kazàk, perché i cimiteri friulani erano pieni dei suoi morti” (Sgorlon, “L’armata dei fiumi perduti”, capitolo XII, “La bambola”).
EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE
Carlo Sgorlon (Cassacco, Udine, 1930 – Udine, 2009), narratore e saggista italiano. Si è laureato alla Scuola Normale di Pisa con una tesi su Kafka e si è specializzato a Monaco di Baviera. È stato insegnante. Il suo primo romanzo, “Il vento nel vigneto”, è stato pubblicato nel 1960.
Carlo Sgorlon, “L’armata dei fiumi perduti”, Mondadori, Milano, 1985. Prefazione (ottima) di Giulio Nascimbeni.
Gianfranco Franchi, giugno 2003.
Prima pubblicazione: Lankelot.
“Con sorpresa, con stupore incredulo, si accorse che le cose tremende di cui aveva acquistato certezza continuavano in qualche modo a non esistere, a restare per lei nella zona dell’irrealtà, come si trattasse di favole popolari di orchi e di streghe. S’immerse di nuovo nel flusso della propria esistenza, senza chiedersi il perché degli eventi. Domandava alla vita soltanto di poter continuare a fare le cose di sempre, e nient’altro” (Sgorlon,”L’armata dei fiumi perduti”, capitolo X, “Alda la bella”).
L’armata dei cosacchi, capitanata dal generale Krassnov, approdò in Friuli nell’estate del 1944…