L’amicizia

L'amicizia Book Cover L'amicizia
Fulvio Tomizza
Rizzoli
1980

1980. Lo scrittore istriano Fulvio Tomizza pubblica il suo undicesimo libro di narrativa, a tre anni di distanza dall'acclamato “La miglior vita”: “L'amicizia”, stampato da Rizzoli, è un romanzo di transizione, in più d'un frangente decisamente ripetitivo rispetto a quanto già pubblicato dall'artista; o almeno, è un romanzo più ripetitivo che ossessivo, come in passato spesso era potuto capitare, con risultati comunque tendenzialmente altalenanti.

Secondo il critico letterario triestino Elvio Guagnini, in questo libro, come nel suo cugino più bello – diciamo così - “La città di Miriam” [1972], s'avverte che Tomizza è “lo scrittore dei trapassi e delle contraddizioni di tutta una civiltà, attraverso la vicenda dell'inurbamento di un giovane intellettuale che proviene dalla campagna istriana”. Rispetto al passato, tuttavia, stavolta Tomizza complica la trama giocando su un secondo personaggio protagonista, ben diverso dal suo classico alter ego: “L'amicizia” è infatti la storia di due persone che intrecciano il loro destino finendo, in un certo senso, per vivere uno la vita dell'altro; a fallire è l'altro, quello che non aveva saputo aprirsi alle altre culture, e in generale non aveva saputo abbracciare la comunità slava del Carso. A fallire non è il campagnolo esule in città: a fallire è il cittadino che fraintende la complessità del Carso – complessità etnica, linguistica e culturale – e quindi perde l'amore, e perde l'amicizia.

Andiamo con ordine. Il personaggio principale è Marco, l'alter Tomizza. Ha “ben diverse angolosità slave, inequivocabilmente contadine”; viene dall'Istria verde, e da lì tanti anni prima è partito per venire in città. È profugo, come sua madre, e scrive. È inedito, ma scrive, e vagheggia pubblicazioni nazionali. Non si sente erede della tradizione triestina, per niente: “Non solo dei triestini non avevo letto una riga, ma addirittura dubitavo che da una città quale io la conoscevo, dialettale e perciò burlona, pratica e dunque gaudente, potessero essere usciti dei personaggi chiamati alla rinuncia e alla meditazione” [p. 13] – e a dirla tutta in gioventù, “di là”, vale a dire in Istria, ha letto i libri degli scrittori italiani e americani “più progressisti”. Ha letto Pavese ed Hemingway, in particolare. È socialista, e decisamente antifascista. È pacifico, e riservato; tende a vivere chiuso in casa, lavora poco, sogna di fare lo scrittore – la madre porta pazienza. È ultrasensibile, e un poco complessato.

L'altro, l'amico-antagonista, è Alessandro. I due abitano nello stesso palazzo. Tomizza scrive che ha l'aspetto di un ex sportivo che ha lasciato l'attività da qualche tempo; è appesantito e s'intravede già qualche capello bianco. Ha il collo corto, la “fissità ingombrante da orso”, gli occhi tondi, “più gialli che castani”. È figlio di italiani, padre soldato, meridionale, madre triestina, d'origine forse giudea forse greca. È nato e cresciuto in città, è un borghese, impiegato di banca. È un grande appassionato di Kafka e di Heine, un lettore forte. Non ha nessun talento artistico. Parla bene il tedesco. Si dichiara socialista, ma è antislavo: “Li ricordo qui durante i quaranta giorni della loro occupazione, prima che vi si stabilisse il governo angloamericano. Ero un ragazzo di dodici anni ma dopo le notti nei rifugi aerei, solo allora mi pareva di scorgere il vero volto della guerra. Pareva ce l'avessero con tutto ciò che vi era di civile, di urbano: eleganza, finezza, cortesia” [p. 22]. E questa sua ostilità agli slavi finirà per farlo infelice. E incompiuto.

La prima delle tre donne contese tra i due amici è l'amante di Alessandro, l'ex moglie di un pittore triestino famoso in tutta Italia; Marco potrebbe sedurla, ma finisce per servirsene come ponte per la grande editoria, come fonte di contatti di livello – ma intanto la stuzzica. La seconda è Cinzia, che nel passato narrativo di Tomizza ha un altro nome, Miriam. Marco finisce d'innamorarsi di Cinzia, donna d'un mondo “due volte profano” per il suo sangue; ebrea e triestina, donna d'altra religione e d'altra cultura, riesce a insegnargli l'amore e a mostrargli cosa significhi la parola “fedeltà” [cfr. “La città di Miriam”] e cosa siano davvero la generosità e devozione, e quanto possa essere piacevole un rapporto di coppia, e dignitoso guadagnarsi il pane con un lavoro diverso da quello letterario [è la radio, che va ad alimentare la scrittura]; Alessandro, invece, che pure poteva finire con una come Cinzia, e forse per qualche tempo ne era stato attratto, si ritrova a vivere un amore carsolino, con una ragazza slovena, vago e inconcludente, e infine perduto. Irena è una donna che uno come Marco avrebbe saputo e potuto amare con ben altra intensità e ben diverso trasporto, e autentica appartenenza, perché condivideva parte del suo sangue e rispettava e apprezzava la sua cultura. Ma Alessandro, con tutta la sua ritrosia dovuta ai tanti condizionamenti ereditati dal nazionalismo, e la sua incerta comprensione dell'alterità, finisce per fraintenderne l'essenza e perderne il tempo.

Trieste. Trieste non se la passa bene, in questo romanzo. Perché Tomizza la racconta a tinte fosche, e a volte sembra quasi che sia una città maledetta. L'artista ha qualche veleno da cui liberarsi – fatica a farlo. E non si si tratta di “fufignezi dele babe”. Per capirci, e per esempio; si domanda Marco, in osmiza: “Che c'entro io con questa città? Posso al massimo guardarla da fuori, come meta naturale e saltuaria, sempre provvisoria. Per amarla occorrerebbe avervi trovato ciò che per me rappresentano questi sassi, quest'erba, questo mucchio di cenere tra le ortiche; la tenera famigliarità che mi trasmettono” [p. 134].

Ma già dalle prime battute del libro la bella città di Slataper sembrava, in questo romanzo, tutta ombrosa, e cupa, e addirittura senza personalità: “Attraversammo piazza dell'Unità d'Italia quasi oscurata, ci inoltrammo nel buio completo del molo Audace al quale aveva attraccato la prima nave della redenzione. L'unica presenza viva ci giungeva dal tuffo di un paio di gabbiani impegnati nella silenziosa pesca notturna. Una semicorona di luci discontinue delineava il profilo dell'altipiano carsico; sotto, quasi alle falde del castello, si affacciava spettrale una fila di palazzi per lo più ottocenteschi (del Lloyd, del Governo, del Teatro lirico, dell'Hotel de la Ville, della Capitaneria di porto), intervallati dal nordico municipio in fondo alla piazza, dalla minuta chiesa dei Greci, dal braccio del canale: una Venezia povera di acque e di estro, un angolo di Vienna reso mosso dal mare o una Salonicco proiettata su uno sfondo alpestre” [pp. 24-25].

Non basta. Ci risiamo con la città della bora e dei matti: “[...] E poi gli incontri clandestini, con i capelli scomposti dalla bora, il senso di lotta a cui la bora ti sferza, quella tensione tutta di testa che altro non è se non un'eccitazione dei nervi scossi dal secco vento di nord-est, non esistono città con maggior numero di matti registrati nei frenocomi o liberi di circolare in piazza Grande, missionari senza fede, puritani atei di tutto, sigfridi con un sottobosco a teatro dei loro slanci vitalistici, ulissi le cui colonne d'Ercole dividono l'Istria dalla Dalmazia...” [p.60].

Non basta ancora. Trieste è città ferita da profondi antagonismi tra i suoi artisti di riferimento: “Si usa dividere gli intellettuali triestini tra quelli rimasti qua a incattivirsi fra i frantumi dei loro sogni irrealizzati e coloro che bene o male, con merito o con fortuna, si sono inseriti nel meccanismo italiano e non ammettono che la città continui a esistere a dispetto della loro lontananza. Si suole anche dire che questa città è stregata, il suo abbraccio troppo forte porterebbe a una lenta agonia” [p. 65].

Oltretutto, “tutto nasce presto e tutto muore ancor più presto a Trieste” [p. 100]. Amen, insomma. Addio, poesia della città di Saba e di Stuparich. Non c'è romanticismo neppure nei confronti della seducente città vecchia: Citavecia è, in quegli anni, descritta come una realtà decisamente e incresciosamente degradata. “Passando un mattino per quel gomito di strada che immette in Citavecia, o per il quale il quartiere malfamato della città si collega al centro ufficiale [...]” [p. 30]; è una zona in cui al limite ci si concede un calice “sotto i fiaschi a grappolo, in taverna”. Tomizza è aspro come il Terrano.

Qualcosa di bello viene comunque descritto, in città. È il panorama che l'artista poteva vedere dalla sua casa di via Giulia – panorama che sembra ispirarlo nonostante l'antagonismo con la città di Svevo, che va puntinando il romanzo. Così: “Il tramonto si rifletteva sui vetri dei piani alti di via Battisti, indorava le foglie dei platani del Giardino Pubblico e pareva incendiare intere ville e cascine sulle pendici del Carso. Le due file di lecci lungo la via tremolavano al borino serale che c'investiva in pieno viso. Una mano posata sul suo fianco, credevo ora di sentirne la pelle rabbrividita” [p. 108]. Proprio da quelle parti, adesso, esiste un Largo Tomizza. Saggia scelta.

EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE

Fulvio Tomizza (Giurizzani di Materada, frazione di Umago, Istria, Italia; 1935 – Trieste, FV-Giulia, Italia, 1999), scrittore e giornalista istriano. Esordì, come narratore, pubblicando “Materada” nel 1960.

Fulvio Tomizza, “L'amicizia”, Rizzoli, Milano, 1980.

Prima edizione: Rizzoli, 1980. Sempre Rizzoli, 1982, con prefazione di Giovanni Raboni. Il romanzo è stato tradotto in tedesco.

Approfondimento in rete: WIKI it

Gianfranco Franchi, aprile 2012.

Prima pubblicazione: Lankelot.

Storia di due persone che intrecciano il loro destino finendo, in un certo senso, per vivere uno la vita dell’altro; a fallire è l’altro, quello che non aveva saputo aprirsi alle altre culture, e in generale non aveva saputo abbracciare la comunità slava del Carso.