LEG
2006
9788861020023
“Trieste e l’Istria, abbandonate e tradite nel settembre 1943 sono ancora degne della Patria. La storia risponderà se la Patria è stata degna di loro” (Ercole Miani, “La Resistenza nella Venezia Giulia”)
“Stelio Spadaro e Patrick Karlsen – scrive nella presentazione Riccardo Illy – hanno raccolto in questa antologia testi di intellettuali, di scrittori e di uomini politici apparsi tra il 1943 e il 1955, (…) un periodo che riassume in modo emblematico la tragedia di un’Europa dilaniata per la seconda volta in pochi anni da una distruttiva guerra fratricida. (…) La tradizione culturale dell’antifascismo democratico è stata solo apparentemente minoritaria”.
“Assurdo nazionalismo” e “folle volontà di potenza”: ben diverso doveva essere l’approccio dell’Italia nei confronti delle popolazioni slave, al di là – e a volte all’interno, e non da qualche giorno – della Venezia Giulia. Questo sembra suggerire il primo testo dell’antologia di Karlsen e Spadaro, un documento pubblicato in clandestinità dal povero Foschiatti, caduto a Dachau, tra le anime di “Giustizia e Libertà”. Questo sembra suggerire, assieme alla prima, incredibile e modernissima – e Romana, e Franca e Absburgica, ma con diversa “sfumatura” – intuizione: quella dell’Europa delle Nazioni, confederate e quindi estranee a un Impero centrale. Il sogno è quello di una Federazione (ma accidenti quanto sento echeggiare la lezione austriaca) di nazioni capaci di tutelare culturalmente o economicamente i vari popoli. Sembra scritto nel 2007, con la lucidità di chi può studiare le fonti senza timore di ostilità da parte di sopravvissuti di prima generazione; non è così. Siamo nel 1943.
Questo Foschiatti ha una scrittura e una visione della realtà eccezionalmente chiare, seminali e d’avanguardia: sembra percepire il futuro con diverso nitore rispetto a tutti gli altri autori selezionati. E dimostra di aver compreso molto bene la ragione autentica della confusione che si stava verificando, della drammatica confusione che ha mutilato Trieste e Roma dell’Istria Costiera, di Fiume e di Zara: le popolazioni slave si stavano vendicando, e l’aggressività del regime comunista era nient’altro che il miglior piede di porco per scardinare le difese – tenui – della cultura (neo) democratica “occidentale”. L’idolatria tenace per “l’uomo del popolo” che avrebbe riscattato un popolo – corrige: diversi popoli slavi – ferito e vessato da secoli di influenza o occupazione italiana, era senza dubbio una bella arma di propaganda: si fondava su una verità non parziale. Peccato che i vessatori non fossero solo italiani, storicamente, e che parecchie delle terre rivendicate fossero a maggioranza assoluta di lingua e cultura italiana.
Foschiatti è una pietra miliare – qualcosa da cui ripartire. Dal Fascismo, suggerisce quest’antologia di intellettuali e letterati antifascisti e democratici, non si può ripartire davvero: Miani nomina il fascismo “deformazione dell’Italia dei sogni” degli irredentisti: Stuparich parla di “dramma patito” e di “fatale aberrazione”, di “sistema poliziesco più infame ancora” che quello asburgico; di “malattia tremenda, quasi mortale. Saba scriveva di “fascisti inetti e tedeschi lurchi”. L’unico che sembra trattare il fascismo con distacco è Biagio Marin: non è devastante e non è drastico nella sua lettura del senso di quel regime. Se si tratti di sensibilità di poeta o di ex appartenente al regime, decidano gli storici e i lettori. Voglio pensare sia sensibilità di uomo libero, di libero osservatore.
Dal Fascismo non si può ripartire non solo perché si è combattuto e rovesciato: non si può ripartire perché la responsabilità dell’odio slavo e dell’identificazione italiano= fascista suggerisce agli intellettuali l’idea che le peggiori malefatte a danno slavo siano avvenute in quel lasso di tempo. Logicamente è facile accettare questa lettura, proprio perché la nostra Italia s’era affermata post 1918. Prima c’era Austria, e prima ancora Austria e qualche parentesi di Venezia, senza precipitare nel passato – ad esempio – Romano. Curioso sarebbe appurare se lo stesso malanimo slavo era anti-austriaco e anti-veneto, per ragioni probabilmente analoghe. Sta di fatto che a sentire gli intellettuali presenti in questa antologia, prima che esistesse l’Italia – e quindi, subito dopo, il Fascismo – in quest’area c’era pacifica convivenza e assoluto rispetto tra diverse etnie; la lingua dei commerci era un dialetto italiano, probabilmente per via dell’antica influenza e dell’antico potere di Venezia, e dell’eccezionale aura di rispetto trasmessa dalla cultura italiana. Non mi sento convinto di questa lettura.
Il Fascismo – è quasi un coro – s’è appropriato inopportunamente dello spirito del Risorgimento. Ma questo principio, a chi scrive nel 2007, non sembra pacifico. Proprio pensando ai primi passi del Fascismo e alla prima ricerca – diciamo così – della fondazione d’uno spirito di quel movimento trovo diversi richiami al Risorgimento. Che siano stati poi traditi è altro discorso. Che fosse opportuno richiamarsi al Risorgimento altrettanto.
Cosmopolitismo, impegno civile, patriottismo democratico: questi i tre assi portanti del pensiero – dei pensieri – che si sprigionano durante e al termine della lettura del testo. La storia di Trieste – seicento anni di Austria, duecento di Porto Franco – non può essere estranea al cosmopolitismo: porto d’Austria, fortunato e felice sin quando non è diventato italiano, crogiolo di etnie e religioni diverse senza mai dimenticare la maggioranza, diremmo oggi, “italiana”. Virgoletto a ragione, considerando la storia di questo Paese: che è sempre meno unito da altro che non sia un passato in cui non lo era affatto, e sta dimenticando il sangue versato per la sua “unificazione” – la prima della storia, è bene tenerlo a mente sempre: meglio sarebbe dire “fondazione”.
Patriottismo e non nazionalismo: perché il nazionalismo, in quel momento storico, significava “imperialismo fascista”. La differenza tra i due termini è una sfumatura sottile. Questi intellettuali gridavano “Italia” ma non volevano avallare guerre o invasioni: volevano tolleranza, rispetto, giustizia, libertà; pacifica coesistenza con i popoli slavi, almeno fin quando non rivendicavano terre italiane. In quel caso, si andava a fronteggiare il dramma del termine di una dialettica. Dramma insoluto. Bandiera con stella rossa e altri colori, e spazio solo per la nostalgia e la memoria e la rabbia, questo sì. E martirio o fuga dei cittadini. Di fronte a questo non so quale dialettica rimanga. Forse solo l’elegia.
Impegno civile – perché una nuova coscienza andava, e va forgiata. Non solo coscienza democratica: io direi coscienza di nazione, di appartenenza. Perché Trieste, e lo dico da triestino di nascita e tanto sangue, mi sembra la più meridionale delle città austriache; e da austriaca di cultura italiana doveva vivere. La menzogna dell’esistenza dell’Italia – della sua esistenza secolare e mai riconosciuta dagli invasori – è la tragedia di Trieste – e Pola, e Zara, e Fiume e l’Istria Costiera l’hanno pagata cara: con la perdita della libertà, con l’esodo in massa dei cittadini, con l’addio alla propria storia e alla propria lingua. Trieste è rimasta italiana, perdendo il suo territorio: è uno sguardo triste sulla giustizia delle democrazie parlamentari e dei regimi, oggi sogna l’Europa vera – la confederazione dei popoli e delle Nazioni – perché ritroverebbe se stessa. Come quando era Austria, e non intendeva essere altro che Trieste: la bella, l’allegra e nevrotica città, porta d’Oriente e balcone d’Occidente. Terra fertile per tanti popoli differenti. Città Civile. Non italiana: è triestina. In Italia non esiste niente del genere, niente di simile. Nessuna città italiana vanta seicento anni di libertà e cultura austriaca – Porto Franco incluso – : una cultura così tollerante da lasciarti restare Trieste, col tuo dialetto, le tue abitudini, i tuoi vizi, i tuoi talenti.
Probabilmente il passo più toccante in assoluto è nel ricordo dell’esodo di Pola – di tutta la città: circa trentamila abitanti – all’atto della consegna alla Jugoslavia di Tito, grazie alla strategia russa, della città: una città che si svuotò, letteralmente, per diventare comunista e slava. Fantasma di Pola, oggi Pula, Croazia. “Pula”. Succede solo agli Stati, una cosa del genere: non alle Nazioni.
Il pezzo è firmato da Miglia, ultimo direttore de “L’Arena di Pola”, e andrebbe consegnato a tutte le scuole di questa nostra sedicente lingua “italiana”, in tutte le regioni: spiega molto più di un documentario o di una pessima fiction televisiva quel che è accaduto in terre che Tito, i comunisti – non solo slavi – e l’indifferenza e l’ignoranza dei c.d. italiani hanno consegnato alla Jugoslavia.
Questo libro aiuta a ricordare, a ragionare e a meditare. A sognare magari un futuro diverso: interiorizzando la lezione degli Stuparich, dei Foschiatti, dei Marin, dei Saba. E tuttavia modernizzandola. Adesso che quasi tutto è perduto – a parte Trieste, che sembra “soltanto” abbandonata da qualsiasi governo – noi, che discendiamo da giuliani e da istriani, e quelli come me, che sono finiti simbolicamente a Roma venendo da tanto sangue diverso eppure di una stessa città, dovremmo chiederci se aveva senso rivendicarla italiana “economicamente” e “burocraticamente”. Cultura italiana sarebbe rimasta per sempre, in senso naturalmente Romano: benessere, fortuna, crescita e sviluppo sarebbero stati diversi, e non avremmo avuto 300mila anime che gli “italiani” chiamavano “slave” o “apolidi”, ospitandole nelle loro città.
Mi diverte l’onomastica. Talvolta domando la storia dei cognomi alle persone che incontro. Gli istriani e i fiumani e i dalmati sono quelli che nascondono più volentieri il loro passato, purtroppo, qui a Roma. È un gran peccato, perché vuol dire che qualcuno li ha fatti vergognare d’essere stati istriani, fiumani e dalmati. E oggi sono diventati milanesi o romani, con la r minuscola. È andata così.
Questo libro mi ripete “Italia”, ma io so soltanto che “Trieste” esiste, ed è quel che ci è rimasto di un grande sogno. Trieste patria, e la nazione non potrà che essere quella europea: assieme agli austriaci, agli slavi, ai greci, agli italiani, i triestini torneranno grandi.
Mi scuso per il taglio dell’articolo: non sono uno storico, sono un letterato. Lascio subito la parola agli storici. Accettate benevolmente questa mia lettura “non accademica” in nessun senso: molto sentita e molto appassionata. Senza dubbio non troppo italiana. Ringrazio Karlsen e Spadaro per il prezioso libro. Mediterò ancora e maturerò altre riflessioni.
EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE
Patrick Karlsen (Genova, 1978), poeta, critico e storico mitteleuropeo. Si è laureato con Anna Maria Vinci in Storia Contemporanea all’Università di Trieste, dove attualmente svolge un Dottorato in Storia. Ha approfondito alcuni aspetti dell’opera di Fabio Cusin ed Elio Apih, ha introdotto e curato gli scritti di Angelo Ermanno Cammarata sulla “questione di Trieste”. Ha esordito pubblicando il libro di poesie e prose “Postnovecento” (Edizioni del Catalogo, 2005). È stato redattore della rivista universitaria indipendente “Lighea” e del portale indipendente di comunicazione e critica letteraria e dello spettacolo Lankelot.com. Scrive regolarmente sul mensile “Help!”.
Stelio Spadaro (Isola d’Istria, 1934) è stato insegnante di Storia e Filosofia nei Licei e Assessore alle Attività Culturali per la Provincia di Trieste dal 1977 al 1980. Segretario della Federazione provinciale dei DS dal 1993 al 2001, ha guidato a Trieste la transizione tra PCI a PDS e quindi a DS, contribuendo a forgiare la nuova cultura politica della sinistra giuliana.
(A cura di) Patrick Karlsen, Stelio Spadaro, “L’altra questione di Trieste – Voci italiane della cultura civile giuliana 1943-1955”, Libreria Editrice Goriziana, Gorizia, 2006. Presentazione di Riccardo Illy. Premessa di Fabio Forti. In appendice, una serie di profili biografici degli autori raccolti in antologia.
Gianfranco Franchi, gennaio 2007.
Prima pubblicazione: Lankelot.
“Trieste e l’Istria, abbandonate e tradite nel settembre 1943 sono ancora degne della Patria. La storia risponderà se la Patria è stata degna di loro” (Ercole Miani, “La Resistenza nella Venezia Giulia”)