Mondadori
1969
1969. Trentaquattrenne, lo scrittore istriano Tomizza, triestino d'adozione, pubblica il suo quinto libro di narrativa: si tratta del secondo dei quattro libri con protagonista il suo alter ego Stefano Markovic (primo era stato “La quinta stagione”, 1965). “L'albero dei sogni” è inequivocabilmente un memoir – così scopertamente autobiografico che finisce, nelle ultime battute, per diventare letteralmente un diario dell'artista umaghese. Un diario scabro e singultico. La narrazione delle vicende riparte da dove s'era conclusa “La quinta stagione”, vale a dire col suo ingresso in seminario, a Capodistria, nei primi anni Cinquanta, in un contesto considerato, in quel periodo, rassicurante per un giovane istroveneto. Capris era infatti la roccaforte dell'italianità [almeno: della “veneticità”] istriana; quelli erano gli anni del Territorio Libero di Trieste, subito a ridosso della disgrazia terribile della Seconda Guerra Mondiale, e davvero nessuno poteva immaginare che la Zona B, quella di Capodistria, Pirano, Isola, Umago e Buje, avrebbe finito per essere consegnata alla Jugoslavia. Non c'era nessuna ragione, né etnica né storica.
Il giovane Stefano Markovic sembra non trovare pace da nessuna parte, e non essere a suo agio con nessuno, né in seminario né in coscienza: la sua anima ha tanti colori e il suo spirito parla almeno due lingue, e lui non sa scegliere, se non provvisoriamente, cosa essere, chi essere e in cosa credere. Naturalmente tutta questa fragilità finisce per far deragliare amicizie e sodalizi, e per ostacolare incontri con chi, invece, ha un'identità più netta: italiana, e quindi nuovamente irredentista, slovena o croata. Stefano capisce tutte le loro lingue e sa servirsene con tranquillità. Ma Stefano non è nessuna di quelle lingue, e nessuna di quelle bandiere: in ogni caso non è solo italiano e non è solo jugoslavo.
Nel frattempo, a Materada, il socialismo si dà da fare per cancellare la storia e le proprietà degli istroveneti rimasti: la mamma di Tomizza ha perduto il negozio, “assorbito dalla cooperativa”, mentre il papà combatte per difendere la sua terra, soffocato da tasse assurde, finendo di lì a poco per essere arrestato dai comunisti, senza conoscerne il motivo. E tutti quei mesi di galera finiscono per fare del male a suo figlio, sempre più confuso; inevitabilmente vanno ad armarlo di disprezzo, di dissenso e di rifiuto di certe logiche del regime che giurava di portare uguaglianza, e invece legittimava il furto e la più arbitraria confisca dei beni. Tra Materada e Giurizzani c'è chi, tra i vecchi amici, non abbraccia più Stefano, a quel punto, perché “figlio di reazionari”; la maligna propaganda titina sta sporcando tutto. Sta frantumando legami che avevano saputo resistere alle guerre e alle malattie. Sta scavando un solco tra chi viene dalla vecchia Istria veneta, dalla vecchia Dalmazia veneta, e tra quanti sembrano rivendicare quelle terre come se legittimamente appartenessero loro, e loro soltanto. In paese Stefano sente parlare in uno slavo diverso da quello del vecchio dialetto; non c'è più musica in quella lingua.
Più avanti, quando la vita avrà finito per portarlo a Belgrado, poco prima della rocambolesca e assurda risoluzione della questione di Trieste e del suo Territorio, scriverà, in un momento di lucidità relativo al disastro della sua identità, in contesto serbo: “Balbettavo un croato fortemente dialettale, affermavo di essere italiano mentre i documenti che esibivo erano identici a quelli delle altre persone e dei diciotto milioni di cittadini assunti a un ruolo che imponeva reciproco rispetto. In nome di Dio, chi ero?” [p. 203]. Semplice, viene da dire: un istriano. Mansueto, gentile e onesto, mezzo veneto e mezzo slavo.
Scriveva Carlo Sgorlon: “Questo libro è forse più radicalmente e scopertamente autobiografico degli altri. Tomizza si narra 'toto corde' con una sincerità integrale, che tuttavia rigetta come spurie le tonalità del sentimentalismo, dell'elegia, dell'autocompatimento o dell'automitizzazione. E pur essendo la sua storia scottante, tuttavia egli la domina, strutturalmente e stilisticamente, da gran signore. Tomizza per narrare non ha bisogno d'inventare. La storia è già tutta nella sua esperienza e nella sua memoria [...]”. E questo forse può finire per diventare un grande limite; perché l'autore rischia di sovrapporsi al suo popolo, e di raccontare le sue vicende e le sue scelte come inequivocabilmente paradigmatiche, e facilmente condivise. La realtà, come sempre, era più complessa e articolata. Per capirci, in pochi, tra gli istriani e i dalmati italofoni, avrebbero accettato di studiare, sotto regime titino, nelle città di Belgrado e Lubiana; e questo al di là di generiche inclinazioni socialiste o socialisteggianti. Era una questione di rispetto per la tragedia delle centinaia di migliaia di esuli, per la fosca vicenda della primitiva pulizia etnica delle foibe, e via dicendo. Tomizza sapeva sublimare il male: credeva in una forma di fratellanza più alta, e superiore a qualsiasi bandiera e qualsiasi ideologia. Aveva tanto sangue diverso, dentro di sé, e a tutto quel sangue rispondeva. Infine, sapeva tollerare la stella rossa. Nonostante quel che nel suo nome era stato fatto al suo popolo.
**
“L'albero dei sogni” s'apre con tre versi dell'Eneide di Virgilio: il poeta parla del grande albero dove riposano i “vana somnia” della nostra razza: “In medio ramos annosaque bracchia pandit / ulmus opaca, ingens, quam sedem Somnia vulgo / vana tenere ferunt, foliisque sub omnibus haerent”. Commentava Luigi Baldacci: “Quest'albero dei sogni è come l'agglomerarsi di un mondo di sentimenti e di fantasie e di speranze che appartengono all'infanzia e alla prima giovinezza ormai perdute. 'Somnia vana' dice Virgilio, perché non hanno corpo, perché spesso ingannano, perché talvolta – e soprattutto – invece della realtà delle cose ce ne restituiscono la memoria; e quella memoria pare essa stessa una realtà tangibile e ci brucia e ci addolora”.
Secondo Paolo Milano, “nella giovane vita di Stefano tutto è duplice, alterno, contraddetto, scisso: nelle circostanze come nei sentimenti. In queste terre di confine ancora sommosse, si scontrano uomini di città e gente del contado, triestini friulani croati istriani, comunisti di Tito contro possidenti, così come, nell'animo di Stefano, battagliano devozione religiosa e insofferenza di ogni fede, dialetto veleno e dialetto sloveno, brama della 'irraggiungibile e odiosamata Italia, schernitrice del suo povero lessico', e attrazione verso la nuova società jugoslava, infine e soprattutto, perduta ammirazione per il padre, percorsa da un filo sotterraneo di rivolta”.
Già: il padre. Chiosava Geno Pampaloni: “Il padre, odiato e amato, sta, massiccio e implacabile, sul confine che attraversa per sempre la vita. La sua morte, che sembra chiudere un'età, di fatto apre un altro infinito. La libertà inseguita come affermazione di sé diviene un rimorso, e trova un esito imprevisto nella tenerezza. Così l'istriano Tomizza incontra fatalmente il suo retroterra mitteleuropeo, da Freud a Kafka”.
Con esiti irregolari e non estranei all'opacità, almeno in questo romanzo, infestato dai sensi di colpa per la perdita del padre – e degli ideali del padre, non sempre rispettati. Ma quale figlio non passa per la ribellione?
EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE
Fulvio Tomizza (Giurizzani di Materada, frazione di Umago, Istria, Italia; 1935 – Trieste, FV-Giulia, Italia, 1999), scrittore e giornalista istriano. Esordì, come narratore, pubblicando “Materada” nel 1960.
Fulvio Tomizza, “L'albero dei sogni”, Mondadori, Milano 1977. Introduzione di Mario Petrucciani. Include un'antologia critica.
Prima edizione: Mondadori, Milano, 1969.
Approfondimento in rete: WIKI it
Gianfranco Franchi, aprile 2012.
Prima pubblicazione: Lankelot.
Un diario dell’artista umaghese. Un diario scabro e singultico. La narrazione delle vicende riparte da dove s’era conclusa “La quinta stagione”, vale a dire col suo ingresso in seminario, a Capodistria…