Hacca
2009
9788889920268
Non è soltanto il romanzo sentimentale per eccellenza di Renzo Paris, biografia raccontata attraverso le sue donne, la sua nevrastenia, la sua sensibilità: “La vita personale” è un impressionante libro di memorie di una generazione di letterati romani – o romani d'adozione: come sempre. Paris è la voce e la memoria storica, in questo libro, della Scuola Romana: dell'ultima Scuola Romana. Noi, letterati romani (d'adozione, s'intende) nati dalla seconda metà degli anni Settanta in avanti, dobbiamo essere riconoscenti per questo incredibile regalo: una visione privilegiata, orgogliosa e onesta di un momento della storia della Letteratura e della cultura di questa Nazione che nessuno prima aveva saputo interpretare e raccontare con tanto equilibrio, tanta dolcezza, tanta umiltà. Con tanta, in altre parole, personalità. Preparatevi: leggendo questo libro vi ritroverete a camminare e a parlare con Pasolini, con Moravia, con Amelia Rosselli, con Antonio Veneziani, con Sandro Penna. Ascolterete Ginsberg, e incrocerete lo sguardo di Giulio Ferroni, Daniele Del Giudice, Nanni Moretti. Tutto miracolosamente intatto. Ancora – adesso – vivo.
Amerete le donne che ha amato l'alter ego di Paris: condividerete la sua visione del sesso, del possesso, dell'idolatria della carne d'una donna. E tutto a un tratto, di fronte a voi, una visione: la poesia – la letteratura – donna: la donna come porta della letteratura; è l'impossibile coincidenza di carne e parola, idea che non può incarnarsi se non nell'utopia. E tuttavia quanto è disperatamente bello credere che sia possibile che lei, la donna amata, sia carne e carta, sia il senso e i significati tutti: lo scrigno dell'essenza di ogni cosa. E che quella carta e quella carne siano tue, è il sogno. Il sogno del possesso. Che tu possa dominarle, e averle. Naturalmente: senza artificio. Quasi per predestinazione. Non per un'ora, per sempre. Paradiso letterario, Eden esiste: è un giardino abitato e la parola plasma tutto quel che appare, dà forma al niente: il letterato abita, ripopola e genera il non è.
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Scrive Andrea Di Consoli: “La vita personale di Paris, tra i suoi romanzi più importanti, è il resoconto di un’intera vita, un testamento, un lucido e doloroso sberleffo alle proprie ossessioni amorose e sentimentali. È, anche, un romanzo pieno di oscillazioni, se è vero che attraversa indenne molti generi, dalla lirica alla pochade, dall’autofiction alla commedia degli equivoci, dal romanzo sociologico al melodramma”.
Luca Saraceni – come Renzo Paris – è un professore-poeta, classe 1944. Innamorato delle donne, sposato con la poesia (p. 87: la poesia è femmina, p. 108), per tre donne racconta la sua vita: la poetessa romana Laura, l'americana Karen e la trentina Sara. Sono state le sue “tre madri” (p. 40). Non ha saputo superare il senso di colpa cattolico per il piacere; s'è sposato in Comune per rispetto nei confronti di quel dio che aveva detto di non riconoscere più; per tutta la vita, ha combattuto l'incapacità di possedere totalmente una donna. L'impotenza – dichiarata in più di un frangente – sembra vada interpretata in questo senso: come fallito dominio dell'eterno femminino – come coscienza che nessuna donna coincide con l'idea perfetta. Non può incarnarla – se non per un momento. Tuttavia, cautela... perché: “Le parole, come diceva Prévert, mentono monumentalmente. In tanta menzogna spero che ricaviate un pizzico di verità”, scrive l'autore-narratore, sovrapponendosi al suo alter ego. Sarà così per tutto il romanzo: l'io narrante del 2008 prende il posto dell'alter ego, sovrapponendo il presente al passato remoto, al passato prossimo: rileggendosi, dileggiandosi, giustificandosi. Sempre ferito e cosciente – tramite la sua scrittura, tramite le parole dei suoi personaggi – che “le parole mentono” (Laura, p. 41): che paradossalmente, lui sposo della poesia, può preferire vivere che scrivere versi (p. 168), in certi frangenti della sua esistenza; infine, che nel 2005 cerca una persona che diventi personaggio “della mia poesia in atto” (p. 250): vuole una persona per “scrivere sul suo corpo e, con il suo corpo, i miei nuovi versi”. Eccoli, si sono sprigionati, si sono travestiti da romanzo. Adesso danzano nella vostra immaginazione. Restate lì a guardarli, lasciateli andare.
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La storia di Laura ha inizio dal suo abbandono: da quando prende l'uscio e se ne va. È il 1977, Luca ha 33 anni. La relazione era entrata in crisi da tempo; Luca non riusciva a liberarsi dal mondo materno, vedeva sua madre dappertutto. Non avere avuto figli, probabilmente, non aveva contribuito a un cambiamento. Passa qualche mese e Luca si sente come la “bambola” di Patty Pravo. Parte per Bologna: spariti eskimo e uguaglianza, è il momento del punk, della mascherata della diversità a ogni costo. Si sente “archiviato, seppellito in vita”: la democrazia di base sognata è stata distrutta dalle Brigate Rosse, la poesia s'è addormentata nei campi. Il femminismo – aggiungo – ha confuso le donne: tiranneggiate e manovrate, come nel caso di Laura, dal loro analista, sono le marionette della libertà più scriteriata e stupida. L'egoismo le trasforma in pezzi di carne che si consegnano, come drogate, al miglior offerente. Carne da masticare con rabbia, e con impazienza. E poi lasciare a un altro cane. E a un altro ancora.
Luca torna a Roma: stacca i quadri dalle pareti, infila i libri nello sgabuzzino. È difficile dividere i propri libri da quelli di Laura: ogni libro è un'emozione, un ricordo. Lei passa a prendere le sue cose – le sue poesie, un cuscino – e Luca pensa che non è più nuovo nemmeno morire.
E poi, tutto a un tratto, a Luca si sostituisce Renzo, Renzo Paris. E racconta quel che realmente era accaduto: “Io ricordo giornate di grande depressione quando Laura mi lasciò, ubriacature già al mattino presto, la voglia che avevo di togliermi la vita. L'avevo amata alla follia, al punto che guardavo la realtà con i suoi stessi occhi. Ero fiero di presentarla ai miei amici letterati, da quelli famosi come Moravia e Pasolini, agli esordienti come Dario Bellezza, a una poetessa che mi aveva turbato come Amelia Rosselli” (p. 29). E ricorda che ad alleviare il dolore fu l'amicizia di un giovane poeta sceso dall'Emilia Romagna, “settantasettino che amava le spille sgargianti sulle sue ampie giacche scure”: facile riconoscere Antonio Veneziani. Assieme, compilano un'antologia di amicizia amorosa nella poesia italiana.
Luca è depresso. Non esce di casa, fa la spesa una volta a settimana, ricostruisce la sua vita tramite i suoi libri, raccontandosi dove e quando li aveva acquistati. Cerca di vivere una diseducazione sentimentale, mentre Laura va e viene, fanno l'amore e poi taglia di nuovo la corda. Cerca un conforto impossibile nell'analisi, si ritrova spiazzato e sconvolto dalla morte del padre, scoppia a piangere dappertutto. Pochi mesi dopo, la madre, vittima di un ictus, si ritrova paralizzata. Da qui in avanti la narrazione si spezza, alternando flashback della storia con Laura a strapiombi nel presente: Luca-Renzo ricostruisce il contesto e il principio del loro grande e confuso e maledetto amore, dai primi incontri sino alle ultime scopate nervose, quando tutto era finito, quando Laura si era sovrapposta al nuovo, americano amore.
Karen è “una femmina” (p. 161): nessuna ambizione intellettuale, nessuna somiglianza con Laura. È una donna dolce che ha deciso di appartenere a Luca: per la prima volta è davvero innamorata. Sarà madre dell'unico figlio (1981). Le pagine sulla paternità sono dolcissime, commoventi. Decisamente uno sbuffo d'eternità per il primo erede. L'unione tra Karen e Luca è serena e borghese: parlano di “cibo, di abiti, di scarpe, di come educarlo a una vita sana, senza complessi di colpa” (p. 190): niente letteratura, niente letterarietà. Si sposeranno solo nel 1990, quando sono diventati due amici con un figlio. Il matrimonio sopravvivrà ai tradimenti di Luca, alla menopausa, tramutandosi in una pacifica convivenza. E poi arriva Sara Frisch, zurighese-trentina, classe 1975. Venere bambina che l'autore vuole plasmare (p. 268) per farne poesia. Un amore-giocattolo, azionato a distanza: dalla distanza nutrito e alimentato, per fantasie telefoniche e telematiche, foto digitali, masturbazione, pompini sulle panchine, sete di seme. Carne da macello: letterario. Sublime. Distruttivo, stancante, svuotante, ma sublime. Cos'è l'amore? La musa che non ti risponde, e certe volte non si lascia scopare. Non vuole nemmeno essere guardata, piuttosto ti vuole raccontare quanto ti ha tradito, e quanto a fondo sei diventato inutile. Tu scrittore scrivi quel che io ti comando – m'appartieni fin quando decido abbia senso. Infine ti confondo, ti sradico da te, ti annullo nel desiderio: ti mangio.
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E adesso veniamo all'essenza autentica dell'opera. La memoria. La condivisione del DNA, perché sia eternato – perché torni a vivere.
Amici di gioventù di Luca-Renzo: piccolo clan di via di Ripetta, nei sotterranei della libreria “Ferro di Cavallo”, di proprietà dello scrittore Domenico Javarone; unico credo, l'estraneità alle avanguardie. Viatico, tornare alla poesia anarchica di sempre: rigenerare la scuola romana. Quella nata a casa di Sergio Corazzini, settant'anni prima. Erano ancora vivi “i giganti del passato: Pasolini, Penna, Moravia, la Morante e la più giovane Amelia Rosselli, tutti abitanti della nostra città-Mecca” (p. 58). La nuova scuola voleva riannodare il legame col passato: né apocalittica né integrata, né alienata né ossessa: letterata.
Scrive – magnifico – Paris: “Avevo l'impressione che tutto il Novecento fosse vivo ancora in loro, volevo essere l'ultimo testimone della nostra grande letteratura. Vivevo di quella luce riflessa, tra le macerie di un secolo che si sarebbe chiuso senza di loro. Sentivo dentro di me una mutazione catastrofica ed era come se la poesia non potesse più fiorire sulla terra senza la loro presenza. Ero l'amanuense di classici irripetibili. Moravia, una volta, mi disse che aveva complessi di colpa nei miei confronti. Poi aggiunse: 'Che altra vita avresti potuto fare? È bello, no, vivere di cose letterarie, ti diverti, è così?'. Annuivo” (pp. 144-45)
Chi sono questi amici di gioventù? C'è Dario Bellezza, sin da quando era studente fresco di vita da maudit, in una casetta in centro: “viso rubizzo e una bocca larga e sensuale”, non voleva laurearsi. Legge versi dettati dalla sua teatrale sofferenza omosessuale, anticipando Pasolini e Arbasino. C'è Elio Pecora. C'è Giulio Ferroni, che si appassiona ai racconti dei borgatari (Augusto Pantoni) e attende l'exploit di Paris. C'è Valentino Zeichen, poeta minore, laziale; ci sono “Crudelia” e “Hidalgo” - che forse hanno preferito questi grotteschi pseudonimi a una elementare riconoscibilità, e allora sorridiamone: sono due letterati che credono nella Letteratura come milizia, sportiva e cavalleresca, “intelligenze sacrificate alla nobiltà della sconfitta” (p. 226) – e c'è un esordiente presto smarrito come Gino Scartaghiande; c'è qualche minore e qualche avanguardista non meno amico ma esteticamente non rispettato.
Comparse, Daniele Del Giudice, che scriveva per “Paese Sera”, e soprattutto di libri Einaudi; Marco Lodoli, allora emergente, segnalato da Crudelia; Susanna Tamaro, appena sbarcata a Roma, ancora sconosciuta ma entusiasta, ancora protagonista di una narrativa fantastica e stralunata, presto smarrita (p. 206); Nanni Moretti, giovane, che fa sgomberare il suo salotto per girarci un corto; Bertolucci figlio che trascina una bara sulle spalle, e gli si slaccia una scarpa.
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Com'erano questi nostri padri, questi grandi artisti? Come si sentivano, loro protagonisti dei Sessantotto – dei Sessantanove – dei Settantasette? Qualcuno giocava al piccolo ideologo, i più intelligenti, man mano, sgusciavano fuori dalla menzogna del partito.
“Noi eravamo nati con la bomba atomica sotto il cuscino. Ci identificavamo piuttosto con quelle tartarughe che a Hiroshima avevano perso il senso dell'orientamento e, invece di andare verso il mare, salivano sulle colline di sabbia, soffocando” (p. 70). E soffocavano di fronte alle Stragi di Stato: “tutta opera dei servizi deviati che uniti ai fascisti pensavano di alzare il livello dello scontro tra rossi e neri, fino a un colpo di stato, quello che il principe Valerio Borghese stava pensando di porre in atto. La regia delle stragi nel nostro paese è sempre stata accorta. Gli intoccabili di quelle morti ancora oggi circolano impuniti tra noi” (p. 95) – scrive Paris. La verità, nel romanzo, l'ha raggiunta; io giovanotto di 31 anni non sono d'accordo, perché non ho mai trovato prova. Ma è giusto, è giusto che Paris prenda posizione e dica da che parte vuole stare. Ha senso: è coraggio. Il coraggio è tanto, a volte il coraggio è tutto.
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Muore Pasolini. La teoria di Paris è che si sia trattato di un affare omosessuale: opera di almeno due o tre persone. “Bisognava risalire alle conoscenze del poeta in quell'ambiente, capire perché si diceva che a volte tornava al mattino con la camicia insanguinata” (p. 126). Pasolini era capace di farsi “trenta marchette a sera” (p. 199).
Muore Bellezza. “La scuola romana, che aveva vissuto una breve e gloriosa stagione, morì con lui. Il gruppo del caveau di via Ripetta aveva perduto uno dei suoi più famosi rappresentanti. Gli scolari di allora, diventati adulti, si erano dispersi, giocando ognuno per sé, restando dimidiati tra avanguardia e tradizione” (pp. 197-198).
Muore Moravia. “Il funerale sembrò un funerale di Stato. C'era il presidente del consiglio Spadolini e tutta una corona di politici di sinistra a vegliarlo al Campidoglio. Era morto per un ictus che lo aveva colpito mentre si faceva la barba davanti allo specchio di casa sua. Quella bara pesante fu trasportata dai suoi amici (…). Umberto Eco avvertì la folla di non parlare più di lui per un certo numero di anni. Fu accontentato. Per me era morto una specie di padre alla rovescia, di cui mi mancarono subito le sue conversazioni davanti a una fettina e un po' di verdura servite dalla sua nuova cameriera” (pp. 200-201).
Non muore Roma. Risorgerà la Scuola Romana.
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Roma: nelle prime battute, sembra emergere uno strano risentimento: l'Eterna è un “garage a cielo aperto” (p. 19), una “spianata inquinata” (p. 23); se Carlo Levi scrive che certe notti a Roma si sentono i ruggiti dei leoni del colosseo, Paris sente solo “le grida umane dei gatti in amore” (p. 27). Altri personaggi lamentano, girando in bici, “la superbia dei passanti e delle macchine” (p. 180). Ma più avanti, precipitando paradossalmente nel passato, torna la memoria dell'amata Roma. Quando l'aria non era intossicata e il cielo era più azzurro. Ecco la Roma dei romani che però erano quasi tutti meridionali, delle rondini e delle lucciole, di “Paese Sera” che scandalizzava la borghesia, del Vaticano che dettava legge – ci si sognava di convivere, divorzio e aborto non erano diritti – e di Pasolini e Testori che raccontavano i borgatari romani e quelli milanesi. La Roma che soffre quando muore uno studente, il socialista Paolo Rossi; la Roma sostenuta allo stadio, magari per amore del figlio maschio; la Roma che ospitava - “Mecca” - i grandi scrittori del Novecento. A quella Roma che combatteva il Vaticano, che lottava per i grandi diritti civili, che idolatrava gli intellettuali autentici, che sosteneva la necessità di essere grande – perché grande è la sua storia, e unica – noi dobbiamo tornare.
Questo romanzo ha senso perché è un anello forgiato col sangue dei giganti, e dei grandi combattenti, e degli avanguardisti e dei poeti puri sconfitti, ma almeno vissuti. Vissuti sognando, sacrificando tutto alle arti, a questa Dea stupenda e puttana che è la Letteratura, a questo vizio che t'ammazza, a questa donna che d'un tratto ti disprezza, ti scaccia. Allora non possiamo non guardare a questo anello con rispetto: con devozione. Non omnis moriar.
Roma rinasca. Roma rinasca dalle sue ultime ceneri. Roma ascolti chi la grandezza ha vissuto e incarnato. Ascolti Renzo, ascolti Antonio. Questo è il sentiero, scolpito nel tempo. Sfogliatelo. Spogliatelo. Vestitelo di significati. Il senso uno rimane. La tradizione non è vinta. S'è interrotta. Rifiorirà.
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Prima di concludere, un piccolo elenco, come appunti d'un taccuino che qui stralcio, e condivido. Per ogni nome, magma. Opere e artisti direttamente o indirettamente omaggiati: “La consolazione della filosofia” di Boezia, “Carmina” di Catullo, “Confessioni” di Agostino, “L'educazione sentimentale” di Flaubert (argomento d'un suo corso monografico), “Stephen Hero” di Joyce e “Il giovane Holden” di Salinger (letture generazionali), “Ulisse” di Joyce (lettura collettiva liceale), “La noia” di Moravia e “Ragazzi di vita” di Pasolini (lettura individuali ma generazionali, liceali); Faulkner; Céline (considerato “modernissimo”), Penna (“gioiello”, “poeta senza tempo”), “Solo” di Strindberg, “Gli indifferenti” di Moravia; Svevo, Goethe, Chateaubriand; Cummings (romanzo incluso); Rimbaud, Verlaine, Villon, Petrarca, Hikmet, Leopardi, Corbière, Apollinaire (poeti amati sin dalla giovinezza); i surrealisti minori, Crevel e Desnos.
Respinti ma nominati, Sanguineti (“ne fui deluso”), Montale (amato da Laura e non da Luca), Dante (escluse le rime giovanili e le conversazioni con Cavalcanti: p. 54), Pagliarani (“convertito a una avanguardia linguistica che gli fece perdere tutto il suo smalto”, p. 61), Serrao (“poeta solitario, romantico fuori tempo massimo”), Fortini (“sia come poeta, sia come saggista”),
Università: De Mauro come tramite di Saussure; i libri di critica di Croce (e quelli di Fubini e Contini, sottratti a Laura), le lezioni di Debenedetti.
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Libro fondamentale. Da leggere, da amare.
EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE
Renzo Paris (Celano, 1944), romanziere, poeta, saggista e traduttore italiano. Professore di Letteratura Francese all’Università di Viterbo.
Renzo Paris, “La vita personale”, Hacca, Macerata 2009. Bandella di Andrea Di Consoli. Copertina di Maurizio Ceccato.
Gianfranco Franchi, marzo 2009.
Prima pubblicazione: Lankelot.
Il massimo risultato narrativo di Renzo Paris