Feltrinelli
2013
9788807881640
“Datemi il tempo, datemi i mezzi, e io toccherò tutta la tastiera – bianchi e neri – della sensibilità contemporanea. Vi canterò l’indifferenza, la disubbidienza, l’amor coniugale, il conformismo, la sonnolenza, lo spleen, la noia e il rompimento di palle. Et dietro poteranno seguire fanterie assai illese. Ma tu, moro, mi starai a sentire?” (p. 30)
Questo romanzo è opportuno non sia dimenticato mai; e che venga adottato come monumento della narrazione in prima persona, nel nostro Novecento, e rammentato come lucida e amarissima riflessione sul senso dell’esistenza d’un letterato anarcoide, estraneo ai dogmatismi e al servilismo quale era Bianciardi, incapace di genuflettersi e di corrompersi nel nome del dogma, padrone allora dell’editoria “alta”, e come rappresentazione unica e scintillante del rifiuto del sedicente “miracolo” economico longobardo-italiota.
Bianciardi è stato un artista scomodo: pretendeva di tutelare la sua diversità intellettuale ed estetica, e la sua atipicità, esistendo e scrivendo. È morto troppo giovane, abbandonato a se stesso, vittima delle giostre della vita, del sistema e della negazione delle convenzioni e delle consuetudini di certe oligarchie – altri direbbero: sovrastrutture – della nostra società. Questo “La vita agra” è un romanzo che non ha precedenti, e non ha avuto ancora adeguati epigoni: non solo nello splendido e trascinante sentimento d’anti-milanesità, nella virile e rabbiosa demolizione dell’icona immonda del culto della grana; ma nella franca e splendida adozione d’una narrazione autobiografica d’un microcosmo che altrimenti e altrove è stato idolatrato – quello vincolato alla nicchia artistoide di Brera, feltrinellide e marxistella, misera e marchettara e dogmatica.
Narratore e autore coincidono. Undici capitoli di riflessioni, digressioni e campionature d’una realtà – quella dell’Italia “miracolata” dal consumismo e dalle nefaste evoluzioni americanoidi della Weltanschauung e della prassi delle aziende – vissuti in quella Milano, odiosa e spocchiosa capitale dell’industria italiana, che il toscanissimo Bianciardi non tollerava e non digeriva affatto; e che sembra aver scelto come tomba, come luogo eletto all’autodistruzione del suo talento, della sua intelligenza e della sua scrittura.
Parte per l’orrenda, nebbiosa e inquinata ex colonia romana, come fosse incaricato d’una missione – quella di rivendicare la memoria e l’onore di quarantatre morti, operai caduti nell’esplosione “pilotata” d’una fabbrica nei dintorni di Montemassi: cinquantamila anime ai funerali, subitaneo e prevedibile infine il silenzio-stampa. Parte, e si ritrova nella cittadella freak e dissoluta e caotica di Brera – omaggiata con un improbabile excursus etimologico proprio nelle prime battute (il peggior incipit della narrativa italiana del Novecento: un eroico e deliziosamente presuntuoso disboscamento dei lettori d’occasione, degli amatori e degli estranei alla Letteratura): parla d’una biblioteca, già prepositura degli Umiliati e casa insegnante dei compagni di Gesù, in cui gli addetti sono quasi tutti mutilati alle mani; e del suo compagno di camera, Carlone, fotografo di provincia ed ex campione di rugby, e della nostalgica (ma dell’antico impero di Franz Josef) padrona di casa, signora De Sio; delle serate in osteria, e dell’amena umanità breriana. Exemplum, il triestino Franz: “Ogni tanto la sera io uscivo con Franz il triestino, a passeggiare per le strade dopo cena, a bere qualcosa in una tampa piena di fumo e di uomini con gli occhi rossi e il viso duro, bluastro, a cantare. Io cerco sempre la compagnia dei triestini, perché sono uomini franchi e ventilati, aperti e disponibili a influenze composite, slave, absburgiche, dalmate e veneziane” (p. 22).
Questo è lo stile delle intelligenti, personalissime e geniali descrizioni di Bianciardi: capace di sintetizzare, in poche battute, lo spirito (universale) d’una città mediante le tratteggiate caratteristiche d’un suo eccellente e stravagante esponente. Picchia duro quando ironizza sulle degradanti questioni di quello che, negli anni Sessanta, era e restava il “Partito”, per gli intellettuali. Come in questo caso, con classe e garbo: in un dialogo tra un’indottrinata redattrice e uno scrittore libero e intelligente: «“Visconti, no? Tu ricordi, no?, ricordi le parole del tenente Mahler. Che cosa mi importa se oggi i nostri hanno vinto in un posto chiamato Custoza, eccetera. Mahler è consapevole della fine degli Absburgo, come Visconti è consapevole della fine della società borghese”. Io volevo obbiettargli che allora (nel 1866), il tenente Mahler non poteva essere consapevole della fine degli Absburgo (fu nel 1918, più di mezzo secolo dopo); e che la battaglia di Custoza fu chiamata così attorno al 1868, da uno storico militare di cui mi sfugge il nome (ma in quel momento lo sapevo); perciò Mahler, la sera della battaglia, e standosene a Verona, e ubriaco per giunta, e a letto con una donna, come faceva a sapere che c’era stata la battaglia di Custoza? Ma non ebbi tempo di dirglielo perché lui doveva scappare a casa, e poi a una conferenza sul realismo» (p. 51).
Inevitabilmente, nella Milano delle riviste, dei quotidiani e delle case editrici – nucleo vivo della cultura italiana post-bellica – la vita di Bianciardi va a rifrangersi sugli scogli parolai di queste creature robotiche e indottrinate.
Più avanti, discutendo di strategie politiche : «“Come opportunistico? C’è da lasciarci la pelle”, “E che vuol dire la pelle? Opportunista è chiunque abbandona la linea del partito per sostituirvi il proprio tornaconto individuale”» (p. 56). Senza considerare che questo “tornaconto” fosse tutt’altro che individuale, e che le insipide battute dell’evangelizzata interlocutrice fossero ben rivolte a rafforzare il concetto di “lotta comune, lotta delle masse”, passiamo oltre: ancora a registrare l’efficace lavaggio del cervello dei quadri intellettuali del Partito, questo scambio di battute a proposito d’una sezione composta da ceti medi. Inutile partecipare, pensa ovviamente l’amico degli operai: ed ecco cosa gli viene replicato: “No, non è inutile, perché la sezione ti dà sempre la concretezza della lotta politica, e la lotta politica è una sola, nostra e degli operai” (pp. 60-61). Amen: e amen a quel partito, e a chi lo vota quaranta anni dopo, oggi: cieco e incosciente.
Bianciardi narra della sua Brera comunistella e intellettualoide, della precarietà della sua esistenza e delle sporadiche e grottesche opportunità di lavoro, della facilità di licenziamento e della neo-umanità lombardo-aziendale, e d’un amore nuovo – amore di amanti – che gli ruba quiete e armonia; incontra Anna, cominciano a convivere e cambiano due volte casa, incontrando sempre nuove noie burocratiche ed economiche. L’artista ha moglie e figlia in Toscana, e deve versare denari per il loro sostentamento: frattanto, i gelidi funzionari longobardi pretendono schei, a nastro. Si narra del trasferimento di lei nella sezione del Partito locale: della quotidiana battaglia della coppia per la sopravvivenza, dell’impatto col mestiere di traduttore – e con i satrapi della traduzione nella Grande Casa Editrice dei Compagni – e della dolcezza d’una passione irrinunciabile e tracimante. Fino a raggiungere un equilibrio come questo, nella collaborazione con la sua amata: “Riuscivamo a fare anche quindici, venti cartelle al giorno. (…) E senza bisogno di prendere il tram, senza bisogno di tenere rapporti col prossimo, tranne che alla fine del mese per la consegna del lavoro. Potevamo starcene tranquilli in casa nostra, lavorare vicini dalla mattina alla sera, in buona armonia, senza timore di licenziamenti, né di segretarie attiviste, né di dirigenti in ascesa.
Così mi ripeteva Anna, che tante volte m’aveva visto rincasare abbuiato e stanco. Certo, le rispondevo io, ma il pericolo adesso era un altro: di trovare gente come la vedova, che ti controlla gli apostrofi e le rime, ti rimprovera le locuzioni dialettali. Allora i casi sono due: o ti impunti, e fai la figura del piantagrane, o lasci perdere e stai zitto, e fai la figura del cretino. Nell’uno e nell’altro caso non ti danno più lavoro” (p. 144).
Il romanzo della vita agra del grande Bianciardi avanza così, per torrenziali digressioni e irrefrenabili e metodiche registrazioni di dialoghi domestici o lavorativi; scolpendo l’immagine d’un individuo che orgogliosamente rifiutava l’Italia nuova, e s’era efficacemente anestetizzato all’inesistente Italia sognata dal partito rivoluzionario per antonomasia; e che tuttavia nell’area di quel Partito, e nella città di quel “miracolo” s’era trovato a vivere, per più facilmente votarsi alla cancellazione di sé.
“Lo so, direte che questa è la storia di una nevrosi, la cartella clinica di un’ostrica malata che però non riesce nemmeno a fabbricare la perla. Direte che se finora non mi hanno mangiato le formiche, di che mi lagno, perché vado chiacchierando? È vero, di mio ci aggiungo che questa è a dire parecchio una storia mediana e mediocre, che tutto sommato io non me la passo peggio di tanti altri che gonfiano e stanno zitti. Eppure proprio perché mediocre a me sembra che valeva la pena di raccontarla. Proprio perché questa storia è intessuta di sentimenti e di fatti già inquadrati dagli studiosi, dagli storici sociologi economisti, entro un fenomeno individuato, preciso ed etichettato. Cioè il miracolo italiano” (p. 174).
“Archeologia del presente”, per adottare una categoria vassalliana, nel 1963: che dovrebbe concludersi con quelle immortali quattro pagine di pura descrizione d’una società utopica (cap. X: da 178 a 182), che andrebbero iniettate ai dogmatici e ai fedeli d’ogni ideologia come antidoto alle menzogne delle quali si sono nutriti, e nel culto delle quali sono stati allevati. Non ne trascriverò nemmeno una riga, perché pretendo d’aver convinto il lettore a tornare in cerca di questo romanzo.
Bianciardi è dotato d’un immenso talento scrittorio, e ha uno stile impressionante: erudito e tuttavia leggero, intenso e profondissimo, sarcastico e incisivo. Qualcuno preferiva finisse dimenticato: non accadrà.
Destinato a essere spada e scudo della prima generazione che s’opporrà alla milanesizzazione dell’esistenza, e alla vuotezza degli ordini e degli anatemi delle vecchie ideologie: ribadisco, monumento della narrazione in prima persona nel nostro Novecento.
Da avere: non solo da leggere. Un bicchiere alla tua salute, vecchio artista.
EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE
Luciano Bianciardi (Grosseto, 1922 – Milano, 1971), giornalista e scrittore italiano. Si laureò in Filosofia presso l’Università di Pisa. Esordì pubblicando il romanzo “Il lavoro culturale” e il libro-inchiesta “I minatori della Maremma” (in collaborazione con Carlo Cassola) nel 1956.
Luciano Bianciardi, “La vita agra”, Rizzoli, Milano 1962.
Gianfranco Franchi, marzo 2005.
Prima pubblicazione: Lankelot.com
Il libro per cui Bianciardi verrà ricordato. Nel tempo.