La vera storia del pirata Long John Silver

La vera storia del pirata Long John Silver Book Cover La vera storia del pirata Long John Silver
Björn Larsson
Iperborea
2002
9788870910759

“Su una nave non ci sono cose giuste o sbagliate, come si dice esistano a terra. Su una nave ci sono solo due cose: il dovere e l'ammutinamento. Tutto quello che vi viene ordinato di fare è dovere. Tutto quello che rifiutate o trascurate di fare è ammutinamento. E l'ammutinamento è punito con la morte. Vi consiglio di non dimenticarlo” (Larsson, p. 80).

Epico ma lentissimo omaggio romanzesco al classico di Stevenson “L'isola del tesoro” (1883), “La vera storia del pirata Long John Silver” (Svezia, 1995; IT, Iperborea, 1998) è il romanzo d'un filologo appassionato e innamorato del mare, Björn Larsson (classe 1953); si dice che abbia scritto il libro a bordo del suo “Rustica”. La trovata è semplice: Long John decide, vecchissimo, ricco e molto solo, di mettersi a scrivere le sue memorie, per ristabilire un po' di verità sulla sua esistenza e rivelare qualche clamoroso retroscena, come l'incontro con un Defoe impegnato nella stesura della “Storia della pirateria”. Nel frattempo, la narrazione è spezzata e intervallata da ammutinamenti, risse, clamorosi rovesci della sorte, aneddotica piratesca, vendette e rappresaglie, confessioni più o meno veritiere – ma Long John giura di essersi tolto la maschera – del gran brigante.

L'incipit ideale è questo. Siamo nella Ranter Bay, in Madagascar: “Sono arrivato qui nel 1737 con Dolores, il mio pappagallo, Jack e gli altri schiavi affrancati dall'indomabile popolo dei sakalava. Qui, nel vecchio rifugio di Plantain, mi sono ritirato dopo il fallimento della disgraziata spedizione alla ricerca del tesoro di Flint. E qui, su questa terra chiamata l'Isola Grande, un tempo paradiso dei gentiluomini di ventura, sono destinato a soccombere come l'ultimo della mia specie (…). Ho iniziato a scrivere il mio diario di bordo, e questo è più o meno tutto. Ho raccontato molte storie, e preso molta gente per il naso. È così che ho fatto strada nella vita. Sono sempre stato capace di rispondere di me stesso” (p. 48). E insomma ecco la sua “avventurosa e veritiera storia”, senza più bluff e sparate, buffonate e invenzioni: il nostro narratore giura di dire soltanto quel che è successo, e nient'altro. Tutti quelli che ha conosciuto sono morti, e chissà con quale stato d'animo lo aspettano all'inferno, in tanti. Lui sa di essere stato diverso da tutti, forse perché sempre molto cosciente dell'unicità della vita.

Siamo nel 1742. Long John racconta d'esser nato a Bristol nel 1685, da padre irlandese, e d'aver voluto un gran bene alla sua mamma. Racconta d'esser fuggito dalla scuola, ma d'aver fatto in tempo, in ogni caso, a imparare il latino. Certo: non poteva parlarlo con nessuno. Ma questo poteva bastare a dargli una nomea da erudito, nel suo ambiente. Post anticipata conclusione degli studi, si ritrova a Glasgow, in una bettola del quartiere dei marinai; è là che comincia a capire come va il mondo, e come fare a non farsi riconoscere: diciamo che è un gioco di mani. Le mani dei pirati sono “un unico labirinto di cicatrici, grandi e piccole, che si incrociavano a formare curiosi disegni, tra crepe e fessure, protuberanze e gibbosità. Il colore, un bruno ramato, come uno scafo appena rivestito, sembrava essere stato impresso con un ferro rovente” (p. 72). E cosa fa Long John? Impara a stare a bordo con dei guanti di cuoio ben ingrassati. Così, quando scende a terra, è un borghese come tutti gli altri, e non può proprio dare nell'occhio. Niente male.

Un vecchio lupo di mare, un capitano che riconosce qualcosa di simile nella tempra di quel ragazzotto vestito da scolaretto, riesce a evitargli d'essere arruolato dalla marina inglese. Di lì a poco ne vedremo delle belle. Che non vi brucio certo. Sappiate che già nelle prime battute scoprirete come e quando Long John perse la gamba, senza un lamento, e si ritrovò a farsi raccontare l'accaduto da un mozzo. Ufficialmente, per amore delle favole. In realtà, per scoprire chi era stato a tradirlo e a ferirlo. Deval. Francese. Non basta essere francesi per essere bucanieri d'altri tempi. Insomma, sta di fatto che perduta la gamba e scoperto il colpevole il vecchio Silver pretende giustizia. Occhio per occhio, dente per dente. È in quel frangente che nasce il suo nome di battaglia, Barbecue.

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Silver insegna sempre qualcosa. La prima lezione: “Impara a raccontare storie. Impara a inventare e a mentire. Te la caverai sempre. Restar muto e non avere risposte è la cosa peggiore che possa capitare a un uomo. Sempre che tu voglia diventare un uomo, si capisce. Altrimenti non importa” (p. 33).

La seconda: l'etimo di barbecue nasconde pericolose verità. Si rivelano nella cottura delle capre allo spiedo. Alla francese è “barbe-au-cul”, invece di “barbacoa”, corretto termine indiano. Ma l'errore non è strano: “si doveva tagliar via la coda alla capra e la s'infilzava da una parte all'altra con uno stecco appuntito. A volte, con quel mozzicone di coda, sembrava davvero, in fede mia, che alla capra fosse cresciuta la barba sul di dietro, la famosa barbe-au-cul francese” (p. 41). E pensare che lui stesso si chiama Barbecue.

La terza: a insegnargliela il suo primo mentore. “Una volta che ci si dà alla pirateria, di regola non c'è via di ritorno, per quanto lo si voglia, e, comunque, di sicuro non in qualità di capitano pirata a riposo. È come camminare su un filo teso su un baratro, con la forca che ti aspetta a un'estremità, e un coltello piantato nella schiena all'altra, se non sei abbastanza sanguinario. Sì, ho visto capitani eletti ammazzati dalla ciurma perché non volevano piegarsi alle decisioni del consiglio, per quanto fosse pura follia” (p. 66).

La quarta: insegnata direttamente dal Vecchio Nick, Satana. Sette sono le scienze marinare: “bestemmiare, bere, rubare, andare a puttane, fare a botte, mentire e calunniare” (p. 84). Servono dieci anni di vera dedizione, per specializzarsi.

La più importante: “Se c'è qualcosa che dà un senso alla vita, è senz'altro il fatto di non essere soggetto ad alcuna legge, di non avere mani e piedi legati. E non importa il tipo di fune o chi ha stretto il nodo. È la corda stessa il male. È con quella che prima o poi si finisce per legarsi da soli o per essere appesi a una forca. Questa è stata la mia filosofia, e giustamente sono ancora vivo” (p. 67). E scrive. Anche.

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Chiudo con le parole del prefatore, Mussapi: “Silver, che si muove con eccessiva agilità per un uomo nelle sue condizioni, ha quindi qualcosa di diabolico, come è tipicamente diabolica la capacità di seduzione, di presentarsi con un volto sorridente e un celato disegno infernale. Ma non è interamente diabolico, e quindi ha la naturalezza dei personaggi immortali, una naturalezza che supera la verosimiglianza e le sopravvive, essendo la verosimiglianza legata indissolubilmente alla forma immanente e mortale” (p. 9). Eh già.

EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE

Björn Larsson (Jönköping, Svezia, 1953), filologo e scrittore svedese. Docente all'Università di Lund. Ha esordito nel 1980 con la raccolta di racconti “Frammenti”.

Björn Larsson, “La vera storia del pirata Long John Silver”, Iperborea, Milano 1998. Traduzione di Katia De Marco. Introduzione di Roberto Mussapi.

Prima edizione: “Long John Silver”, Stoccolma, 1995.

Gianfranco Franchi, marzo 2010.

Prima pubblicazione: Lankelot.