La vedova allegra. Breve storia della ghigliottina

La vedova allegra. Breve storia della ghigliottina Book Cover La vedova allegra. Breve storia della ghigliottina
Antonio Castronuovo
Stampa Alternativa
2009
9788862220880

Cantava Giovanni Lindo Ferretti: “In basso / In fondo / Giù / La mia testa tagliata / Porge / Uno sguardo / Fisso / Immutabile ormai / Sguardo Compassionevole / Replay / La mia testa / Tagliata”: erano le “Memorie di una testa tagliata”, metafora della sciagurata guerra tra i popoli balcanici, negli anni Novanta. L'aspetto più affascinante di questa canzone era nella consapevolezza che la “testa tagliata”, per qualche secondo, vive e pensa e ricorda ancora. Non è una congettura letteraria, non è un'invenzione. Spiega Castronuovo, in questo suo saggio sulla storia della ghigliottina: “Già: che ne è della testa del decollato? Scontato chiederselo, soprattutto oggi che siamo consapevoli del fatto che la morte cerebrale di un uomo si avvera solo dopo vari secondi di totale assenza di ossigenazione sanguigna. In altre parole: è indubbio che la testa, staccata dal tronco, gode di qualche secondo di vita, forse di parecchi secondi di vita. La domanda allora è: che cosa vede e pensa la testa in quei secondi? […] Provate a contare, nel silenzio della vostra camera, sei secondi: uno, due, tre, quattro, cinque, sei...” (p. 200, p. 224).

Che cosa ha visto e pensato, per circa 185 anni, dal 1792 al 1977 (sì: 1-9-7-7), il cittadino francese decapitato dalla ghigliottina, in quegli ultimi, interminabili secondi di vita? Sappiamo soltanto che qualcosa ha visto, e qualcosa deve aver pensato. Questo può bastare. Lo strumento di morte nato per essere, diciamo così, democratico e indolore, è rimasto in servizio per duecento anni. La Francia ha rinunciato alla pena di morte soltanto nel 1981. Chirac ha iscritto l'abolizione della pena di morte nella Costituzione nel 2007. Purtroppo è giusto considerare la ghigliottina un simbolo nazionale francese, come osserva Castronuovo. C'è qualcosa di assurdo nel pensiero che sia stata inventata come “punizione umanitaria”, nonostante “ripugni all'umanità” (p. 13): soltanto l'epoca storica che voleva deificare la Ragione poteva partorire una mostruosità simile. Logica, e solo apparentemente etica. Molto francese.

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C'è chi la chiamava “glaive de la liberté” (“gladio della libertà”), chi invece “hache populaire” (“ascia popolare”), o ancora “rasoir national” (“rasoio nazionale”). C'è chi la chiamava “santa”. Poteva decapitare, con ritmo perfettamente industriale, una testa al minuto. Funzionale, escludeva oltretutto ogni rapporto tra uomo e uomo: il boia e il condannato erano asetticamente separati. Castronuovo: “Il boia è preservato dal sangue del suo simile, che nelle antiche esecuzioni lo lordava, specialmente quando doveva intervenire di persona a lavorare in maniera cruenta, nei casi di esecuzione complicata o non ben riuscita. E la storia ne registra tanti” (p. 24). Peccato soltanto che operando desse vita a clamorosi bagni di sangue, a discapito del pubblico. L'autore scrive che “Mozzare la testa a qualcuno nell'arco di mezzo secondo equivale a lavorare in un lago di sangue, dato che le arterie del collo continuano per un po' di tempo, fino a quando il cuore si blocca, a pompare sangue, che ovviamente lorda la scena dell'esecuzione”. Quando, per esempio, la macchina venne montata in piazza della Bastiglia, nel giugno 1794, “gli abitanti del quartiere rifiutarono la vicinanza del patibolo per ragioni di igiene: sangue in quantità, tale da non essere assorbito dalla terra, e odore mefitico che si spargeva ovunque” (p. 185). Insomma, nasceva per evitare – tra le varie cose – che il boia si sporcasse le mani, che non fosse più “carnefice” ma semplice “esecutore” di un meccanismo (p. 69). Invece le mani se le sporcavano tutti gli altri. A volte, in casi particolarmente simbolici, se le sporcavano con entusiasmo. Nella maggioranza assoluta delle volte, niente affatto.

Prima dell'avvento del “buon sostegno per la libertà”, geometrica invenzione “democratica”, la condanna a morte non era uguale per tutti. Castronuovo ricorda che ci fu chi riusciva a essere decapitato soltanto dopo ventinove colpi di spada (caso del conte di Chalais: p. 33), e segnala che Robespierre, nel suo “Discorso sulle pene infamanti”, sosteneva che “l'impiccagione o la ruota arrecano sempre un grande disonore alle famiglie di chi subisce quei supplizi, ma il ferro che recide una testa colpevole non avvilisce affatto i parenti del criminale; poco manca che esso non divenga un titolo di nobiltà per la discendenza” (p. 40). Non si discuteva ancora l'opportunità di abolire la pena di morte. Si discuteva l'opportunità di normalizzarla. Sembrava già straordinario essere passati da un rude prototipo come il “diele” a un magnifico prodotto come la ghigliottina. E il resto è storia – e se volete conoscerla in tutti i suoi dettagli, e ritrovarvi oltretutto a disposizione una buona bibliografia, rivolgetevi con sicurezza al saggiotto di Castronuovo, in economica e accurata edizione baraghini, Stampa Alternativa.

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“Se la vedova diventa allegra, se cioè entra in funzione con stupefacente frequenza, il supplizio è per parte sua integrato in una magnifica liturgia. Uno spettacolo che nasce dal clamore del sistema giudiziario e dal marchio infamante inflitto alla vittima: il trasporto su una carretta, le mani legate e i capelli rapati alla nuca, e poi la posizione a pancia in giù della esecuzione, ben più umiliante di quella in ginocchio – tutto sommato nobile – assunta per la decapitazione nell'ancien régime” (p. 132).

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Qualche curiosità. Paternità della creatura: la nascita della ghigliottina non dipende soltanto dal dottore Joseph-Ignace Guillotin: lo sfortunato medico fu solo “la mente in cui si accese un'idea”. A progettarla fu il chirurgo Antoine Louis e a fabbricarla un tedesco, l'artigiano (clavicembali) Tobias Schmidt.

Prima vittima: un ladruncolo, Jacques Pelletier. Niente di rivoluzionario. La ghigliottina non è affatto “amica del popolo”, da nessun punto di vista. Il primo caduto era maestro nella sordida arte dello scippo.

Ghigliottina in Italia: il primo condannato fu Tommaso Tintori, decapitato dal prestigioso (si fa per dire) boia papalino Mastro Titta nel febbraio 1810. Tra 1810 e 1813 si tennero circa 56 esecuzioni a Roma: erano gli anni della Repubblica Romana. Il governo pontificio, post 1815, se ne servì 369 volte, nello scenario sontuoso di piazza del Popolo, di Castel Sant'Angelo o di via dei Cerchi. L'ultima volta nell'Eterna fu nel novembre 1868, vittime Giuseppe Monti e Gaetano Tognetti, rivoluzionari. In provincia, luglio 1870: località Palestrina. Centoquaranta anni fa.

EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE

Antonio Castronuovo (Acerenza, Potenza, 1954), saggista e traduttore italiano. Dirige “La Piè”, la più antica rivista di cultura romagnola (fondata da Aldo Spallicci nel 1920). Vive e lavora a Imola.

Antonio Castronuovo, “La vedova allegra. Storia della ghigliottina”, Stampa Alternativa, Viterbo 2009. Collana "Fiabesca", 99.

Gianfranco Franchi, settembre 2010.

Prima pubblicazione: Lankelot.