EDB
2016
9788810558713
Scriveva Turoldo: “Io sono ritornato a Giobbe, perché non posso vivere senza di lui, perché sento che il mio tempo, come ogni tempo, è quello di Giobbe; e che, se ciò non si avverte, è solo per incoscienza o illusione”. Con questo spirito è ripetutamente tornato a Giobbe l'economista Luigino Bruni [saggista marchigiano, classe 1966, professore della Lumsa] in una serie di articoli originariamente apparsi su “Avvenire” e poi assemblati in volume; sono pezzi nati ascoltando e meditando quell'antico canto del tempo delle rovine, perché possa dare conforto e ispirazione. “La sventura di un uomo giusto” [EDB, 2016, euro 14,90, pp. 148] è così un libro che serve per ricordarci che, nel tracollo e nella sofferenza, possiamo scoprire risorse sconosciute; è un libro che ribadisce che non esiste gratuità più grande di quella “di chi spera e vuole che Dio esista e che sia giusto anche quando non vede più né i segni della sua presenza né quelli della sua giustizia” [p. 18]; è un libro che rinnova l'esempio nobile della fedeltà senza reciprocità; ed en passant ricorda che i discorsi “più alti e veri che si levano dalla terra sono quelli dei poveri […]. È la verità di Giobbe, che dà forza ai suoi discorsi di maledizione e di imprecazione” [p. 23], e alla sua professata innocenza. “Giobbe ci costringe a prendere sul serio le contraddizioni della vita, le non risposte, i silenzi, e tentare il paradosso: iscriverli tutti dentro il libro buono della vita” - scrive Bruni. Perché “se le sue urla di dolore e le sue maledizioni sono parole della Bibbia, allora non ci sono parole umane che sono per natura escluse dalla salvezza”: e finalmente ammettendo che “anche le parole mute possono comporre un dialogo vero tra cielo e terra, forse il più vero di tutti” [p. 10].
Bruni deplora, nell'odierna egida del capitalismo, la predominanza della “logica retributiva”, che sembra suggerire che al benessere materiale corrisponda talento, sacrificio e capacità: è assurdo, ribadisce, considerare che il povero sia povero perché colpevole di qualcosa: un uomo, proprio come Giobbe, può essere sventurato ma innocente, e in nessun caso va abbandonato al suo destino; non c'è colpa nella miseria, e non c'è particolare benevolenza divina nella fortuna: non c'è equivalenza tra “giusto” e “ricco” o “ingiusto” o “cattivo” e “povero”. Bruni associa alla parola “meritocrazia” una connotazione estremamente negativa, per questa ragione; è un'ideologia della disuguaglianza, ci suggerisce, destinata all'umiliazione del prossimo. Serve autentica solidarietà, quindi, e non meritocrazia. Perché, nel silenzio di Dio, ogni giorno “gli innocenti continuano a morire, i bambini a soffrire, il dolore dei poveri a essere il più grande che la terra conosca”: e quale consolazione possiamo darci e possiamo dare, in attesa del ritorno di Dio?
Bruni sfiora quasi lo gnosticismo quando molto opportunamente ricorda che nella dottrina cristiana “è scomparso molto presto il volto oscuro di YHWH, che era ancora presente nei Vangeli (dove un Dio-padre abbandona sulla croce un Dio-figlio). Una divinità tutta e solo luce, con un volto solo, non può capire le domande di Giobbe né quelle disperate delle altre vittime della terra”: per sciogliere questa apparente contraddizione basterebbe, forse, tornare a meditare sulla possibilità che sia esistito un Demiurgo. In ogni caso, ammettere “varietà di volti” all'interno dell'unico Dio è complicatissimo e doloroso (induce anzi al silenzio). Sta di fatto che Bruni ci ricorda che Giobbe “sta aspettando un altro Dio, che non sia la causa della sofferenza degli uomini, e noi con lui. Un volto di Elohim che è compagno di viaggio di chi soffre, che ha compassione di lui e se ne prende cura” [p. 108]: un “Dio solidale”, primo a soffrire per la sofferenza del mondo, come Cristo.
“Il libro di Giobbe” - opportunamente rimarca Bruni - “è dalla parte di chi, ostinatamente, cerca un senso vero per la delusione delle promesse grandi, la sventura degli innocenti, la morte delle figlie e dei figli, la sofferenza dei bambini” [p. 31]: è il libro complicato e tumultuoso di chi non può che dubitare non dell'esistenza, ma della giustizia di Dio. Perché questa giustizia non può che essere ultraterrena, perché altrimenti poco avrebbe senso. Quel Dio che gioca sulla pelle di Giobbe e dei suoi famigliari, accettando la scommessa di Satana, finisce per essere vinto dall'umanità di Giobbe, che privato di tutto, dei suoi figli, delle sue figlie, dei suoi beni e della salute, si prostra a terra, nudo, e dice: “Nudo uscii dal grembo di mia madre, e nudo vi ritornerò. Il Signore ha dato, il Signore ha tolto, sia benedetto il nome del Signore” [I, 20-21]. Chiamiamola pure iniziazione alla vita – è la più alta accettazione del disordine, della slealtà e di quel freddo che a volte ci appare eterno. Eppure eterno non è. Come il silenzio.
Gianfranco Franchi, dicembre 2016
“Il libro di Giobbe” – opportunamente rimarca Bruni – “è dalla parte di chi, ostinatamente, cerca un senso vero per la delusione delle promesse grandi, la sventura degli innocenti”: è il libro complicato e tumultuoso di chi non può che dubitare non dell’esistenza, ma della giustizia di Dio. Perché questa giustizia non può che essere ultraterrena, perché altrimenti poco avrebbe senso.