Laterza
2017
9788858127377
Quando ho avuto notizia della pubblicazione della “Stanza profonda” di Vanni Santoni, in Laterza, sono rimasto interdetto: in Laterza, Santoni ha pubblicato, nel 2011, il suo libro più ispirato, “Se fossi fuoco, arderei Firenze”, degno erede, per diversi aspetti, del suo frammentario, liminare e giovanile “Gli interessi in comune” [Feltrinelli, 2008]; sempre in Laterza, una manciata d'anni fa, era uscito il suo peggior libro, “Muro di casse” [2015], restituzione sperimentale e incerta della sua esperienza nel respingente microcosmo dei rave. Un po' allibito dal ricordo di quella lettura, mi sono avvicinato alla “Stanza profonda” leggermente angosciato: la collana, oltretutto, è la stessa (l'anfibia “Solaris”). L'esito è stato decisamente differente: in questo bizzarro, originale e nuovo esito della sua letteratura, Santoni ha saputo restituire molti degli aspetti classici e caratterizzanti della sua storia autoriale, a partire da “Personaggi precari” [2007] e “Gli interessi in comune”, come la fedeltà al territorio (anzi: l'estrema lealtà alla sua provincia e al suo paese) e la felice sensibilità per le narrazioni collettive, per gli spaccati di gruppo; ha saputo restituire l'allegria e l'imprevedibilità della giovinezza sua e dei suoi compagni, ha saputo rappresentare con vivacità i colori e i ritmi del parlato; soprattutto, ha saputo superarsi, perché è andato estetizzando un'esperienza sin qua probabilmente mai estetizzata in letteratura italiana, cioè quella dei “role play game”, i giochi di ruolo, con intelligenza e personalità.
Cos'è “La stanza profonda”? Da una parte è la storia di Vanni e della sua compagnia, per sketch e per brucianti vignette, come da primigenia prassi autoriale; è una storia toscanaccia, ruvida, casereccia, piena di sentimento e di chiasso, e di divertenti retroscena famigliari (inventata o meno che sia, la trovata del passaggio segreto e del bunker è spettacolare). Da un altro lato, questo libro è la storia di come i giochi di ruolo, a partire dal pionieristico “Dungeons & Dragons”, hanno influito nell'immaginario, nelle abitudini e nella sensibilità di almeno due diverse generazioni; è la storia di come si giocava ai giochi di ruolo, di quanto tempo ci si poteva passare, di quanto ci si poteva sprofondare, di quali fossero le difficoltà del “master” e quali le problematiche dei giocatori; è la storia degli appuntamenti fissi che riuscivano a ripetersi per anni interi; è la storia di quei negozi che riuscivano a campare della subcultura dei giochi di ruolo, vendendo manuali e via dicendo, è la storia dei negozianti e delle persone che frequentavano quei negozi; è la storia di come la vita adulta poteva infrangersi sulle abitudini dei giocatori di ruolo, è la storia di come l'eccessiva giovinezza poteva impedire di dedicarci il tempo desiderato; è poi un tentativo quasi eroico, per quanto è improbabile, di comparare l'esperienza ludica dei giocatori di ruolo al teatro (“è la cosa più simile”, crede Vanni). È, da questi punti di vista, un libro sinceramente originale, una bizzarria imprevedibile, in un certo senso incomprensibilmente affascinante. Per dire: io avrò giocato tre volte, forse quattro, a un role play game: e questo nonostante da bambino avessi la confezione originale di D&D tra le squadre di Subbuteo e i videogiochi del Commodore 64, e i vecchi dadi stiano ancora qui in giro per casa: cosa poteva fregarmene dell'estetizzazione dei giochi di ruolo, a monte? Che interesse potevo sentire, per un argomento come questo? Il mio interesse era Vanni Santoni – perché continuo a credere nel suo talento e nelle sue capacità, nonostante non sia rimasto per niente convinto né dal suo artificiosissimo esperimento di scrittura collettiva, “In territorio nemico” [Minimum Fax, 2013], né appunto dal noioso “Muro di casse”. E stavolta ho la sensazione di essere stato premiato più del dovuto; in mezzo alle cose che ho descritto, c'è anche qualche intuizione filosofica notevole, come questa, sull'escapismo: “[giocare di ruolo] era il suo opposto. Chiudersi e produrre senso proprio perché fuori ce n'era sempre meno. La realtà si misura forse dal numero di fruitori? Non ne basta forse uno, non basta un solo osservatore per far uscire le cose dallo stato di latenza? Nel momento in cui il virtuale si sovrappone al reale, in cui tutto diventa narrazione, chi può svalutare con sicurezza quanto avveniva là sotto?” [p. 131] – ecco: a partire da queste domande il lettore può prendere e andarsene per conto suo in un dungeon oscuro, senza paura di coboldi o di mummie, senza la frustrazione di lanci di dado traditori, per meditare su questioni antiche e complesse come la natura della realtà, il valore delle regole e del rispetto delle regole, il significato dei ruoli, la complessità delle simulazioni, la necessità delle simulazioni, l'eredità della scuola di Chicago e via dicendo. Magari, nel frattempo, sorridendo per l'accento toscano dei dialoghi dei personaggi precari di Santoni, sempre riconoscibile, a volte travolgente. Consigliato: “La stanza profonda” non è quello che sembra, non è un libro di nicchia né tantomeno un libro per le nicchie. È un libro pop di estrema intelligenza e vera originalità, con pochi e trascurabili limiti.
Gianfranco Franchi, marzo 2017
In questo bizzarro, originale e nuovo esito della sua letteratura, Santoni ha saputo restituire molti degli aspetti classici e caratterizzanti della sua storia autoriale…
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