La stanza dei rifiuti

La stanza dei rifiuti Book Cover La stanza dei rifiuti
Stelio Mattioni
Adelphi
1976
9788845901348

Quinto libro di narrativa di Stelio Mattioni, “La stanza dei rifiuti” [Adelphi, 1976] è un romanzo breve che ha il passo della ballata: è una ballata del Novecento triestino, è una ballata di tre fratelli che nascono giuliani sotto bandiera austriaca, si ritrovano italiani da giovanotti, testimoniano il fascismo, e il rovesciamento del regime, e la provvisoria presenza difensiva angloamericana, e la nascita d'una frontiera innaturale, e i giorni dell'avvento della Dc; è la ballata della fortuna e della decadenza del porto di Trieste, e di tutta una serie di abitudini; è la ballata della sconfitta della città più bella e fredda dell'Adriatico. E della rovina d'una famiglia borghese, come tante altre.

Protagonista di questa ballata è uno dei tre fratelli, Alberto. Alberto ha la sua età – quell'età in cui si non ha più voglia di nulla, in cui forse s'è visto tutto, e in cui s'è abbastanza pieni di ricordi da non dover fare altro che richiamarli e giocarci a oltranza. È solo, vive solo, e non esce mai di casa; e ogni giorno s'intrattiene con qualche ospite in salotto. Questi ospiti sono i suoi: i suoi fantasmi: “persone di famiglia, o che con la sua famiglia avevano avuto a che fare, e che ogni giorno venivano a trovarlo” [p. 10]. E ogni giorno, ogni volta che i suoi fantasmi se ne sono andati, Alberto consuma il pasto preparato da una delle sue domestiche, dà corda all'orologio da polso, poi a quello da tasca che tiene in camera da letto, prende e si corica. E...

“Una volta sdraiato, prima stentava ad addormentarsi, poi a un tratto si svegliava, meravigliandosi d'aver dormito, e con gli occhi spalancati guardava la finestra finché il giorno non sbiancava i vetri, e per lui era l'ora di alzarsi” [p. 148].

E chi viene a visitarlo finisce per restituirgli memorie di tutta la sua vita; per fargli ricordare di come si lavorava nel Puntofranco, in porto, e di cosa poteva significare scegliere di andare a combattere con gli italiani, dall'altra parte della barricata, nei giorni e negli anni della Prima Guerra Mondiale; di quanto male si mangiava negli anni della Grande Guerra, di quanto si desiderasse la normalità [“si condiva l'insalata con l'olio di licheni, si beveva il caffè artificiale, si mangiava il pane stuccoso, pieno di cremòre. E poterne avere!”], e di cosa significava ricostruire un equilibrio, nel primo dopoguerra: per capirci, una cosa del genere:

“Allora, per poter dire di campare discretamente, nelle condizioni in cui si era ridotto il mondo, bastava disporre con regolarità del pranzo e della cena, e avere di che coprirsi; qualsiasi cosa in più, era abbondanza. Sotto sotto erano incominciati a serpeggiare il malcontento e l'astio di coloro che non avevano nulla nei confronti di chi aveva poco, di chi aveva poco nei confronti di chi aveva di più, e avanti di questo passo...” [p. 42].

E così leggiamo di Trieste che dimenticava d'essere stata Austria, e di come si spogliava, disinvolta, della grandezza e della ricchezza asburgica, nel nome del romantico sogno dell'italianità; e di come i tre fratelli seppero cavalcarlo e viverlo, sostenendosi o rivaleggiando, nel tempo, e di quanto e come si finì, di lì a poco, per far coincidere un solo partito con la nazione, senza sapere che ci si stava preparando a un'altra guerra, la guerra che avrebbe determinato la distruzione della Giulia, l'innaturale perdita dell'Istria, di Fiume, di Zara – senza sapere che ci si stava preparando a una sciagura atroce e antistorica, alla sofferenza terribile dei bombardamenti, all'umiliazione terribile e incancellabile dei bombardamenti.

E leggiamo di come, dimesso il capo del partito unico, quel partito “si stava liquefacendo come un cono di gelato che, a temperatura ambiente, non solo perde consistenza, ma scola tra le dita, va a imbrattare il vestito, a sporcare il pavimento” [p. 124]; e di come Trieste, nei giorni della fame e della miseria, nel crollo del regime, si ritrova a mangiare qualsiasi cosa, e a sopportare le speculazioni di chi, come uno dei tre fratelli, s'inventa pastoni indigeribili da mettere in commercio per guadagnare qualche lira e sfamare la città.

E Mattioni racconta come i Dopolavoro diventano Casa del Popolo, nel secondo dopoguerra, e di come uno dei tre fratelli si ritrova a cambiare lessico, rispetto a qualche anno prima, per potersi reinserire nell'ambiente; e di quali siano le logiche basse e spicce che spingono un altro, commerciante nato, commerciante perfetto, a farsi democristiano, per adattarsi allo spirito dell'epoca nuova. “La stanza dei rifiuti” è l'allegoria di più di mezzo secolo di trasformismi, di camaleontismi, di opportunismi e di grettezze; tramite la storia d'una famiglia che ha conosciuto alterne sorti, superstite a tutto, racconta quanto certi egoismi sappiano essere invincibili, e quanto certi rancori sappiano, in un certo senso, vincere la morte, superarla, eternandosi – nella solita atmosfera a metà tra l'onirico, l'allucinato e il grottesco che tinge sempre le pagine di Mattioni.

EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE

Stelio Mattioni (Trieste, 1921 – Trieste, 1997), giornalista, scrittore e poeta italiano. Ha esordito pubblicando in poesia “La città perduta” (1956) e in narrativa “Il sosia” (1962).

Stelio Mattioni, “La stanza dei rifiuti”, Adelphi, Milano 1976.

Gianfranco Franchi, settembre 2011.

Prima pubblicazione: Lankelot.

La ballata della fortuna e della decadenza del porto di Trieste, e di tutta una serie di abitudini; è la ballata della sconfitta della città più bella e fredda dell’Adriatico.