Einaudi
1960
9788806347444
Primo romanzo di Pier Antonio Quarantotti Gambini (1910-1965), originariamente pubblicato nel 1937, quindi – in un'edizione differente, ampliata e revisionata, nel 1960, “La rosa rossa” è uno spaccato della vita di provincia di un pezzo d'Italia che non esiste più. È narrativa borghese, compassata e decisamente equilibrata; è narrazione spezzettata in brevi capitoli dal retrogusto rosa, e in ogni caso più vicini al divertissement sentimentale che alla satira sociale.
Protagonista primo, un ex generale austriacante (e austriaco, come tutti gli altri) diventato italiano dopo la Grande Guerra; nel presente del romanzo non più generale, per ovvie ragioni, ma “conte”. Conte, vecchio ma molto rispettato: si chiama Paolo, ha due case a Trieste e una a Vienna; occhi neri e capelli e baffetti candidi, un'aria giovanile e allegra. Vive in armonia con il suo tempo: del resto “quello ch'era finito, era come se non fosse stato” (p. 16). Ogni tanto, tristezza e nostalgia per la perduta Vienna – per la perduta grandezza di Vienna, che coincide con la sua giovinezza – fanno capolino: per gentilezza, Paolo vede di fare finta di niente, non vuole incupire nessuno. Tutto a un tratto, ospite da una settimana dei cugini, vede un ricordo riaffiorare dall'abisso del passato; una rosa rossa infilata in un bicchiere poco prima d'una sua partenza, tanto tempo prima. Ma non ricorda dove avesse dormito, quella notte lì.
Paolo morirà, nel corso della sua permanenza dai cugini. E il vecchio Piero si ricorderà di quando era bambino, e gli correva incontro; quel bambino, vecchietto esile, riposa sul letto di morte e il pensiero è così doloroso che si fa intollerabile. “Paoletto! Paoletto – gridò, con disperazione e furore, come se il bambino potesse rispondergli da qualche parte, e scoppiò di nuovo in singhiozzi” (p. 102). Non è morto soltanto un caro amico e un famigliare, è morto un pezzo di passato: di quell'Istria italiana di cultura ma austriaca di politica fede, e di rigorosa amministrazione, che non potrà mai più tornare indietro.
Cugini del “generale conte” che in questo romanzo muore sono una coppia di signori: alle spalle, “cinquant'anni di muso duro e brontolii” (p. 80): ecco Ines e Piero. Piero studia, da sempre, astronomia, e sembra vivere in un altro mondo; chiuso in sé stesso, lavora e cerca quiete, nel tempo libero, senza nessuno slancio sentimentale nei confronti della consorte.
Quando s'accorge che Paolo traduce una poesia francese reagisce incredulo; vuole portare il cugino a teatro, a vedere “Il barbiere”, come quando erano bambini. Rimane sbalordito che nessuno, riconoscendolo, polemizzi con lui per la sua antica scelta austriacante: piuttosto, lo ritrova omaggiato e salutato da altri aristocratici. Ma Piero entra del tutto in crisi quando scopre qualcosa del passato di sua moglie... e reagisce recuperando il suo primo nome di battesimo: Zaccaria. Scatta una terrificante gelosia retroattiva.
Ines cerca tracce del passato in un vecchio cofanetto: dono d'una zia nella sua adolescenza, dono colmato di ricordi e di piccoli tesori nel tempo (del tempo? chissà): lettere di amiche finite a Trieste, lettere di qualcuno che doveva restare segreto. Forse un amante, sospetta Piero. Peggio di tutto: si direbbe Paolo. Che in gioventù tanto l'aveva affascinata. In realtà è un certo Bela, magiaro, che lei amava chiamare “Paolo”. L'amore era stato tutto platonico e spirituale, Piero non aveva ragione d'esserne geloso. Al limite, aveva ragione di rammaricarsi con sé stesso per non aver mai scritto due righe d'amore alla moglie. È quella la lacuna che niente cancella.
Altro personaggio notevole, una vecchia governante, Basilia, memoria storica della casa, espressione di “dignitosa compostezza”: potrebbe aver maturato tanta esperienza, in quella casa, da essere considerata lontana parente; tuttavia chiama ancora i signori “padroni”. Nonostante il cursus honorum (da domestica a governante), il grande salto di qualità – diventare signora – non era arrivato mai.
In gioventù aveva avuto un filarino con un coetaneo, poi morto: ogni tanto s'era lasciata andare a qualche rimpianto. In ogni caso, aveva le idee chiare: “La tristezza senza motivo le dava come uno stringimento di cuore, e subito ricordava Eugenio che era malinconico anche nel sorriso. Dopo la sua morte non aveva potuto più sopportare le persone malinconiche a quel modo. Le pareva che ci fossero due tristezze: quella che ha le sue ragioni, e quella quasi abitudinaria, senza motivo. La prima le piaceva, e talvolta la gustava tra sé; la seconda, dopo la morte di Eugenio, le era diventata insopportabile” (p. 62).
Tornerà a provarla in occasione della morte del vecchio Paolo. E quando un altro relitto del passato riaffiorerà, a domandare – diciamo così – ragione della sua condotta. Invano: sembra destinata a invecchiare vicino ai padroni, diventati ormai “signori”, felici di vederla vivere al loro fianco nei loro ultimi anni.
Ha una giovane assistente, Rosa. Rosa è bella, e a differenza sua non ha paura di vivere esperienze sentimentali. Si ritroverà moglie e madre di un figlio d'un dottore, che deciderà di sposarla. Troppo calda per fare la serva, come dice lui, si ritrova promossa a ben altro stato sociale. Lezione di storia (d'Italia), e di storia delle dinamiche d'interazione tra le classi.
***
Una mattina, Paolo ritrova una rosa rossa infilata in un bicchiere. Pensa subito che sia stata Basilia: proprio come tanti anni prima. È clamorosamente fuori strada. Allora, era stata Ines: Ines, che in lui vedeva un affascinante modello di vita, esemplare per stile ed educazione. Non lo saprà mai, e mai potrà ringraziarla.
***
Mio padre, nel 1965, ha trascritto a penna una battuta di Pier Antonio Quarantotti Gambini: purtroppo non sono stato in grado di risalire alla sua fonte; ho soltanto la data dell'appunto, 9 marzo 1965, scritto a biro a un passo dal capitolo I. Questo scriveva QB: “La più amena e la più amabile storia, e più dolente mia raccontai in quella 'Rosa Rossa' che fa risuscitare certe atmosfere istriane dell'ultimo Ottocento (venivano dal Sette, e al Novecento giungevan, quanto lievi!). In essa niente vi è di accaduto, eppure vi è tutto vero: dall'aria in cui viveva la mia gente in una chiusa antica cittadina al lembo estremo della neolatina civiltà lì morente, sino al pianto d'Ines ed ai borbotti cupi di Pietro. A dispetto di colte persone, quante volte il quadro che uno inventa è veritiero!”.
E a noi, cinquant'anni dopo, non rimane che la letteratura, come testimonianza di quel tempo, di quella civiltà neolatina, di quella gente. Soltanto per questo, dovremmo auspicare a gran voce una bella ristampa di questo semplice romanzo borghese. Non è sicuramente un capolavoro, e non sarebbe forse stato degno d'attraversare il tempo; così, documento storico-letterario e storico-sociale, in generale, diventa la pepita d'oro d'un passato d'un popolo disperso nel mondo. Accogliamolo, allora, con tutti gli onori.
Nessuna diaspora della nostra tradizione letteraria: l'unica diaspora rimane quella dei figli dell'Istria. I loro geni – è una questione d'onore – dovranno attraversare il tempo.
EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE
Pier Antonio Quarantotti Gambini (Pisino d’Istria [Pola], 1910 – Venezia 1965), bibliotecario, poeta, giornalista, saggista e scrittore italiano, figlio di Giovanni Quarantotto da Rovigno, patriota irredentista, e Fides Histriae Gambini, da Capodistria.
Pier Antonio Quarantotti Gambini, “La rosa rossa”, Einaudi, Torino 1960. 9788806347444. Seconda edizione, riveduta e aumentata rispetto all'edizione Garzanti del 1947. Collana “Nuovi Coralli”, 39.
Prima edizione: Treves, 1937.
Gianfranco Franchi, marzo 2009.
Prima pubblicazione: Lankelot.
Nessuna diaspora della nostra tradizione letteraria: l’unica diaspora rimane quella dei figli dell’Istria. I loro geni – è una questione d’onore – dovranno attraversare il tempo.