Arktos
1980
9788870490114
Il nome di Edward George Bulwer-Lytton, scrittore, politico e aristocratico inglese, è oggi meno famigliare ai letterati e ai lettori forti. Proprio per questo mi sembra opportuno dare qualche coordinata, mostrando una prima, curiosa antitesi. Meglio: un curioso e fastidioso cortocircuito nella critica occidentale. “Era una notte buia e tempestosa” (“Paul Clifford” è il romanzo in questione), “la penna è più potente della spada”: bene, è Lytton l’altrimenti oscuro autore di quell’incipit e di quella massima. Superfluo dire che quell’incipit deve molta della sua grottesca popolarità ai “Peanuts” di Charles Schultz.
Lytton è considerato, sulle sponde americane, tra i più mediocri autori vittoriani; talvolta, in ambito anglosassone, il suo nome serve come sinonimo di pessima scrittura; addirittura esiste un concorso a lui intestato, dedicato al peggior incipit in lingua inglese, organizzato dalla University di San Josè.
Gianfranco De Turris e Sebastiano Fusco, invece, ce lo raccontano così: “Erudito, romanziere, eminente massone e membro della Societas Rosicruciana in Anglia, l’avanzato circolo occultistico fondato nel 1865 da Wentworth Little, e che qualche anno più tardi generò per filiazione diretta l’Hermetic Order of the Golden Dawn” (p. 8) – certo, non ne esaltano lo stile. Ma direi che l’autore è tutt’altro che ridicolizzato.
B.L. conobbe discreta popolarità, in vita; fu autore estremamente prolifico, non eccezionalmente considerato dalla critica ma letto con piacere dal pubblico. I curatori dell’opera ricordano che l’opera più fortunata, in questo senso, a distanza di tempo, rimane “Gli ultimi giorni di Pompei” (1834), schierandosi tuttavia per la sua produzione narrativa meno nota, quella incentrata sull’occulto, la magia e l’esoterismo: segnalano “Zanoni” (1849: in Italia esistono traduzioni per Sonzogno, Bocca, Tea), “A Strange Story” (1862) e “Magicians and Magic” (1865) assieme, finalmente, a “The Coming Race” (1871) (cfr. pp. 29-31).
Questo romanzo in Italia venne originariamente pubblicato (con differita di soli ventisei anni, quindi postumo) dalla casa editrice Treves, nel 1898. Soltanto 82 anni dopo è tornato sugli scaffali delle librerie attente all’esoterismo e alla spiritualità, per merito delle Edizioni Arktos. È un peccato che la circolazione sia ridotta: come vedremo a breve, è un interessante esempio di letteratura distopica, non andrebbe relegato tra le opere destinate a curiosi, studiosi e cultori dei laterali o dei dimenticati. Intanto, lascio l’onere dell’introduzione all’opera ai due curatori, De Turris e Fusco: “The Coming Race (…) descrive un mondo sotterraneo scoperto dal protagonista della narrazione, mentre esplora una miniera. In esso vive una razza superiore che conduce un’esistenza ‘utopistica’ grazie al possesso di una energia invincibile e inesauribile, che può essere guidata con il pensiero e per mezzo della quale ogni cosa è possibile (…). L’allegoria è evidente: una forza interiore conquistata e opportunamente diretta rende possibile la ‘rettificazione’, cioè la purificazione del proprio intimo, spingendo indietro gli istinti animali che ci legano alla Terra. Per designare questa forza, che Eliphas Levi chiamava ‘mediatore plastico’, Bulwer-Lytton scelse il nome di vril” (p. 19).
È una distopia: una delle prime, assieme a “Erewhon” di Samuel Butler (1872). Una di quelle più influenti: diverse associazioni occulte, nel Novecento, si mostrarono interessate alla possibilità d’un’esistenza d’un’altra razza nella “terra cava”. Sin qua, note di colore e prime coordinate per orientarsi a dovere; passiamo adesso all’analisi della trama e a cenni sullo stile e sulla struttura. Americano, nipote di emigranti inglesi, benestanti e influenti, il protagonista e io narrante viene mandato a Liverpool ad appena sedici anni, per perfezionare la sua formazione nell’antica madrepatria. Qualche anno dopo, durante una visita in una miniera, l’ingegnere suo amico s’avventura in un pozzo che stanno trivellando. Scende, e al suo ritorno è sconvolto: crede d’essere impazzito, ha sentito voci umane – e pensa si tratti della solita mania dei demoni e degli gnomi dei minatori. Il narratore, così, accompagna l’ingegnere il giorno successivo: si calano con una corda, che d’un tratto si spezza. Il narratore rimane solo e fugge, mentre un drago si nutre della carcassa del suo amico.
Adesso è solo, nelle viscere della terra. La luce è diffusa, dolce e argentea; s’apre a un tratto un’ampia valle, i colori dominanti diventano plumbeo e rosso dorato. In questo scenario appare il primo membro del popolo dei sotterranei. “Mi ricordava le immagini simboliche dei Genii o dei Demoni che si scorgono sui vasi etruschi o sulle pareti dei sepolcri orientali… immagini che riprendono le forme umane e tuttavia appartengono ad un’altra razza. Era alto, non gigantesco, ma alto quanto gli uomini più alti al di sotto della statura dei giganti” (p. 42).
Ha occhi neri, viso glabro, colorito da pellerossa; è antropomorfo, ma il narratore lo sente “ostile” all’uomo. Parlano lingue diverse, totalmente estranee. Incomprensibili: le prime comunicazioni avvengono via disegni. La guida accompagna il narratore nella cittadella; s’accorge di automi immobili lungo le pareti, ammira giardini splendenti di fiori meravigliosi e colorati, capisce che qualcuno ha le ali. Quando scopre la loro complessa natura meccanica, scosso e spaventato, sviene: pur riconoscendo cortesia e gentilezza nei suoi ospiti, è ovviamente spaventato a morte. Al suo risveglio, tempo dopo, costoro parlano la sua lingua, e lui ha appreso i rudimenti della loro. Può avere inizio lo scambio.
La razza sotterranea è quella degli Ana (uomini), sopravvissuti a cataclismi e inondazioni (il nostro diluvio?) nascondendosi nelle grotte, e là ricostruendo il loro già evoluto mondo; conoscono la luce del gas e del petrolio, non devono temere l’oscurità. La loro comunità era divisa in classi; attraversarono diverse forme di governo, anticamente addirittura la democrazia (reputata rozza), e superarono le fasi della lotta di classe e delle guerre tra diverse etnie. Questo sin quando non scoprirono il Vril. L’autore lo definisce come “unità delle energie naturali”, “elettricità” che influisce sul clima, sugli individui (in trance, dopo lo svenimento, aveva appreso la loro lingua), sulle malattie; crea e distrugge. Dal momento in cui tutti potevano attingere a quella forza, nessuno aveva più mostrato volontà d’espansione: poco a poco, erano sparite anche le forze dell’ordine. Tutti rispettavano le leggi (meglio: “convenzioni” da tutti apprezzate), nessuno le imponeva con la violenza. Gli Ana avevano una sola lingua e molti dialetti; leggi e costumi simili, tra uno e un altro popolo.
A capo della razza degli Ana, un magistrato supremo (Tur), con mandato a vita: senza residenza sontuosa o reddito superiore, a coordinare diversi dipartimenti, con armonia e grazia. Felicità, ordine, autorità sono strettamente interconnesse (p. 75). I cittadini vivono di agricoltura e artigianato; unici pericoli esterni, le irruzioni di fuoco e acqua, le fughe di gas, le tempeste di vento sotterranee, rettili e draghi nemici, cacciati dai più giovani. Si lavora in giovane età guadagnando abbastanza per vivere serenamente da adulti. Tra An – uomo – e Gy – donna – esiste eguaglianza di diritti; piuttosto, le donne dimostrano superiorità aggressiva e difensiva. Il matrimonio può durare tre anni; quindi, può terminare o essere rinnovato. Ciononostante, la poligamia è molto rara e i divorzi inesistenti. L’equilibrio delle coppie è importante. A corteggiare sono le donne, felici un giorno d’obbedire con gioia al compagno, sapendolo uguale e inferiore nella forza.
L’essere supremo, da tutti adorato, è espresso da un geroglifico simile a una piramide; la piramide rovesciata significa “potenza”. Da tempo non esistono più testi per testimoniare o interpretare l’esistenza e la giustizia del Creatore e del Conservatore del mondo: gli Ana sanno che, da esseri finiti, non hanno la capacità di definire ciò che è infinito e onnipotente. Si limitano ad avere fede.
Credono nella metempsicosi, ma tra un pianeta e l’altro e in diversa forma. Credono che un giorno torneranno a vedere il sole, per sterminare la specie umana che ha sporcato il mondo. Vivono ascoltando musica, in ogni stanza, a un volume discreto; si concedono qualche innocente lusso, passando le loro giornate in un invidiabile stato di equilibrio. Intanto, le donne scelgono il loro An: e una di loro, la figlia dell’autorità massima, s’innamora del narratore. È un legame proibito, che rovescerà le sorti del protagonista, esule infine da quel mondo sotterraneo.
Complessivamente, il romanzo può essere posizionato tra quelle distopie del secolo scorso destinate a rivelare apocalittici scenari futuri, in questo caso non dormienti né paralleli ma viventi sotto le nostre terre: al contempo, va a proporre, come le antiche utopie, sistemi alternativi al nostro. Da un lato, Lytton sembra apprezzare la struttura societaria e la forma statale degli Ana, rivelando quindi le sue predilezioni e le sue speranze, includendo la cessazione delle violenze tra esseri umani e l’avvento d’una società priva di contrasti, idilliaca e solare. D’altro canto, il suo protagonista sca(m)pa temendo per le sorti della specie umana, non cessando quindi – a dispetto degli abiti indossati, e della neolingua appresa, con tanto di acute osservazioni filologiche e grammaticali – di percepire come ostili quegli uomini che aveva riconosciuto come “demoni” dalle ali meccaniche, e dagli sviluppi tecnologici così simili a quelli di noi lettori contemporanei. I robot cominciano ad apparire nelle nazioni più evolute, in ogni casa; la musica in ogni ambiente è già una realtà, bastano piccoli transistor. I ruoli e la considerazione della donna stanno tornando, come in alcune società antiche e avanzate, a essere non dissimili da quelli dell’uomo.
Stilisticamente, e con buona pace degli yankee di San Jose, la narrazione tiene; non so se sia per merito della buona traduzione, ma direi che in ogni caso non si registrano gravi cadute di stile: l’equilibrio espressivo è forse grigio ma onesto, la leggibilità non è gravata nemmeno dal capitolo dedicato alla grammatica degli Ana, forse un po’ ostico per chi non ha fatto studi letterari ma non essenziale, in ogni caso. Il sogno del Vril animò molti intellettuali, così come quello dell’esistenza d’un popolo antico ed evoluto, nascosto all’interno della terra; probabilmente, che si tratti di memoria genetica d’un antico stadio di evoluzione sempre negato dalle scienze o di una speranza che molti tra noi hanno sempre avuto, la sostanza non muta – sarà così ancora per diverse generazioni, sin quando non troveremo prove inconfutabili di ciò che è, e di ciò che non può non essere che fantasia o reminiscenza.
Ai curatori De Turris e Fusco la riconoscenza del lettore, il ringraziamento per aver restituito alla luce una distopia degna d’essere considerata sia nel genere, sia nella letteratura esoterica; uno schiaffo morale piuttosto chiaro a chi, forse con qualche ingenuità, sta cercando di cancellare ogni traccia dell’opera di questo bizzarro aristocratico inglese.
EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE
Edward George Bulwer-Lytton (Londra, 1803 – Torquay, 1873), poeta e scrittore inglese, deputato prima liberale poi conservatore, aristocratico per ascendenza materna.
Edward Bulwer-Lytton, “La razza ventura”, Edizioni Arktos, Carmagnola, Torino 2006 (prima: 1980). A cura di Gianfranco De Turris e Sebastiano Fusco.
Prima edizione: “The Coming Race”, 1871. Prima edizione italiana: “La razza futura”, Treves, Milano, 1898.
Gianfranco Franchi, agosto 2007.
Prima pubblicazione: Lankelot.