Cargo
2008
9788860050212
“Lessi 'La morte di Virgilio” di Hermann Broch: seduto nella barca, Virgilio scivola lentamente verso la morte, sapendo bene dove è diretto. Viaggiavo sull'onda delle parole, che mi ipnotizzavano con la loro saggezza nebulosa, senza pietà” (p. 123).
Incipit: la narratrice racconta del giorno del suo funerale. È il principio di una meditazione sull'esistenza e sulla sua identità, sulle sue predisposizioni e sulle sue attitudini; non amava e non voleva fare del male. Credeva che la vicinanza fosse una sorta di resa. Questa la sua strategia di resistenza ai legami, al sogno romantico dell'appartenenza. Non si sente vincolata a niente di significativo, non ha buoni motivi per vivere, non si riconosce in Israele. La sua patria – la terra dei padri – non ha più niente del sogno. Sembra solo retorica. Sembra una cartina disegnata dalla retorica, vergata col sangue dei vinti, lussuosamente incorniciata con capitale straniero. Aveva cercato di uccidersi. Non aveva paura della morte. Era israeliana con doppia cittadinanza (inglese), per volontà paterna, e tuttavia si sentiva “israeliana nel sangue, nel sole, nell'odore della prima pioggia, nei mandarini, nelle banane, nelle pesche, nelle guaiave, nella bamia, nei fichi maturi, nella magnificenza arcaica del deserto” (p. 18). Suo padre era tra i fondatori dell'Esercito per la difesa d'Israele. Lei aveva imparato a riconoscere occhi pieni d'odio che spiavano le truppe, col nero negli occhi (p. 40).
Dalla madre, immigrata clandestinamente da Varsavia, sfuggita ai campi di concentramento, immemore del suo cognome, ha percepito amore disperato e rabbia. La madre la vedeva come una lumaca in un guscio. La madre era stata sposa di un arabo e padre di un sanguemisto ucciso dagli israeliani. Quindi, ritornata ancora in Israele dopo varie fughe, aveva conosciuto il nuovo marito. Aveva capito che Tel Aviv era la spiaggia di Varsavia. Rocambolesche nuove vicende, sino all'incontro con il padre della narratrice, all'epoca sposato con un'altra.
La narratrice è figlia di una madre dai molti figli e dalle molte famiglie, e di un padre che sembra avere una famiglia soltanto: la sua Nazione, nata e fondata nel sangue. La narratrice non riconosce e non accetta le sue radici.
Questa sua morte sembra la morte dell'idea moderna di Israele. L'allegoria non è nient'affatto una forzatura. L'indagine sulla sua morte è un espediente letterario appassionante ma non innovativo. È l'allegoria furiosa e iconoclasta l'anima del romanzo. È a quel messaggio che dovete puntare.
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Nel cimitero, lei poggia uno sguardo sulle tombe dei soldati senza nome o senza famiglia: in Israele li chiamano “derelitti”. Lei aveva conosciuto, in infanzia, un altro ideale: quello del soldato israeliano “prodigio della storia ebraica, rivalsa della diaspora, costruttore della patria” (p. 50). Ma questo è il romanzo dei rovesci della medaglia, e forse la profezia dei rovesci della sorte. Della menzogna dell'esistenza in vita, della menzogna delle lapidi nei cimiteri del niente – bandiere a ribadire essenze e identità snaturate, alterate o terminate. Certi confini si tracciano con la squadra e col compasso.
La nuova generazione si volta alle spalle e capisce soltanto pochi concetti: due in particolare, a sentire la narratrice del romanzo di Kaniuk, predominano: sono semplici, e senza bandiere. Deserto, e sangue. L'identità è un equivoco – il ruolo è un attore spesso fuori dalla parte. “La grammatica non ha né anima né spiegazioni” - e questo è quanto. Consolante, a ben guardare.
EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE
Yoram Kaniuk (Tel Aviv, 1930 – Tel Aviv, Israele, 2013), scrittore israeliano. Ha pubblicato romanzi, raccolte di racconti, libri per ragazzi.
Yoram Kaniuk, “La ragazza scomparsa”, Cargo, Napoli 2008. Collana Biblioteca di Cargo, 21. Traduzione di Dalia Padoa. Copertina di Maurizio Ceccato.
Prima edizione: “Ha-Neederet Mi-Nachal Tzin”, 2005.
Gianfranco Franchi, novembre 2008.
Prima pubblicazione: Lankelot.