Einaudi
1960
9788804578253
1960. “La ragazza di Bube” racconta l'Italia e gli italiani post 25 aprile; racconta il dramma di una coppia di giovani ostacolata dalla legge e dal destino, e rivela cosa significasse l'adesione al comunismo per certi giovani e meno giovani partigiani. È un libro horror-politico, nel 2010, un noir ingenuo e pericoloso, e non più un romanzo d'amore, morte e tradimento. Cinquant'anni sono passati, e lentamente in Italia abbiamo interiorizzato concetti pacifici come “non uccidere in nome dell'ideologia”, o “non uccidere cittadini disarmati”. È stata dura, siamo inciampati negli anni Settanta, ma forse è fatta; complice, chissà, la caduta del Muro di Berlino. È solo una congettura. Prima di entrare nel dettaglio dell'opera, un po' di rassegna stampa dell'epoca. Notate la sublime negligenza del nodo fondamentale: la “liceità” della violenza post caduta del regime. Montale scrisse, sul Corriere della Sera, che questo libro “resterà senza dubbio tra i migliori delle ultime stagioni letterarie”. Carlo Bo, sull'Europeo, si spingeva a riconoscerlo “piccolo capolavoro”, spiegando che questo romanzo era “a suo modo una lezione, un avvertimento morale”. Addirittura. Bartolucci, sull'Avanti, parlava di “splendido ritratto, dai toni minori, ma sostenuti, dell'animo femminile popolare”. Romeo Giovannini, sul Giorno, diceva che era il più bel libro degli ultimi anni. Insomma: posteri, preparatevi: questo è un libro eterno. Fatelo studiare a scuola. No?
Diciamo intanto che l'incipit è senza dubbio tra i più coraggiosi di tutti i tempi: “Mara sbadigliò”. Prometto di rubarlo, prima o poi, e di adattarlo in qualche modo. È una promessa pubblica, vedrò di mantenerla. Entriamo nel mondo della “Ragazza di Bube”. Mara, Annita e Mauro sono cresciuti insieme. Crescendo insieme si sono divertiti tanto. Mara soltanto con Mauro, Annita con chi capitava. È passato del tempo, adesso a certe cose Mara dà più peso. Ha sedici anni. E quando Mauro bussa alla sua porta lei si mostra riottosa. Fa bene, perché tra poco arriverà il grande amore.
Sono arrivati gli americani. La sera stanno sempre in giro per il paese, bussano porta a porta per scambiare sigarette e cioccolata col vino. E dopo gli americani, sono tornati i partigiani. Uno viene a bussare alla porta di Mara, è un compagno del suo povero fratellastro, Sante, caduto in battaglia. È un ragazzotto timido e gentile, si chiama Arturo ma tutti lo chiamano Bube. In montagna si faceva chiamare “Vendicatore”. Per lui Sante era come un fratello. Erano anche quasi coetanei, diciannove anni Bube, venti Sante. Vuole parlare con suo padre, ma in quel momento è altrove. Attende. Arriva.
Il padre di Mara è un comunista rivoluzionario. Si sincera subito che Bube sia pulito, e che sia d'accordo con lui. “Perché sei un compagno anche tu, no?” - perché mica era così scontato. Bube non si tira indietro: “Vorrei vedere”. Il padre allora smargiassa: “Io sono comunista da quando fu fondato il Partito. Vedi qui? - disse indicando una cicatrice sulla fronte – è un segno di quando quei vigliacchi mi bastonarono, in tempo di elezioni, nel '24” (pp. 18-19). E giù confidenze e progetti, sino al sonno. Bube non s'addormenta. E torna a parlare con Mara.
Bube detto “Vendicatore” non ha voglia di finire la guerra. Prende in mano una pistola, con aria compiaciuta, e la mostra a Mara. “Questa qui, vede? Ha già sistemato diversi conti. E non è mica finita” (p. 19). Parla sul serio. Torna un mese dopo. S'è tagliato i baffi. Il giorno lavora, la sera va in sezione. È già stipendiato dal partito. Adesso guadagna bene, scopriamo. E forse ha un debole per Mara. Qualche giorno dopo le manda un po' di sale, e la richiesta di una sua foto. Lei ne chiede una sua, prima. Come promessa, e forse in cambio.
Bube si fa vedere qualche settimana dopo. È stupito perché il maresciallo di Volterra voleva mandarlo in galera: “Per niente. Perché avevo picchiato un fascista”, ma aggiunge: “Poi, s'intende, c'è stata una protesta, e mi ha dovuto rilasciare” (p. 33). E nel dubbio ha deciso di trasferirsi a San Donato, in ogni caso. I due si fidanzano, si danno un bacio.
Inverno. Qualche lettera. Poche, vaghe. Ci sono stati problemi. Bube vede fascisti dappertutto: a San Donato la cooperativa va bene, hanno guadagnato bei quattrini, ma un maresciallo ha pensato di sequestrare il camion. Curiosamente: le ragioni non ce le spiegano mica. Il maresciallo diceva di essere stato partigiano, ma secondo Bube era un fascista. Lui e il suo figliolo. Era un partigiano monarchico, quindi insomma, capiamoci: nella misura in cui uno non è comunista, allora è fascista.
E poi c'era il prete che non voleva che s'entrasse in chiesa col fazzoletto rosso, a dirla tutta. Allora il maresciallo s'è messo in mezzo, e i compagni l'hanno sbattuto al muro. Ci mancherebbe. Incredibilmente il maresciallo s'è risentito, e ha sparato. “Ma lo abbiamo vendicato” - si pavoneggia Bube. “Prima abbiamo ammazzato il maresciallo, e poi anche il figliolo (…). S'era messo a gridare” (p. 39). Bube è ancora emozionato. “Io non sbaglio mai un colpo. E il prossimo sarà per quel delinquente del prete” (p. 40). Per il papà di Mara non c'è problema. “Te la affido volentieri, perché sei un ragazzo onesto, e perché sei un compagno. Dio...! - bestemmiò” (p. 42).
Il papà è uno che ha le idee chiare. “Io, ti dico la verità: anche nel Partito, non ci vorrei altro che gli operai. Lo so, alcuni compagni dicono che il Partito ha bisogno di elementi intellettuali. Ma a me non la danno a bere (…). Lo sai come diceva Marx? Dittatura del proletariato, diceva... e dunque chi non è operaio non ha diritto a nulla. Gli operai devono comandare, e i borghesi, più se ne mette al muro e meglio è. E senza pietà, questa volta: c'è qualcuno anche qui in paese che bisogna saldarglielo il conto. (…). A suo tempo, io lo proposi: prendiamo quei tre o quattro, portiamoli nel bosco, una bella scarica nella schiena, e via. Ma sai com'è nei paesi, questo è cugino di quello, quest'altro è cognato di quell'altro...” (pp. 42-43). Già. Mica si può ammazzare così, per odio generico. Serve odio generico ma pieno rispetto dei clan. Il territorio è importante.
Ma qualche garanzia rimane. Bube tranquillizza Mara: i suoi due omicidi andranno lisci, perché “Oh, ma quella è una faccenda che l'aggiustiamo subito. Ci pensa il Partito, ad aggiustarla” (p. 53). Insomma, non è detto. Il compagno Memmo dice invece che la faccenda è bruttina. “Naturalmente andrebbe tutto bene se si fosse noi a comandare – è chiaro – ma la questione è che comandano gli inglesi e gli americani” (p. 67). Conviene starsene imboscato per un po'. Il CLN vuole evitare incidenti per “impedire intromissioni” degli alleati.
Bube intanto punta casa, a Volterra. A Mara casa sua non piace. Sono poveri come i suoi, ma sono “sudici”. Una notte soltanto, e poi si deve scappare. I carabinieri non hanno gradito gli omicidi. Si vede proprio che non sono compagni. E così Bube torna nel capanno, in montagna. Perchè? “È l'ordine del partito” (p. 82). Mara vive l'esperienza come una romantica luna di miele, e intanto si dispera: che male c'era a uccidere un maresciallo? “Forse che i fascisti comandavano di nuovo? No, i fascisti non comandavano più, ma era lo stesso un guaio” (p. 100). Sognano un futuro insieme. Lei già immagina la casa. Ma ecco che è di nuovo tempo di partire. Russia? Chissà. “Stai tranquilla” - le dice il padre. “Là stai tranquilla che è al sicuro. Eh, al Partito lo sanno come fare. Gliel'abbiamo fatta sotto il naso”, gongola (p. 115). Tutto contento.
I carabinieri vengono a interrogarla. Lei nasconde tutto quel che può. Bube sarà a Volterra, dice. E ride. Suo padre la elogia. Così si fa. “Eh, i miei figli, non faccio per dire, ma li ho educati da comunisti” (p. 124). Cosa significa? Significa che “sarebbe proprio da ridere se un comunista dovesse render conto delle sue azioni alla giustizia borghese” (p. 127). D'accordo. Bisogna solo stringere i denti, sta per arrivare l'amnistia. Questo dicono al partito. Intanto, al paese, i compagni si innervosiscono. C'è una nuova specie di fascisti. “Uomo Qualunque” è solo un sinonimo. “Razza di delinquenti”, sibilano i compagni. Non vogliono che in paese nessuno legga i loro pamphlet. Sennò finisce male, ci si ripete per confortarsi.
Passa del tempo. Mara finisce a Poggibonsi, a servizio. Non può vivere a Monteguidi, non ha denari. L'angoscia è che questa benedetta amnistia mica arriva. E Bube chissà dov'è. E poi c'è che la Ines, compaesana che ha trovato il lavoro alla Mara, sembra sin troppo socievole coi maschietti. Combina bene le uscite. Per fortuna, a Mara capita un giovane comunista, un vetraio. Stefano. È capace di lunghi silenzi e lunghi discorsi, è molto sensibile. Scrive versi. Non parla di ammazzare nessuno, per il momento. E poi si innamora facilmente di lei. E poco a poco, complice l'assenza dell'esule Bube, qualcosa succede.
S'avvicinano le elezioni del 2 giugno. “Vinceremo di sicuro” - dice il padre. “Il popolo è con noi” (p. 164). Arriva l'amnistia, intanto. Ma il padre capisce male: “I fascisti, andranno tutti fuori (…). L'ha fatta Togliatti” (p. 168). E subito trascura le elezioni. Perché il comunismo vince, ma con la rivoluzione: non con la scheda (p. 169). Questo insegnavano a Livorno, tanto tempo prima.
Vince la Republica. Grandi festeggiamenti. Passa l'amnistia. Ma non per l'omicidio d'un carabiniere partigiano monarchico e di suo figlio, innocente e disarmato; o per l'omicidio di un prete, senza motivo. Curiosamente, in quel momento in Francia il nuovo governo decreta l'espulsione di centinaia di comunisti italiani, non proprio turisti: esuli, come Bube. E Bube viene tradotto a Firenze. Purtroppo la giustizia borghese vorrebbe domandare perché ha sentito di inseguire di qua e di là il figlio del carabiniere, per sparargli in testa. A Bube la cosa non va giù. Era figlio d'un fascista!
I compagni hanno le idee chiare, intanto. “Per me lo sbaglio l'ha fatto il Partito. Perché mandarlo in Francia? Lo avessero mandato in Jugoslavia, non sarebbe successo”. Sicuramente. “In Jugoslavia siamo noi che comandiamo, mica quegli altri” (p. 186). Sì, è vero. Era così. In Italia c'era questo problema della legge, e della giustizia. Non si può ammazzare in nome del socialismo come niente fosse, come altrove capitava, in Europa. Bube si becca quattordici anni, Mara è a pezzi. Le crolla il mondo addosso. Saprà aspettare il suo fidanzato, per tutto il tempo necessario.
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Dicevamo. Montale scrisse, sul Corriere della Sera, che questo libro “resterà senza dubbio tra i migliori delle ultime stagioni letterarie”. Carlo Bo, sull'Europeo, si spingeva a riconoscerlo “piccolo capolavoro”, spiegando che questo romanzo era “a suo modo una lezione, un avvertimento morale”. Bartolucci, sull'Avanti, parlava di “splendido ritratto, dai toni minori, ma sostenuti, dell'animo femminile popolare”. Romeo Giovannini, sul Giorno, diceva che era il più bel libro degli ultimi anni. Michele Rago, sull'Unità, diceva che qui Cassola era arrivato al limite del capolavoro, che queste pagine si leggevano col fiato sospeso. “Pagine di stupenda purezza, quelle dedicate all’amore di Mara e Bube – scrisse Geno Pampaloni sul “Giornale” - Cassola era un perfezionista della semplificazione: la materia del racconto naturalistico, la ‘tranche de vie’, era assunta in uno spazio indiviso, assoluto, come assoluti sono la sua purezza lirica ed il mistero metafisico dell’esistenziale”.
Se questo è il romanzo di formazione della povera Mara, è un romanzo di formazione tra i più derelitti, scorretti, assurdi e atroci di sempre. Contestualizzarlo aiuta soltanto a capire cosa sia stata la guerra civile, qui in Italia, e quanto male abbia fatto a tutti, vincitori e vinti. E cosa abbia significato il veleno delle ideologie, cosa abbia autorizzato, quanto pericolo abbia implicato. E allora sì, “È cattiva la gente che non ha provato dolore. Perché quando si prova il dolore, non si può più voler male a nessuno”. Speriamo. E speriamo che nessuno se ne dimentichi. Qualcuno dice che questo romanzo deriva da una storia vera. Non mi stupisce che non ci sia niente, ma proprio niente, di inventato.
EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE
Carlo Cassola (Roma, 1917 - Montecarlo, 1987) scrittore e saggista italiano.
Carlo Cassola, “La ragazza di Bube”, Einaudi, Torino 1960.
Traduzione cinematografica: “La ragazza di Bube”, di Luigi Comencini (1963).
Approfondimenti: WIKI it
Gianfranco Franchi, febbraio 2010.
Prima pubblicazione: Lankelot.
Sul classico moderno di Cassola – e su come sta invecchiando…