Theoria
1999
9788824106252
Notizie stravaganti, eventi al limite del verosimile. E tuttavia reali, e molto italiani. Mauro Covacich, classe 1965, all'epoca (1999) giovane scrittore, viaggia per l'Italia per “raccontare cosa succede senza inventare niente”; committenti, “Panorama”, “Il Corriere della Sera”, “Diario”. Ne deriva questa raccolta di articoli dal vago retrogusto dell'intelligente esercizio di stile, foto di tante storie raccolte nella penisola – con particolare sensibilità nei confronti del confine orientale – e campione della tecnica di scrittura giornalistica di un buon letterato.
Vediamo, in sintesi, almeno qualcuna delle storie di MC.
Caporetto. Con buona pace dei caduti nella Prima Guerra Mondiale, non è più nostra. “Caporetto non è in Italia, ma in Slovenia. È un paese di 1400 abitanti in provincia di Nova Gorica dal 1947. Cobarid, capite? Da cinquant'anni” (p. 70). E Covacich sintetizza: “Fino al 1915 Caporetto era austriaca. Poi, dal 1915 al 1917, e dal 1918 al 1943, resta italiana. Poi vengono i partigiani, fondano la Repubblica di Caporetto e si fermano fino al 1945. Dal 1945 al 1947 è americana, dal 1947 jugoslava. Fino al 1991, quando finalmente Caporetto ritorna slovena, com'era sempre stata. Perché di fatto questa zona, che va dal corso dell'alto Isonzo al confine italiano, è stata occupata da tutto il mondo ma la sua gente è sempre stata slovena” (p. 75). Aggiorniamo i libri di scuola anche su questo tragico fronte. Probabilmente meno popolare. Spiegare ai nostri ragazzi che tutto questo sangue è stato versato per una terra che Covacich chiama “da sempre slovena”, senza nemmeno nominare gli italiani, è molto complesso e niente affatto pacifico e razionale. Prendiamone atto. Forse è questa la vera Caporetto della nostra storia. La sua riscrittura a posteriori. Sarà bene ricordare che la Slovenia è nata nel 1991. La Jugoslavia nel 1918. Vicende molte complesse da spiegare a chi non viene da quelle parti. Si possono solo documentare, invitando allo studio e alla ricerca. Meditate.
Catania. Un buon padre di famiglia, ingegnere elettronico, dimentica il figlioletto in macchina, per sei ore. Sessanta gradi, complice la giornata più calda dell'anno. Il piccolo è rimasto sul seggiolone, a patire l'inferno. Cosa significa? “La dimenticanza di Deodato ha a che fare con il sacro, con quel misterium tremendum in presenza del quale restiamo atterriti e affascinati. La religione, la chiesa non c'entrano; semmai vengono dopo. Ciò di cui parlo è la pura e semplice ineffabilità dello stato delle cose; è l'enorme punto di domanda al quale ci aggrappiamo per non precipitare in quel buco nero che dev'essere stato l'asilo di Andrea nella mente del padre” (p.11).
Goro. Qui l'usanza stravagante è parlare coi morti, al cimitero. Si va in cimitero e ci si mette a parlare con le tombe, come nei parlatori del carcere. Nessuno sa quando questa consuetudine abbia avuto inizio. In pochi, al paese, vogliono parlarne; spiegazioni, zero. Curioso.
Buccinasco, Milano. Sara, vigilessa, sposata e madre di un bambino piccolo, un giorno arresta un ragazzino con qualche precedente penale: guidava un motorino rubato. Esce di galera, la incontra e le tira addosso un cubo di porfido. E poi? E poi i due cominciano a frequentarsi. Lei abbandona la famiglia e scappano, in Europa. Ritornano, parentesi di galera per il suo amante, libertà, stupida nuova fuga e nuovi reati. Stavolta, commessi assieme. Infine, galera. Il piccolo mondo borghese di Sara si disintegra: rinuncia come niente fosse al figlio, alla famiglia, al lavoro, per consacrarsi a un delinquente. L'autodistruzione è un cammino tutto in discesa, senza ostacoli.
Arzignano, Vicenza. Cittadina principe nell'industria conciaria del mondo, dieci per cento di abitanti extracomunitari. 22mila abitanti, 45 percento leghisti. Ma mentre in città non c'è nessuna forma di integrazione, nell'asilo, “bello è poco, diciamo fantascienza pura”, i figli di tutti quanti – veneti e immigrati di ogni nazione africana e asiatica – giocano e fanno amicizia, parlando in vicentino puro. Segno dei tempi.
Da qualche parte a Nordest, la drammatica questione dell'Unabomber; un pazzo, frustrato, che si diletta a fare piccoli attentati dinamitardi di qua e di là, e gioca a fare il terrorista minoritario. Covacich provoca: “Penso al mio lavoro come a un attentato casuale, necessariamente violento, ma pieno d'amore: le mie storie sui banchi delle librerie, in attesa di uno sconosciuto, come tante piccole granate rudimentali seminate con cura sotto gli ombrelloni. L'Unabomber è egoista e generoso insieme. Perde la vista nella sua cantina perché non può farne a meno, ma lo fa anche perché gli altri vedano quello che vede lui. La sua opera non dà spiegazioni, non illustra, non interpreta, non rappresenta, e quindi non ha bisogno di essere interpretata. La sua opera agisce, è energetica, visiva, la si percepisce immediatamente con il male che produce, e basta” (p. 126). Ecco una buona strategia per prendersi gioco della barbarie: ridicolizzarla.
Via Poma, Roma. Covacich punta il vecchio ufficio della povera Simonetta Cesaroni, impiegata assassinata da un misterioso omicida, probabilmente un suo amico o un suo conoscente, qualche anno fa, qui in città. Lo scrittore cerca tracce della tragedia nei volti di chi in quegli uffici ancora lavora; incontra, piuttosto, una fastidiosa e clamorosa rimozione: una volontà di ribadire la propria totale estraneità all'accaduto, quasi a volerne sigillare l'impossibilità.
Zoppola, Pordenone. Allevamento di struzzi friulani. “Massì, in Slovenia fino a non troppo tempo fa si mangiava il prosciutto d'orso, e chissà che la cotoletta alla milanese non sia veramente un'orecchia d'elefante. Massì, mangiamoceli tutti 'sti animali, che alla fine, gobba più gobba meno, quintale più quintale meno, sembrano tutti un pollo arrosto” (p. 35)
Aviano. Covacich va dalle parti della Air Force Italy, undicimila tra soldati e loro famigliari, a dispetto degli ottomila abitanti italiani del posto; nella base, hanno piscine, campi da baseball, cinema, un ospedale, la scuola, l'università, negozi di ogni genere (p. 39), dice una cittadina del posto. Integrazione? Manco a parlarne. “Questa per loro è terra di nessuno – dice un altro – per strada è come se non ti vedessero. Aviano potrebbe essere Corea, Spagna, Turchia. Loro devono stare qui cinque anni. Non vogliono complicarsi la vita con amicizie o affetti difficili da mantenere. Noi gli diamo il bowling, le birrerie, gli american bar, loro ci danno i loro super stipendi e siamo tutti contenti” (p. 41). In quei giorni, si discute del piano di ampliamento della base: Aviano 2000. Servirà per ribadire la presenza americana sul nostro territorio, la sua legittima occupazione militare, a 64 anni pieni dalla fine della guerra. Mistero italiano anche questo, a ben guardare. Ma molto ben remunerato.
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Sospetto che questo libro, pubblicato da Theoria nel 1999, sia ormai fuori catalogo e irreperibile. Ristamparlo, ampliandolo con altri dieci anni di articoli e di reportage di Mauro Covacich, sarebbe affascinante. Cos'altro è successo in questi dieci anni di così importante da restare impresso nella memoria di uno scrittore che sente di poter raccontare la realtà senza inventare niente? Parecchio, immagino.
EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE
Mauro Covacich (Trieste, 1965), giornalista e scrittore italiano. Ha esordito nel 1993 con “Storie di pazzi e di normali”.
Mauro Covacich, “La poetica dell'unabomber”, Theoria, 1999. Collana “Geografie”, 42.
Gianfranco Franchi, novembre 2009.
Prima pubblicazione: Lankelot.
Covacich viaggia per l’Italia per “raccontare cosa succede senza inventare niente”…