Adelphi
2010
9788845925283
“Una volta si soffriva la fame, la tortura, i patimenti più terribili, si uccideva e si moriva, si soffriva e si faceva soffrire, per salvare l'anima, per salvare la propria anima e quella degli altri. Si era capaci di tutte le grandezze e di tutte le infamie, per salvare l'anima. Non la propria anima soltanto, ma anche quella degli altri. Oggi si soffre e si fa soffrire, si uccide e si muore, si compiono cose meravigliose e cose orrende, non già per salvare la propria anima, ma per salvare la propria pelle.[...]. Tutto il resto non conta. Si è eroi per una ben povera cosa, oggi! Per una brutta cosa. La pelle umana è una cosa brutta. Guardate. È una cosa schifosa. E pensare che il mondo è pieno di eroi pronti a sacrificare la propria vita per una cosa simile!” (Malaparte, “La pelle”, cap. IV, “Le rose di carne”, p. 1100).
“La pelle” andrebbe letto, in sequenza, dopo “Le soldatesse” di Ugo Pirro. E questo a dispetto d'esser stato pubblicato qualche anno più tardi. La ragione è molto semplice: nel romanzo autobiografico di Pirro l'esercito italiano, non ancora sbandato e sconfitto, cammina sulle rovine della Grecia e diventa protagonista della sofferenza, della corruzione e della prostituzione del popolo greco, ridotto in miseria e spesso disposto a tutto pur di sopravvivere. Osservando le donne greche c'è chi s'angoscia pensando che la loro sorte potrebbe essere un giorno, forse non troppo distante, quella delle sue donne, delle donne italiane. Quel giorno arriva prima del previsto: è il giorno – il periodo – descritto in questo libro di Malaparte. I vincitori non sono più gli italiani, sono gli americani. Le scene di degrado e disperazione sono eccezionalmente simili, in compenso: e così la sensazione d'assistere a una disfatta di tutti, vincitori e vinti, perché la guerra, semplicemente, prende e uccide l'umanità. La guerra spoglia d'ogni dignità l'umanità. La guerra cancella tutto quel che sino a quel momento ha avuto senso, e ha preteso rispetto.
Non importa essere soldati leali, onesti e puliti come tanti dei soldati americani descritti, con eccezionale dolcezza e verosimiglianza, da Curzio Malaparte: importa, purtroppo, quel che accade intorno, di fronte o a causa di questi soldati. E quel che è descritto nella “Pelle” è qualcosa che ci siamo sforzati di dimenticare, tutti, senza riuscire. Al termine della lettura non sappiamo benedire o maledire più niente: almeno, non in termini assoluti. Al termine della lettura restiamo silenziosamente a domandarci quanta incredibile voglia di vivere e di ricostruire tutto devono avere avuto i nostri nonni, o i nostri bisnonni, considerando quanto paurose fossero le macerie della seconda guerra mondiale e del disastro del fascismo, e le ferite non solo politiche: economiche, spirituali, sociali, culturali. Al termine della lettura ci domandiamo quanto saremmo stati diversi dal narratore di questo libro, in certi frangenti; e quanti contrasti e quante contraddizioni avrebbero tormentato anche noi, indecisi se festeggiare la fine delle disgrazie della guerra o se stramazzare di fronte all'inizio delle disgrazie del tempo in cui ci si batte per un tozzo di pane, senza avere nemmeno una vaga idea di quando possa finire. Sarebbe finito, ma saremmo diventati infinitamente diversi, o spesso decisamente diversi.
Napoli, 1943. La guerra è finita ma nessuno si sente un vinto. Tutti si sentono liberi, questo sì. Malaparte va per le strade in uniforme inglese: si sente ridicolo, perché come gli altri soldati del Corpo Italiano della Liberazione indossa l'uniforme di un soldato ucciso quando era nemico, un soldato d'un popolo diventato alleato. I nostri soldati, adesso, sono pallidi e smunti, gli occhi bianchi e fermi. Il nostro popolo, invece, appare “povero, infelice, meraviglioso”: “L'onore di esser liberato per primo era toccato in sorte, fra tutti i popoli d'Europa, al popolo napoletano: e per festeggiare un così meritato premio, i miei poveri napoletani, dopo tre anni di fame, di epidemie, di feroci bombardamenti, avevano accettato di buona grazia, per carità di patria, l'agognata e invidiata gloria di recitare la parte di un popolo vinto, di cantare, batter le mani, saltare di gioia tra le rovine delle loro case, sventolare bandiere straniere, fino al giorno innanzi nemiche, e gettar dalle finestre fiori sui vincitori” (“La pelle”, cap. I: “La peste”, p. 967).
I napoletani, ridotti in miseria, vendono i bambini per due o tre dollari. Bambine di otto, dieci anni. Intanto il prezzo del pane, dell'olio e della farina cresce. Prima della liberazione, scrive Malaparte, “avevamo lottato e sofferto per non morire. Ora lottavamo e soffrivamo per vivere. C'è una profonda differenza […]. Gli uomini che lottano per non morire serbano la loro dignità, la difendono gelosamente, tutti, uomini, donne, bambini, con ostinazione feroce […]. E gli uomini, quando lottano per non morire, si aggrappano con la forza della disperazione a tutto ciò che costituisce la parte viva, eterna, della vita umana, l'essenza, l'elemento più nobile e più puro della vita: la dignità, la fierezza, la libertà della propria coscienza. Lottano per salvare la propria anima. Ma dopo la liberazione gli uomini avevano dovuto lottare per vivere. È una cosa umiliante, orribile, è una necessità vergognosa, lottare per vivere. Soltanto per vivere. Non è più la lotta contro la schiavitù, la lotta per la libertà, per la dignità umana, per l'onore. È la lotta contro la fame […]. Gli uomini son capaci di qualunque vigliaccheria, per vivere: di tutte le infamie, di tutti i delitti, per vivere” (pp. 1005-1006).
Tra i soldati americani c'è chi, come Jack, grande amico di Malaparte, ha l'umanità di arrossire di fronte a “qualche doloroso episodio della nostra miseria, della nostra umiliazione fisica e morale, della nostra disperazione” (p. 981); altri, invece, non sembrano essere in grado di capire. C'è chi disprezza la corruzione e la decadenza dell'Europa sconfitta – perché sembra di assistere alla rovina dell'Europa, non solo dell'Italia – e chi non si rende conto di quanto si stiano umiliando le persone che incontra, pur di guadagnare qualche dollaro. L'artista pratese racconta un solo episodio che in qualche maniera strappa un'ombra di sorriso: meglio, non è un episodio, è un fenomeno. È il fenomeno dell'attrazione assurda dei napoletani per i soldati di colore, trattati con irragionevole arroganza e prepotenza come fossero giocattoli, venduti come schiavi, in un pietoso e ridicolo tentativo di dimostrare l'intatta supremazia del cittadino partenopeo nei confronti dell'ennesimo conquistatore. Quanto al resto, spesso si ha la sensazione di camminare fianco a fianco di questi soldati sbarcati in Italia per imporre un'idea di libertà e democrazia che avevamo smarrito, denigrato, perduto. E non ci si stanca di stupirsi per la loro profonda ingenuità – non è ignoranza, è innocenza – e ci si va domandando come e cosa possa averla corrotta, nel tempo. È stata corrotta davvero?
“Una generazione vinta è una cosa molto più seria di una generazione di vincitori. In quanto a me non mi vergogno affatto di appartenere a una generazione vinta, in un'Europa vinta e distrutta. Quel che mi dispiace, è di aver sofferto cinque anni di prigione e di confine. E per che cosa? Per niente” (p. 1069). Malaparte non ha fatto in tempo a veder vivere l'Italia nuova, è morto nel 1957. Durante la guerra è stato, in paradossale ossequio alla sua esistenza, straordinariamente coerente nell'incoerenza. È stato italiano e antitaliano, fascista e antifascista, vinto e vincitore. Il miracolo è che, nella formidabile doppiezza del suo spirito, sia rimasto vivo un senso di profondo rispetto per la vita umana, e per la dignità dei cittadini. Perché soltanto chi doveva essere cresciuto nell'adorazione d'un'idea diversa di Italia, di italianità, di umanità e di pietà poteva scrivere un libro così crudo, così morboso, così pornografico nella rappresentazione della violazione della verginità d'un popolo, e del martirio della sua identità, e della sua essenza.
Non dovrebbe mancare nelle biblioteche di nessuno. E dovrebbe esser letto già attorno ai diciassette, diciott'anni: quando a scuola si comincia a intravedere, studiando il tardo Ottocento e il primo Novecento, il principio del baratro in cui siamo caduti. Vendendo, per prima e non sempre cara, la pelle.
EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE
Kurt Erich Suckert (Prato, 1898 - Roma, 1957), alias Curzio Malaparte, scrittore, giornalista e diplomatico italiano.
Curzio Malaparte, “Kaputt”, Meridiano Mondadori, Milano 2009. Prefazione di Giancarlo Vigorelli. Introduzione di Luigi Martellini. Contiene una cronologia, notizie sui testi e una bibliografia.
Prima edizione: Vallecchi, 1949. Poi Garzanti, 1967. Poi Adelphi, 2010.
Al cinema: “La pelle” di Liliana Cavani, 1981.
Approfondimento in rete: WIKI it
Gianfranco Franchi, agosto 2010.
Prima pubblicazione: Lankelot.
E quel che è descritto nella “Pelle” è qualcosa che ci siamo sforzati di dimenticare, tutti, senza riuscire…