Baldini & Castoldi
2015
9788868525934
Questo fascinoso romanzo è incentrato sulla figura di Giuda, e propone un’interpretazione della natura del suo legame con Yoshua Ha-Nozri, Gesù lo Straniero,proponendo un esito nuovo della parabola evangelica del tradimento. Provvedo adesso a sintetizzare la storia secondo la sequenza della narrazione, per via degli ampi salti cronologici: infatti, Giuda di Quèriot “essendo un diavolo, non morì: o, per meglio dire, morirono i suoi corpi mentre lui vagava da un’epoca all’altra, da una stella all’altra, immemore di ciò che era stato in passato”: tornava a nascere e ad uccidere, perché così voleva la sua sorte fino dall’origine del tempo. Era un assassino. Questo il presupposto del romanzo. “La notte del lupo” è strutturato in quindici capitoli, ognuno provvisto di un titolo. Yoshua si avvicina a Gerusalemme, deciso a predicare nel tempio.
Si profila la valle del Cedron: colto da una visione, Yoshua scoppia a piangere. Entra nella città: i viandanti ed i pellegrini non credono a quel che egli dice, perché ritengono sia l’ennesimo falso profeta, un invasato che asserisce d’essere l’annunciato e atteso Messia. Sono i giorni della pasqua ebraica: la città è festosa e attiva nei commerci, ogni famiglia si prepara a celebrare la ricorrenza sacra; Yoshua e i suoi discepoli, discesi dalla Galilea dopo tante incertezze del Maestro, non ricevono l’accoglienza immaginata. Le donne del seguito sono perplesse per quanto sta avvenendo, temono che il Regno promesso per i loro mariti non vedrà mai la luce: Maria, madre di Yoshua, avrebbe addirittura preferito rimanesse a lavorare col padre e con i fratellastri.
Nei pressi del Tempio, Simone, detto La Pietra, si rivolge ad un gruppo di bambini e propone loro, in cambio di una moneta, di inneggiare al Messia: così, Yoshua viene d’un tratto avvolto dal clamore dei piccoli. Ora, pur ammettendo le attenuanti generiche del caso e la buona fede di Simone, bisogna pur riconoscere che di fatto entra in gioco una alterazione della verità – diremmo addirittura una antegoria, perché dei bambini, fino a quel punto disinteressati ad accogliere il Rabbi, in cambio di denaro (e quindi per conseguire un utile personale) festeggiano e acclamano il messia. Prima attestazione della menzogna nel romanzo è dunque questa antegoria.
Sei giorni dopo, per la terza volta Yoshua siede sulla Pietra del Banditore, di fronte al Portico di Erode, nell’Atrio dei Gentili. Confuta le tesi dei farisei, mentre osserva, disgustato, l’ecatombe di animali sugli altari sacrificali. Interrogato sul primo comandamento, dapprima, reticente, non risponde: quindi replica, correggendolo. È necessario amare prima il prossimo che Dio stesso. “Il primo comandamento della Legge, secondo l’elenco che viene letto nelle sinagoghe, è: ascolta Israele! Il tuo Dio è l’unico Dio che esiste. Amalo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua mente e con tutte le tue forze. Il primo comandamento della Legge in ordine di importanza, invece, è quello che recita: ama il prossimo tuo come ami te stesso. Nessun altro precetto è più importante di questo”. Agli occhi dei farisei, è un bestemmiatore e la sua risposta desta scandalo: gli domandano allora un segno della sua natura divina, invano. In questa circostanza è difficile discutere di una menzogna: pur trattando questo testo come un testo letterario, ovviamente, e non come un libro sacro, noi dobbiamo riconoscere in questo Yoshua una volontà di testimoniare la verità, quella verità che per sua natura divina dovrebbe conoscere. Pertanto, a rigor di logica è corretto che egli interpreti ed eventualmente corregga le parole dei testi sacri: potremmo parlare di un’alterazione di una verità(intesa come patto contratto da tempo da una comunità di individui) solo se avessimo prova e testimonianza della natura non divina del personaggio Yoshua. Questo non avviene: pertanto, passiamo oltre registrando tuttavia l’opportunità di un piccolo cortocircuito proprio a partire da questo tratto. Effettivamente, nel testo Giuda e i fratellastri di Yoshua sono convinti che egli sia Ha-Nozri, lo straniero, per via della sua nascita da altro padre: questo altro padre è sussurrato più volte sia il mercenario greco Pantera. Nessun elemento, ribadisco, attesta con certezza che l’informazione sia corretta: pertanto, poiché Yoshua asserisce d’essere figlio di Dio e Giuda, ad un punto, come vedremo, afferma di aver mancato nella sua missione di uccidere Dio, riconoscendolo dunque implicitamente come tale, al di là del mistero della paternità, manteniamo salda la convinzione che in questo romanzo Yoshua sia figlio di Dio.
Yoshua giura di distruggere il Tempio e di edificarne un altro in tre giorni, scagliandosi contro i banchi dei venditori ambulanti e destando scompiglio: non tollera l’ipocrisia di quegli individui. Nel frattempo, i discepoli raccontano al popolo le vicende di Giovanni il Battezzatore; Giuda di Quèriot viene riconosciuto da un suo vecchio compagno, Misaele, e condotto via. Chi lo attende, in segreto, è il capitano del Tempio, Ramat-Lechi: Giuda dovrà spiegargli perché sia venuto meno all’incarico assegnatogli un anno prima, quando, da affiliato della setta degli zelanti della legge, aveva ricevuto l’ordine di assassinare Yoshua. Giuda è consapevole di aver mancato ai suoi doveri di “assassino di Dio”: e non intende raccontarne la ragione a Ramat-Lechi. Non vuole parlare del suo amore per Maria di Magdala, né della sua fede in Yoshua. Prova a fuggire, invano; mentisce a Misaele, tentando di liberarsene, ma non viene creduto: l’antico compagno di ventura conosce i suoi inganni, e lo persuade a evitare qualsiasi sortita: così discutendo, avanzano per la strada. Interessante rilevare come la menzogna di Giuda, in questa fattispecie, sia del tipo della fabulazione: spergiura di aver necessità di servirsi di un locale nella Betsoa e Misaele immediatamente (servendosi della memoria dei passati atti di Giuda, che dobbiamo dunque accettare come uomo dal passato di bugiardo, per le testimonianze dei personaggi, e di assassino, per sua stessa ammissione) gli impedisce di recarvisi perché riconosce il tentato inganno. Giuda inventa totaliter, e in malafede: Misaele conosce le tecniche d’inganno del discepolo di Yoshua, e gli impedisce di attuare il suo progetto.
Scendono nei sotterranei del Tempio; Giuda scorge armi accatastate, deducendone che il Tempio potrà, nel caso di un assedio della città, trasformarsi in fortezza. Si presenta Ramat-Lechi, domandando il motivo del fallimento della missione. Giuda decide di mentire: sostiene d’essere “vissuto in un’illusione”. In questa circostanza, la menzogna è difensiva, e tuttavia tesa ad ottenere un vantaggio personale del mentitore: la verità è che Giuda era innamorato di Maria di Magdala, e soggiogato dalla predicazione di Yoshua, ma mai aveva perduto il contatto con la realtà, tenendosi sempre consapevole di quel che avveniva. Dunque, in questo caso potremmo dire che appare una alterazione della verità, per via metaforica. Questa menzogna sembra sortire effetti differenti: almeno, rende interdetto Ramat-Lechi, che pare propenso a credere che Giuda sia stato incantato da una donna, e non dalla volontà o dalle parole di Yoshua, senza tuttavia poterne essere sicuro: per questa ragione, gli chiede se abbia prove che Yoshua sappia dominare la volontà degli uomini. Per via della carenza di prove e di testimoni, Giuda non ottiene credito e viene congedato in fretta. Registriamo dunque l’essenziale ruolo giocato dalla presenza di prove e testimoni per attestare che una affermazione sia vera, pur non essendolo in origine. Passo pericoloso, questo: dimostrazione che una verità si può architettare e costruire o ricostruire.
Giuda ormai teme d’essere ucciso per non aver ottemperato all’incarico, e prova a corrompere Misaele per scoprire chi sia il sicario assoldato per assassinarlo, offrendogli il denaro di Yoshua di cui è tesoriere; ottiene in cambio prima un’informazione utile a sfuggire ad un pericolo – il giorno successivo, all’alba, Yoshua ed i discepoli sarebbero stati arrestati, pertanto gli conveniva sparire – e infine una promessa: se avesse aspettato fino a mezzogiorno, Misaele avrebbe accettato il denaro e gli avrebbe rivelato il nome dell’assassino assoldato per eliminarlo. A questo punto, nella narrazione assistiamo ad un singolare salto temporale: dall’anno 33 ci ritroviamo nel maggio del 1981, a Roma. Giuda cammina per Via della Conciliazione, senza parlare a nessuno: si incunea tra un gruppo di suore e si avvicina alle transenne, attendendo l’arrivo dell’automobile del Papa. Intende sparargli: è titubante, infine si decide e lo colpisce all’addome, tre volte. La folla ondeggia impazzita, l’assassino cerca invano di sfuggire alla cattura: si dichiara palestinese e comunista, e viene incarcerato. Dichiarazione d’identità a metà strada tra verità e menzogna: è d’origine palestinese, certamente non abbiamo elementi per poter dire che sia comunista. Giuda si dichiara appartenente a tutti i popoli e a tutte le cause che lottano per la libertà: può assumere qualunque nazionalità. Dunque, a seconda dei casi, come vedremo, negli interrogatori a turno altererà la verità o inventerà totaliter: se pronuncerà la verità non verrà creduto.
La narrazione torna nuovamente all’anno 33, durante l’Ultima Cena. Le compagne dei discepoli continuano a dubitare di Yoshua, mentre i loro mariti discutono della futura gerarchia del Regno di Dio, discutendo la sostanza del futuro premio. Yoshua promette una grande ricompensa futura: dopo aver spezzato il pane e versato il vino, annuncia ai presenti che tra di loro c’è “un diavolo, ed è l’unico che non mi tradirà quando sarò ritornato al fianco del Padre”. Sgomento tra i discepoli: Pietro giura che non potrà mai tradire; Yoshua gli assicura che presto tradirà. La narrazione ripiomba nel 1981: Giuda, in galera, sta rivivendo i momenti dell’Ultima Cena. Viene sottoposto ad un interrogatorio: mentisce più volte, alterando e inventando, al solito, sostenendo dapprima di essere armeno, quindi palestinese, infine garantisce, stavolta veritiero, che: “Io non ho un nome, perché non sono una sola persona”. Giuda non viene creduto per due ragioni: la prima è che il suo racconto sembra non umano e dunque irreale, pertanto non accettabile; la seconda, meno importante, è che fino a quel punto ha alterato e inventato la verità, perdendo largamente credibilità. La polizia scopre che i suoi documenti corrispondono a quelli di un cittadino turco: il documento tuttavia viene riconosciuto come falso da un funzionario dell’ambasciata turca, e Giuda viene identificato come l’ex ergastolano Ali Agca, ventitreenne, evaso dopo una condanna per omicidio e fuggito in Germania. Sembra essere “l’incarnazione del male”. La narrazione torna ad alternare passato e presente: Yoshua si risveglia dopo aver sognato nuovamente la crocifissione dello zio Cleofas, vista da bambino, e l’immagine del tradimento della sua fidanzata con il fratellastro; aggredito dalle guardie del Tempio, viene arrestato assieme ai discepoli. Simone rifiuta di riconoscerlo, rinnegandolo per tre volte, esattamente come Yoshua aveva profetizzato. La natura di questa menzogna non è della dissimulazione o dell’alterazione, ma dell’antegoria. Pietro mentisce “per contrarium”, e in malafede, per ribadire una delle categorie di Piovene: per difendere la sua esistenza, rinnega la sua fede e un rapporto che può definirsi di fraternità;un’antegoria, giustificata dalla tutela della propria permanenza in vita. Stessa interpretazione verrà offerta ad un passo analogo presente ne La gloria di Giuseppe Berto.
Poco dopo, Ramat-Lechi è a colloquio con Caifa: discutono del passato di Yoshua, figlio spurio del mercenario greco Pantera, e del mancato tradimento di Giuda; decidono di consegnare i discepoli ad Erode e Yoshua ai Romani, poiché complotta contro il loro Impero annunciando un futuro Regno d’Israele. Yoshua viene comunque sottoposto ad un interrogatorio e giudicato sulla base delle sue stesse affermazioni, testimoniate da tre uomini e riconosciute come proprie dal Rabbi. Caifa lo condanna ad essere lapidato per bestemmia ma lo spedisce da Pilato per ragioni di equilibrio politico. Così, Yoshua viene tradotto nella sala delle udienze, al cospetto del funzionario Romano, accompagnato da un breve messaggio di Caifa che domanda la liberazione del brigante Bar-Abba, in occasione delle feste, e non di quell’impostore che complotta alle spalle dell’Impero.
Pilato interroga Yoshua: ascolta, così, che chi ha di fronte è un uomo nato per “rendere testimonianza alla verità” e annunciare il “Regno del Padre, nei cieli”: tuttavia, quando Pilato chiede cosa sia la verità, Yoshua non risponde. Renitenza? Pilato decide di condannarlo, pur consapevole che la condanna nasca dal rischio di uno scandalo politico: può forse far giungere notizia a Roma d’aver assolto un pretendente al trono di Palestina?
Si appresta il momento della crocifissione. Giuda ha pagato Misaele, scoprendo che è proprio Bar-Abba, il bandito liberato, ad esser stato incaricato di ucciderlo: assiste alla crocifissione di Yoshua, andandosene solamente quando sente il suo maestro invocare il Dio che lo ha abbandonato. Passano i secoli: Giuda è un diavolo, ha attraversato la storia incarnandosi di continuo in nuovi corpi, compiendo sempre nuovi omicidi. Si chiama, adesso, Hamit Gorank; si trova a Francoforte: ritrova Ramat-Lechi, per il quale ha appena compiuto un assassinio, e viene nascosto dal suo patrono in un Istituto di Ricerche teologiche, dove viene sottoposto ad un trattamento per un rafforzamento della personalità, prima di attentare alla vita del Papa. Mutare nome, o mutare identità, serve a garantire sempre nuove incarnazioni del mentitore. Interessante l’ennesima attestazione della valenza positiva, in questi frangenti, dei documenti falsi. A questo proposito, si veda l’analisi di “Divertimento 1889” di Guido Morselli.
Il professore Reise si rivolge a Giuda chiamandolo per nome, e sostenendo che gli sia stata riservata la più grande ingiustizia toccata ad un essere vivente: la narrazione si spezza, Giuda torna a ricordare, ricostruendo quanto gli era avvenuto nei primi giorni dell’arrivo a Cafarnao, tra i seguaci del Rabbi. Si informa su di lui, scopre che predica ogni sabato e che da sempre è chiamato Ha-Nozri, lo Straniero. Accostandosi a Yoshua, Giuda sente che in realtà egli è un grande innovatore rifiutato dai tradizionalisti: e che proprio gli stessi tradizionalisti lo hanno armato per assassinarlo. Conosce Pietro, incontra Maria di Magdala; si offre come discepolo a Yoshua, e, provando vergogna, ad un tratto, ammette al Rabbi di essere un assassino. Proprio per questa ragione Yoshua lo accetta tra i suoi discepoli.
Giuda si innamora, poco a poco, di Maria di Magdala e sente di credere al Maestro: per molti mesi, rifiuta l’idea di ucciderlo, fin quando, irritato per esser stato rifiutato non come amante, ma come sposo da Maria di Magdala, fedele nello spirito a Yoshua, se ne ingelosisce e sente il desiderio di assassinarlo e un giorno, dopo ch’egli ha discusso coi farisei e si è ritirato su una montagna, parte alla sua ricerca per compiere la sua missione. Si ritrovano in uno spiazzo isolato, al riparo dagli sguardi di chiunque. Giuda mente ancora una volta, affermando d’esser lì per parlare: Yoshua lo smaschera facilmente, ma non è affatto preoccupato. Si avviano a cercare riparo per una notte: nella prima grotta, Giuda scopre un lupo e, dopo esser stato aggredito, lo uccide. Quella notte, Giuda chiede a Yoshua perché rifiuti d’avere una donna: il Rabbi risponde che non ha nulla da offrirle, perché il suo Regno è nei Cieli. E profetizza che il futuro di Giuda sarà lungo e tortuoso, a differenza del suo. Yoshua è ancora una volta testimone della verità. Ennesimo salto temporale.
Hamit fa confusione tra l’identità e la memoria di Giuda e la “sua”: continua a ricordare. Giuda torna a Cafarnao, tre mesi dopo la morte di Yoshua, e, ucciso Bar-Abba, decide di andare a incontrare gli ex condiscepoli. Probabilmente desidera vedere Maria per capire se tra loro è cambiato qualcosa: tuttavia, si sofferma tra gli antichi compagni per ascoltare i loro discorsi. Meditano di continuare la predicazione di Yoshua: e, alcuni tra loro, iniziano a raccontare d’averlo visto dopo la sua morte.
Giuda trova che siano menzogne: non si trattiene, e sostiene che stiano tradendo Yoshua, dicendo: “Io non credo che Yoshua abbia voluto fondare una nuova religione, e che ci abbia scelti perché un giorno diventassimo i sacerdoti e dottori della sua Legge. È vero esattamente il contrario: lui ci ha insegnato che è più importante volere bene agli uomini che a Dio, e questa è una bestemmia per qualsiasi legge, di qualsiasi religione. [...] Se non ci sono i sacerdoti e se non c’è il Tempio, la religione siamo noi stessi! Perché volete tradirlo, facendo cose che lui non approverebbe, e facendole nel suo nome?”
Gli apostoli accusano Giuda d’aver tradito Yoshua, vendendolo alle guardie del Tempio: così, infastidito dalle loro false argomentazioni, se ne va. Gli apostoli sostengono una posizione difficile: non è esatto, a rigor di narrazione, che in questo libro Giuda abbia “venduto” Yoshua. Giuda ha salvato la sua stessa esistenza senza avvertire del pericolo i compagni: col denaro ha scoperto l’identità di chi voleva ucciderlo. Pertanto, pur ammettendo che gli ex condiscepoli stiano provando a divinare o ad indovinare, potremmo pur riconoscere che il loro è un tentativo di alterazione della verità sostenuto da una potenziale menzogna in malafede: ossia, con intento aggressivo.
Giuda testimonia la verità di Yoshua, come Yoshua aveva predetto: tuttavia non viene creduto e viene attaccato. A questo punto, l’alterazione(o la deformazione) della verità diviene duplice: gli apostoli dapprima distorcono il senso delle parole di Yoshua per fini personali, e in secondo luogo si scagliano con false accuse contro Giuda.
Ultimo balzo cronologico. 1983, Roma. Ali attende il Papa, scampato all’attentato e deciso a perdonarlo. Agca non vuole incontrarlo: accetta solo in cambio di denaro e di favori da parte delle guardie. Al pontefice, dice d’aver tentato di ucciderlo perché: “Io sono nato per uccidere! Sono un diavolo!(…)Tu dovevi morire perché finisse la più grande menzogna di ogni epoca: la religione di Yoshua Ha-Nozri! Y. Non era un fondatore di religioni(..)era il distruttore della religione di allora”. Giuda non mentisce al Papa: d’un tratto, sente di poter nuovamente testimoniare la verità. Yoshua lo aveva trattato come un fratello e lui era divenuto suo discepolo, evitando di ucciderlo. Yoshua voleva ristabilire un rapporto diretto tra Dio e uomini: i suoi seguaci avevano totalmente frainteso il senso del suo messaggio. Giuda doveva vendicare il tradimento delle idee di Yoshua. Il Papa è perplesso: Giuda ricorda che Gesù gli aveva detto d’essere un diavolo che, unico tra tutti, non lo avrebbe tradito. I due si congedano: una volta lontano il Pontefice, Giuda ritorna a mentire alle guardie per ottenere favori e denaro, con un’ennesima, ultima fabulazione volta a conseguire un vantaggio personale.
Splendido libro,profondo, tormentato. Una lettura imperdibile.
EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE
Sebastiano Vassalli (Genova, 1941-Casale Monferrato, 2015), poeta e romanziere italiano.
Sebastiano Vassalli, “La notte del lupo”, Baldini & Castoldi, Milano, 1998.
Gianfranco Franchi, agosto 2002.
Prima pubblicazione: mia tesi di laurea. A ruota, ciao.com e lankelot.