La nazione ceca

La nazione cèca Book Cover La nazione cèca
Giani Stuparich
Giovine Europa
1916

Quando l'allora ventiquattrenne letterato giuliano Giani Stuparich [1891-1961] pubblicava “La nazione czeca”, era, come cittadino triestino, un cittadino austriaco, compatriota dei cechi e degli slovacchi: era un cittadino e un intellettuale triestino che aveva ideato e composto questo saggetto in un tempo in cui “prevedere il conflitto odierno era compito soltanto dei diplomatici, e prepararlo dei militari”, rivendicava con orgoglio nella premessa. Stuparich era un intellettuale che confidava si potesse dare vita, nel contesto austroungarico e in prospettiva in quello europeo, a una famiglia di nazioni confederate, ognuna espressione d'uno Stato democratico. Naturalmente auspicava che non servisse una guerra per guadagnare questo equilibrio, ma che bastasse la politica – l'impegno politico, la cultura, l'intelligenza.

Trovandosi a interpretare la visione di uno dei padri della patria ceca, lo storico e politico moravo František Palacký [1798-1876], Stuparich riteneva infatti si potessero conciliare posizioni ben distanti come queste:

“In verità, se lo Stato austriaco non esistesse già da tempo, dovremmo, nell'interesse dell'Europa, nell'interesse dell'umanità intera, lavorare a costituirlo”: “Prima che l'Austria fosse, noi eravamo, e quando l'Austria più non sarà, noi saremo ancora”. La ragione, spiegava nella prefazione alla seconda edizione aumentata [Ricciardi, Napoli, 1922; p. VIII], era questa: “Se l'azione dei Cechi avanti la guerra fu diretta a conservare l'Austria trasformandola, e la loro azione durante la guerra fu volta a distruggere l'Austria – nessuna contraddizione. Si tratta di due Austrie diverse; la prima era l'Austria rinnovabile, l'Austria dei popoli, la seconda fu l'Austria rigida, dell'imperatore; la prima avrebbe permesso lo sviluppo dei Cechi in coordinazione, o libera concorrenza, con le altre nazionalità, la seconda perpetuava la loro schiavitù minacciandola più che mai; per la prima i Cechi potevano lavorare, la seconda dovevano distruggerla”.

Insomma: il disegno originario, e questo discorso non doveva valere soltanto per i cechi, ovviamente, era trasformare progressivamente l'impero in una confederazione di popoli autonomi, idealmente “legati da interessi comuni, liberi di sé e rispettosi degli altri” [p. 93]: e questo non doveva avvenire tramite una guerra – il disastro non era affatto inevitabile. Sarebbe diventato necessario, che è molto diverso. A capirlo e a spiegarlo a dovere non poteva che essere un triestino: Trieste, allora, rappresentava l'avanguardia dello spirito italiano, “capace di trasformare e unificare la cultura e la vita d'Europa”, come avrebbe spiegato un personaggio d'un romanzo di Stuparich qualche anno più tardi. Così deve tornare a essere: così io credo stia già succedendo. Complice, forse, una storia unica, in Italia.

Scandagliare e sfogliare “La nazione cèca”, a novant'anni di distanza dalla sua seconda edizione, non è un esercizio sterile, e non è un esercizio necessariamente riservato agli storici, o esclusivamente ai cultori dell'opera dell'artista triestino. Si studia questo libro per ritrovare intatto il pensiero modernissimo, nazionalista e internazionalista a un tempo, di Stuparich: si torna su queste pagine per comprendere cosa significhi poter prendere le distanze dalla “megalomania nazionalista”, e al contempo cosa implichi prendere coscienza d'essere una nazione. In altre parole: si torna su questo libro per comprendere cosa significhi la parola “equilibrio”. Si torna su questo libro per domandarsi quanto può essere simile, e quanto dovrebbe essere simile, l'Europa che verrà all'Austria che è caduta nella Grande Guerra: meglio, all'Austria che prosperava sino al baratro omicida della Grande Guerra, consentendo a tanti popoli di coesistere e di prosperare con discreta tolleranza e con intelligente talento assimilativo – evidentemente non bastevoli, sia chiaro. Si torna su questo libro per capire quando e come e perché l'Austria ha sbagliato, e non soltanto con i cechi e con gli slovacchi: ma con i triestini – va da sé – e gli sloveni, e via dicendo.

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Sosteneva il giovane Giani Stuparich che la nazione ceca fosse destinata a rovesciare la germanizzazione e il centralismo assolutista: e che era scritto che dovesse diventare una nazione democratica, perché attingeva le sue migliori energie direttamente dalla terra, dal popolo delle campagne, depositario dell'antica tradizione ussita. Non era, come altre nazioni che stavano venendo man mano alla luce nel ricco e potente impero austroungarico, una “nazione senza storia”: era una nazione antica, sconfitta da diversi secoli e assoggettata dal vicino germanico, tornata ad avere coscienza di sé, e letteratura nuova - come si conviene - in coincidenza con la formazione d'una nuova classe borghese.

Sosteneva Stuparich che l'ideale che aveva illuminato e andava illuminando il cammino al popolo céco non era “l'imperialismo d'una nazione, ma l'umanità nella nazione […]: mantenere e sviluppare la propria nazionalità è un dovere morale e una legge interiore che nessun ordine positivo può abolire” [p. 87].

Sosteneva Giani Stuparich che la nazione ceca si fosse risvegliata: fino a diventare uno dei pericoli maggiori per l'impero austroungarico, nell'era dei nazionalismo. In Austria, infatti, “le nazioni non erano riconosciute come enti, come organismi a sé. Tutte le statistiche ufficiali, se eccettuiamo quella della lingua d'uso – ed anche questa malsicura e falsata – non tenevano conto della nazionalità” [p. 42]; che invece era un criterio di prepotente importanza.

Già: Cechi e Slovacchi: intendiamoci bene. Cechi, vale a dire gli abitanti slavi delle antiche provincie austriache: Boemia, mezza Moravia e Slesia d'Opava. Slovacchi, vale a dire gli abitanti slavi dei comitati settentrionali ungheresi: Moravia Orientale, Slesia di Těšin, una parte dei Carpazi. Popoli fratelli.

Boemia, Moravia e Slesia, tra Diciassettesimo e Diciannovesimo secolo, “sembravano formare un mare unico con le acque del nord e del sud, ossia: vita sociale, coltura e politica erano tedesche. Il céco era lingua di sguatteri e di servi. Ma l'elemento intellettuale, a guardar meglio, non era del tutto omogeneo: sotto la crosta tedesca scorreva molto sangue slavo” [p. 7]. E fu proprio questa nuova generazione di céchi borghesi ad animare il rinascimento ceco, ci insegnava il giovane, piccolo maestro Giani Stuparich. E assieme si prodigava a restituirci uno spaccato storico, culturale, politico ed economico d'una nazione emergente che avremmo imparato ad amare e a rispettare, gemella nella sorte della Giulia almeno per un buon tratto. Chissà, come in futuro, forse.

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Il testo, nell'edizione del 1922 che ho potuto consultare, è strutturato in due parti. Parte Prima: “Rinascimento – Lotta Politica – Ricostruzione Nazionale”. Parte Seconda: “Un Uomo – Nel Conflitto – Liberazione”. È completo di una buona bibliografia d'antan e di una seducente cartina dell'allora neonata Repubblica Cecoslovacca. Terza e quarta di copertina sono dedicate a raccontare le pubblicazioni dell'Istituto per l'Europa Orientale in Roma, stampate da Riccardo Ricciardi editore in Napoli. Non mancava, nella sezione “letteratura-arte-filosofia”, un favoloso “Mzyri ed altri poemetti” di Lermontov. Altra epoca: altra civiltà. Altra intelligenza.

EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE

Giani Stuparich (Triest, Austria, 1891 – Roma, 1961), giornalista e scrittore italiano, di madre triestina (Gisella Gentili) e padre di Lussino (Marco Stuparich). Iscritto all’Università di Praga, si trasferì assieme a Slataper all’Università di Firenze. Si laureò in Letteratura Italiana con una tesi su Machiavelli. Esordì pubblicando “Colloqui con mio fratello” nel 1925.

Giani Stuparich, “La nazione cèca”, Riccardo Ricciardi Editore, Napoli, 1922. Prefazione alla seconda edizione di Giani Stuparich.

Prima edizione: “Giovine Europa”, 1916.

Approfondimento in rete: Wikipedia

Gianfranco Franchi, agosto 2011.

Prima pubblicazione: Lankelot.

Stuparich era un intellettuale che confidava si potesse dare vita, nel contesto austroungarico e in prospettiva in quello europeo, a una famiglia di nazioni confederate, ognuna espressione d’uno Stato democratico