Forse il Tibet rischia di diventare una leggenda, proprio come uno dei suoi simboli, il misterioso yeti; forse i tibetani rischiano l’estinzione, proprio come uno dei loro animali più rappresentativi, il panda; forse questo Dalai Lama sarà l’ultimo a venire riconosciuto come “reincarnato”, il prossimo magari sarà “clandestinamente eletto” dai tibetani in esilio, sparsi in India, in Nepal, negli USA, in Svizzera, a Roma, e sarà più un leader politico che un leader religioso o spirituale. Forse il sacrificio di circa un milione di tibetani, vittima di un genocidio per mano cinese, è stato vano: perché il cinema non ha saputo eternarli con tutta una serie di film, perché sono mancati pittori o musicisti di genio, perché il Dragone ha negato, oscurato, insabbiato tutte le sue malefatte, abominevoli e raccapriccianti più ancora perché minimizzate o giustificate in nome di qualche orrida ideologia materialista. Forse il Tibet è perduto davvero e a noi rimarranno libri come Segreto Tibet di Maraini, qualche segreto più o meno stropicciato su Agartha, qualche terribile senso di colpa per non aver più avuto un uomo di intelligence come Giuseppe Tucci a rappresentarci.
Forse. A dar retta al calcio, badate bene, niente è perduto.
Con buona pace dell’impero pechinese, un miliardo e trecento milioni di abitanti, gli stupefacenti tibetani della diaspora hanno saputo tirare su, dal niente e senza paura degli infaticabili e imprevedibili servizi segreti del Dragone, una squadra di pallone. Una squadra che non può essere riconosciuta dalla FIFA o dalla AFC, l’Asian Football Confederation, e tuttavia qualche partita va a giocarla, qua e là. Hanno anche un sito internet (questo, spesso in manuntenzione, abbiate pazienza) e una discreta pagina ospitata da CONIFA (questa), la Confederation of Independent Football Associations. Oggi vi racconterò la storia della prima partita di calcio della nazionale tibetana: una storia di utopie, di chimere, di sogni, di patriottismo e di buoni sentimenti.
Qualche mese fa, su “Football Club Geopolitics”, Kévin Veyssière ha raccontato [qui] l’incredibile storia dell’équipe de football du Tibet, emozionando tanti sportivi con la cronaca della sfida Tibet-Groenlandia, giocata il 30 giugno 2001. Bel lavoro, monsieur Veyssière: ti sei dimenticato un pezzo di storia, però.
Bologna, 12 giugno 1999. Stadio Dall’Ara: su iniziativa di Giovanni Lindo Ferretti, ex leader dei CCCP e dei CSI, nell’ambito di una manifestazione chiamata “Operazione Tibet“, la Dinamo Rock – cioè la Nazionale Italiana Football Rock Band – sfida la nazionale tibetana. Rockol, annunciando l’evento, ribadiva che si trattava di un’iniziativa di sostegno concreto alla causa del popolo tibetano, “il cui territorio è stato occupato nel ‘50 dalle truppe governative cinesi e il cui capo spirituale, il Dalai Lama, è costretto a vivere profugo – dal 1959 – in India. L’iniziativa si concretizzerà in particolare in una raccolta di fondi per la costruzione di un villaggio a Chauntra, nel Nord dell’India, destinato a raccogliere cinquecento bambini profughi del Tibet”.
Oh: quelli di Operazione Tibet parlavano più chiaro ancora. “Ai tibetani vengono negati i diritti fondamentali, vengono perseguitati e torturati, vivono in condizioni di sussistenza, la loro terra è colonizzata da cinesi che il governo invasore sovvenziona pur di ridurre i tibetani a minoranza”. Tutto giusto.
“Repubblica“, il 13 giugno, eternava così la partita:
«Jovanotti potrà raccontare un giorno di aver incassato la prima rete nella storia della nazionale di calcio del Tibet, che ieri pomeriggio è stata tenuta a battesimo dalla Dinamo Rock, cioè la squadra dei duri e puri della musica italiana. All’happening, cominciato con una esibizione di Poggipollini (chitarrista di Ligabue) e dei Clandestino (il vecchio gruppo dello stesso Ligabue, riunitosi per l’occasione), hanno assistito solo un migliaio di persone: sarà solo una manciata di milioni, dunque, ad essere devoluta per la costruzione di un villaggio di profughi tibetani in India. L’idea di una nazionale tibetana di kangpol (così si chiama il calcio nella lingua del Dalai Lama) è venuta al leader dei CSI, Giovanni Lindo Ferretti, nella speranza “che la sua semplice esistenza possa consolare e ridare vigore e fiducia al suo popolo”. La proposta dei rocker italiani è stata raccolta e realizzata dalla sorella del Dalai Lama, Jetsun Pema, presente ieri in tribuna insieme a molti altri monaci nei loro saii arancione-granata. In campo per la Dinamo Rock sono scesi addirittura in 36: oltre a Jovanotti, portiere improvvisato, i più famosi erano Ligabue, Max Pezzali, Piero Pelù (numero 00), Cisco dei Modena City Ramblers ma c’erano anche “rinforzi” speciali come Susy Blady e Patrizio Roversi. Ha vinto il Tibet 5-4, per quel che vale. Entusiasti e commossi i tibetani, che si fotografavano tra di loro in panchina prima di entrare in campo e che avevano quasi paura a pestare l’ erba del Dall’Ara, abituati a campi di sassi e polvere. Ad ogni contrasto, un inchino all’avversario: “manchiamo un po’ di cattiveria”, dice il ct».
Ewan Morgan di “Football Paradise“, raccontando la storia della nazionale tibetana, mischia un po’ le carte sui fatti di Bologna: sentite qua, scrive tutto tranquillo che la sorella del Dalai Lama era il c.t. del Tibet e giura che la partita sia finita 5-3 per il Tibet, altro che 5-4. “Kasur Jetsun Pema (the Dalai Lama’s sister) helped organize and select players in the Tibetan settlement of Bylakuppe in India. This team travelled to Bologna, Italy and played an exhibition match against a team made up of singers and band members. The Tibetans emerged 5-3 victors, but more importantly this match laid the foundations for a Tibetan national team who by 2001 would have played their first international match”.
Stando alle cronache, pacificamente si può sintetizzare, tutto è iniziato a Bologna; il Tibet ha battuto Ligabue, Jovanotti e i Litfiba di fronte a qualche migliaio di aficionado della causa, tingendo di grottesco e di tricolore il suo esordio internazionale. Era il 1999.
Due anni prima, nel 1997, un giovane universitario vichingo, Michael Nybrandt, aveva sognato di allenare una squadra nazionale di calcio tibetana. Vale la pena riferire che quella notte dormiva in un monastero tibetano e che aveva dedicato parecchi anni allo studio della questione tibetana (ed era anzi furioso coi cinesi per la loro malvagità, la loro crudeltà e il loro cinismo). A quel punto, considerandosi un predestinato, aveva deciso di trasformare in realtà la sua visione onirica; dopo aver tanto fantasticato coi suoi amici, tra un esame e l’altro, ad inizio anni Zero s’era sentito pronto a raccontare l’accaduto ai rappresentanti del Governo del Tibet in esilio; loro, reduci dalle fatiche felsinee e dagli estenuanti dibattiti con Giovanni Lindo Ferretti, non potevano non essere concilianti. Conciliarono: venne fondata la Tibetan National Football Association, presidente l’appassionata Kasur Jetsun Pema, già selezionatrice a Bologna (così dicono gli inglesi: sarà vero?).
A questo punto cosa mancava? Mancava trovare contro chi giocare. La FIFA è spietata; le squadre riconosciute dalla FIFA non possono giocare contro le squadre dei popoli sconfitti e senza terra, perché sono considerate formazioni eretiche. Politica? Politica. Nybrandt aveva un debole per la causa della Groenlandia, la considerava spiritualmente vicina a quella tibetana. Non era forse ora che la Groenlandia fosse indipendente, proprio come lo sconfinato Tibet? La federazione groenlandese, altrettanto eretica per la FIFA, apprezzò. Era una buona opportunità per raccontare al mondo che non erano soltanto i tibetani a dover lottare per la loro indipendenza; e poi, come osserva correttamente Ewan Morgan, c’è qualcosa di poetico se si scontrano gli uomini dell’Himalaya contro quelli delle isole dell’Artico. Poetico e inedito, direi (a meno che, in qualche capitolo forse apocrifo del Kalevala…).
La Cina non gradì. Il visionario giovane vichingo venne convocato dall’ambasciata cinese per un prevedibile cazziatone, tuttavia, nonostante le comprensibili paranoie e le angosce dovute alla possibile rappresaglia, non volle sentire ragioni. Irremovibile. Altrettanto irremovibile fu la Danimarca, minacciata di embargo o giù di lì. E così, il 30 giugno 2001, di fronte a 5mila aficionado scandinavi, si giocò Groenlandia-Tibet. 4-1, i monaci tibetani mai in partita, forse confusi dalla bellezza delle spettatrici, o dal profumo di pesce; fu la prima di una serie di partite internazionali. La prima rete la segna un maestro di scuola, Lobsang Norbu. La storia è diventata prima un documentario, “The Forbidden Team“, cioè “La Squadra Proibita”, poi una graphic novel, “Dreams in Thin Air”, “Rêves sur le toit du monde” (se ne parla, ad esempio, qui, su France24): autore, l’improvvisato, visionario football manager danese, il bizzarro Michael Magnus Nybrandt. E voi, volendo, adesso potete anche andare a comprarvi la maglietta, ad esempio qui, su Copa Football. Comprarla è buon karma, penso. Almeno: il Dalai approva, stando alla Central Tibetan Administration: sentite qua come ha benedetto la nazionale, a Dharamshala. “Tibetan culture of cultivating compassion is something marvellous. Even in our daily prayers, we wish for the happiness of entire sentient beings; that is something very unique and relevant with modern science. We should take pride in being a Tibetan. So wherever you go, it is very important that you uphold the honour and dignity of Tibet and Tibetan people. Most importantly, carry our values and culture with you as you go”.
Non vi rimane che scandagliare la pagina di wikipedia per mandare a memoria tutte le statistiche di questa nazionale giovane e ribelle, espressione ultima e quasi miracolosa di una nazione e di una cultura antichissima: amarla e sostenerla significherà protestare contro un impero così gigantesco che non potrà che essere sconfitto. Quella sarà l’ultima, potente e solare magia tibetana. È scritto.
Gianfranco Franchi, gennaio 2021.
Gianicolo, Roma. Aspettando Gesar di Ling.
Altre letture in portofranco: “Viaggio segreto a Lhasa” di McGovern [con bibliografia].