Mursia
2011
9788842538226
1888. Nell'oscura rivista studentesca «Science Schools Journals» della Scuola Normale di Scienze di South Kensington vengono pubblicati tre frammenti di un romanzo di fantascienza: “The Chronic Argonauts”, ossia “Gli Argonauti di Cronos”. Sette anni più tardi, quell'oscura rivista inizia a diventare leggendaria: ha pubblicato i frammenti prodromici alla creazione de “La macchina del tempo”. Autore, il futuro professor H.G. Wells.
Renato Oliva, nell'introduzione all'edizione esaminata (Rizzoli, 1975) riferisce che nella prefazione alla raccolta di racconti “The Scientific Romances” (1933), Wells suggeriva una chiave di lettura per “La macchina del tempo”: è “un attacco contro la vanità dell'uomo”, una contestazione della placida e infondata ipotesi secondo cui “L'evoluzione è una forza favorevole all'uomo, che agisce sempre per il meglio dell'umanità” (p. 11). La seconda chiave di lettura, quella più popolare, è l'angoscia per una cristallizzazione delle classi sociali: e d'una loro metamorfosi atroce in specie umane.
Torniamo nella “Macchina del tempo”, allora. Come fosse la prima volta. Con l'innocenza dei neofiti. Con la curiosità dei bambini. Del bizzarro e franco Viaggiatore del Tempo vediamo, per prima cosa, gli occhi. Sono grigi, e scintillano, vivacissimi; per una volta non contrastano col colore del suo viso, sempre pallido, stavolta rosso di pathos. Quindi, ascoltiamo le sue teorie, scettici e affascinati come i suoi ospiti. È convinto che non esista nessuna differenza tra la quarta dimensione, il tempo, e una qualsiasi delle altre tre; probabilmente ha letto “Flatlandia” di Abbott (1882), e ha capito che nascondeva l'accesso a mondi nuovi. Il Viaggiatore ha inventato una macchina che può muoversi in ogni direzione dello spazio e del tempo, e ha già fatto degli esperimenti. Non ci credete? Il viaggiatore sorride, s'alza, esce dalla stanza, qualche istante più tardi rientra. Ha con sé un piccolo modello, “costruito con molta precisione in avorio e in una materia trasparente come il cristallo, poco più grande di un orologio a pendolo” (p. 41). Quel piccolo modello ha due levette. Una trascina nel futuro, l'altra scivola nel passato. Ecco che, schiacchiata una leva, la macchina scompare. È partita. Difficile che possa tornare.
Il Viaggiatore ne sta costruendo una molto più grande, per sé. “Alcune sue parti erano di nichel, altre d'avorio, altre ancora sembravano ricavate dal cristallo di rocca. La macchina, nei suoi elementi essenziali, doveva essere finita, ma le sue traslucide sbarre a spirale posate sul bianco accanto ad alcuni fogli da disegno erano ancora incomplete; ne presi in mano una per esaminarla meglio: mi parve fatta di quarzo” (p. 46). Nessuno gli crede. Allora dà un appuntamento ai suoi sodali. Ci si vede alle sette, per cena. Nuovi illustri ospiti, giornalisti e intellettuali. Arriva con qualche ritardo, tutto sporco e impolverato, le maniche macchiate di verde; i capelli grigi – forse più grigi di prima – e tante piccole ferite. Non dà spiegazioni, si rifugia a lavarsi. Torna, s'accende un sigaro, invita tutti nel salotto da fumo. “La storia che sentirete è troppo lunga per raccontarla davanti a dei piatti unti”, dice. E lì, con aria pallida e sincera, comincia a raccontare. Il nostro narratore prende appunti. Fedelmente.
Viaggiare nel tempo significa essere spinti in avanti a una velocità disperata, presentendo una catastrofe. A un tratto tutto si fa vago e nebbioso, e l'angoscia si fa euforia isterica. Qualcosa s'intravede, del futuro, e sembra magnifico e seducente. Fermarsi è pericoloso. “Fermarmi voleva dire incuneare me stesso, molecola per molecola, in quel quid su cui mi andavo muovendo; significava porre i miei atomi in intimo contatto con ostacoli che avrebbero provocato una profonda reazione chimica – forse un'esplosione – scaraventando me stesso e il mio apparecchio fuori di ogni possibile dimensione, nell'ignoto” (p. 58). Ma fermarsi deve. Boato. E poi grandine, e un prato, e la macchina rovesciata di fronte a lui. A pochi passi, una statua, l'ombra d'un sorriso sulle labbra, nessuno sguardo. Una sfinge umana. Il Viaggiatore si sente indifeso, impaurito. Torna a bordo della macchina; il quadrante riferisce che siamo nell'anno 802.701. Ma allora li vede. Ecco gli Eloi.
Il primo è esile, alto un metro e venti, una tunica porpora indosso, sandali. È bianchissimo e fragile. Ne arrivano altri. S'assomigliano tutti. Sono gentili, placidi, mansueti. Sorridono e parlano, ma sembrano tortore che vanno tubando. Accolgono il Viaggiatore con una ghirlanda di fiori. Man mano, scopriamo molte cose di loro. Sono vegetariani, ghiotti di frutta. La frutta del futuro è squisita. Abitano in magnifici alloggi, e non sembra debbano lavorare. Il commercio è sparito. Il loro linguaggio è estremamente semplice e sintetico, in pochi giorni si comincia a masticarlo. Sembrano stranamente passivi. Una di loro rischia di affogare, e nessuno muove un dito. Il Viaggiatore si tuffa e la salva. Lei si mostra molto riconoscente.
Si chiama Weena. Ha paura del buio, delle ombre, di tutto quel che è nero. Ha paura di qualcosa che si nasconde e vive sottoterra. Sottoterra, scopre il Viaggiatore, vive un'altra razza umana. Sono estremamente pallidi; hanno occhi enormi, come tutti gli animali notturni; rifiutano la luce del sole. Sembrano freddi, e sono respingenti. Essi sono i Morlocchi. “Pallidi volti privi di mento, enormi occhi senza palpebre, di un colore rosagrigiastro, che mi fissavano smarriti e accecati dalla luce” (p. 104). Il Viaggiatore scopre che i Morlocchi sono nemici mortali degli Eloi. Solidarizza istintivamente con gli Eloi, perché avevano ancora un'apparenza troppo umana “perché la loro degradazione e la loro paura non mi toccassero da vicino” (p. 114). I loro giorni, scrive Wells, trascorrevano quieti e felici come quelli del bestiame al pascolo. Non pensavano alle necessità della vita, e non pensavano alla fine della vita. Esistevano.
Qualcosa non quadra: la Macchina è stata nascosta e il Viaggiatore potrebbe essere costretto a sopravvivere da solo in quel futuro assurdo, in cui l'intelligenza s'è spenta e si vanno consumando i giorni come fossero fili d'erba, e l'umanità s'è fatta nemica di sé stessa, e sembra predestinata al massacro. Per poter fuggire dovrà affrontare i perfidi Morlocchi, e riprendere pieno possesso della sua Macchina. Ha le leve in tasca: senza di quelle, la Macchina è inservibile. Basterà a garantirgli l'incolumità della sua nave, non quella del suo spirito.
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Le differenze di classe sono diventate differenze di specie, nell'incubo apocalittico di Wells. E non sembrano destinate a durare per molto tempo, se vogliamo dare retta a quel che ci dice del futuro più lontano, esplorato accidentalmente mentre fugge dai Morlocchi, dopo averne ammazzato qualcuno. Crostacei e mostruosi tentacoli prendono il nostro posto. Fuggirli ha senso, magari meditando di tornare a esaminarli in futuro, non più indifesi. Il rischio, stando a quello che ci racconta il narratore, è di non tornare affatto. Passano tre anni e del Viaggiatore non c'è più traccia. A dar retta a Borges, è semplicemente stato interiorizzato dalla nostra memoria collettiva. Forse ricorderete quanto scriveva di Wells e dei suoi libri in “Altre Inquisizioni” (1960): questo: “Combattè il comunismo, il nazismo e il cristianesimo, polemizzò (con cortesia e moralmente) con Belloc, narrò il passato, narrò il futuro, registrò vite reali e immaginarie. Della vasta e diversa biblioteca che ci lasciò, niente mi piace più della sua narrazione di alcuni miracoli atroci: La macchina del tempo, L'isola del Dottor Moreau, La storia di Plattner, I primi uomini sulla luna. Sono i primi libri che lessi; forse saranno gli ultimi... Penso che dovranno incorporarsi, come i miti di Teseo o di Assuero, alla memoria generale della specie e che si moltiplicheranno nel suo ambito, oltre i confini della gloria di chi li scrisse, oltre la morte dell'idioma in cui furono scritti”. Così sarà.
EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE
Herbert George Wells (Bromley, Kent 1866 - Londra, 1946), scrittore inglese. Studiò alla Scuola Normale di Scienze di South Kensington. Esordì pubblicando un manuale scolastico di biologia nel 1893. “La macchina del tempo” (1895) fu la sua prima opera di narrativa.
Herbert George Wells, “La macchina del tempo”, BUR, Rizzoli 1975.
Traduzione di Rossana De Michele. Introduzione di Renato Oliva. Include una cronologia della vita e delle opere, giudizi critici e cenni bibliografici.
Prima edizione: “The Time Machine”, 1895.
Adattamento cinematografico: Più d'uno: cfr. WIKI.
Gianfranco Franchi, febbraio 2010.
Prima pubblicazione: Lankelot.