ISBN Edizioni
2010
9788876381683
Seducente rappresaglia all'oltranzismo xenofilo, la collana Novecento Italiano (ISBN Edizioni, Milano) diretta dal professor Guido Davico Bonino, si propone di restituire alla loro sacrosanta centralità opere letterarie del secolo scorso, dimenticate o trascurate dagli editori e dalle ultime generazioni di lettori e scrittori italiani. Si tratta di una linea editoriale necessaria e nient'affatto romantica: va a stuzzicare la curiosità e l'orgoglio dei nostri letterati, scalfito ma non intaccato dalla prepotente presenza di narrativa straniera negli scaffali delle grandi librerie, e dimostra con intelligenza quanta grande cultura italiana potremmo e dovremmo ancora interiorizzare. Le prime uscite sono state spiazzanti e piene di personalità: si va dai racconti sperimentali di un giovanissimo Oreste Del Buono (“Facile da usare”) al divertissement para-futurista del grande Massimo Bontempelli (“La vita intensa”), dalla narrazione unica d'un campo di prigionia inglese ai piedi dell'Himalaya, pieno di nostri ufficiali, nel discreto esordio d'antan di Sergio Antonielli (“Il Campo 29”), ai racconti partenopei d'un allora giovanissimo Domenico Rea (“Gesù, fate luce”). E adesso riscopriamo il secondo romanzo di uno degli ultimi, grandi letterati triestini: Renzo Rosso, morto pochi mesi fa nella Tivoli cara a Carlo Mazzantini, dimenticato dai grandi gruppi editoriali ma non dalla piccola editoria; tutte le sue ultime pubblicazioni, tendenzialmente autobiografiche, erano apparse infatti per la romanissima Azimut di Guido Farneti. Onore al merito.
Originariamente apparso per Feltrinelli nel 1963, nella “Biblioteca di Letteratura” diretta da Giorgio Bassani, “La dura spina” (titolo che omaggia versi di Saba) torna a disposizione a vent'anni esatti dall'ultima edizione (Garzanti, 1989) accompagnato da una notevole postfazione di Anco Marzio Mutterle. 1945. Ermanno Cornelis, pianista sessantenne, uomo pieno di donne, per dirla con Drieu, sta per tornare in Italia, dopo tanti anni passati a Vienna. È alto, asciutto, elegante; parla correttamente tedesco – come tanti triestini dell'epoca, restituiti all'Italia soltanto nel 1918 – e non sa bene cosa aspettarsi, al di là della rovina della città. Vecchi amici e vecchie fiamme ne aveva come a Venezia o a Vienna. Parenti rimasti pochi, e scontrosi. Tira fuori dal portafoglio una vecchia foto del 1908. Ha un sorriso altero e divertito, si sta godendo la villeggiatura a Parenzo. Un'epoca diversa: adesso si sente un sopravvissuto, tutte le volte che qualcosa non va per il verso giusto. È l'età. È la guerra. Sbarca in città. Resiste al richiamo della sua amante viennese, incontra lei. È una giovane allieva di ventitrè anni. Giuliana. Non ha talento, e non è una di quelle bellezze che t'imprigionano. È seducente perché la sua è una maturità acerba. È fresca, estranea ai vizi del tempo. È sensuale perché non si rende conto di saperlo essere. Lei incarna la sua nuova Trieste: è l'ignoto, e l'ignoto è magnifico, tutto a un tratto, ecco che non fa più paura. “Le donne” - le dice - “hanno molto in comune con la musica, inafferrabili, enigmatiche. Dubito che saprei suonare senza avere vicino una donna innamorata, fedele. Che cosa c'è di più poetico, del resto, e di più fedele anche?” (p. 63). E a un tratto non importa più che tornino a cercarlo nel suo letto vecchie e nuove amanti; sogna che sia lei, e lei soltanto, a stargli accanto. È innamorato. E sentite come lo descrive Renzo Rosso, nel momento della prima coscienza: “E prima che i suoi occhi si chiudessero – era stanco ormai, pieno di un greve sonno – egli vide le pareti e i mobili che vi si appoggiavano entrare nel prodigio di quella frase, e prender posto nella sua traumatica sicurezza” (p. 116). Non mancano momenti di incertezza, durante quell'incanto: s'affaccia il pensiero assurdo e triste d'essersi perduto in un eterno falso presente, d'essere diventato il polline di se stesso, d'essere a un passo dal declino. Quel declino, invece, potrà conoscerlo soltanto per le ingiustizie della vita; per le sinistre strategie della famiglia di lei; perché la musica sola riesce a essere estranea alla menzogna, e alla violenza. Questo consola, questo libera, questo solo ti sprigiona.
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Trieste città appare in piena sofferenza. Le truppe titine s'affacciano minacciose al fronte, l'incubo d'un regime comunista angoscia e umilia la città; ci si sente abbandonati da tutti, non si riesce più a intravedere il futuro. “Non è più che una bettola da caserma – dice un'amica del protagonista – tutti che urlano con quelle bandiere, e sentinelle dappertutto”. Più avanti, si descrive quel periodo come “un alto medioevo di violenze”: “distaccamenti stranieri la presidiavano e un altro esercito che vi era entrato vittorioso stava alle sue porte con ira”. Questa davvero era una “dura spina”, per l'artista; questa ferita terribile della sua città, questa paura d'una nuova condanna a diventare straniera, quest'angoscia di poterla vivere e possedere per un attimo ancora, un attimo soltanto, prima che sfuggisse via. Come una ragazzina che ti fa tornare giovane, ma intanto scivola nelle trame tessute dalla madre; e in quelle trame inciampa. Cantava Umberto Saba: “Sanguina il mio cuore / come un cuore qualunque. / La dura spina che m’inflisse amore / la porto ovunque”. Ovunque, e avanti: nel tempo.
EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE
Renzo Rosso (Trieste, 1926 – Tivoli, 2009), scrittore e drammaturgo triestino. Laureato in Filosofia con tesi su Antihegel e Hegel in Kierkegaard, fu dirigente RAI. Esordì pubblicando “L'adescamento” nel 1959.
Renzo Rosso, “La dura spina”, ISBN, 2010. Postfazione e nota biografica di Anco Marzio Mutterle. Collana Novecento Italiano, 7.
Prima edizione: Feltrinelli, 1963; poi Mondadori, 1981; poi Garzanti, 1989.
Gianfranco Franchi, febbraio 2010.
Prima pubblicazione: Lankelot.
Originariamente apparso per Feltrinelli nel 1963, nella “Biblioteca di Letteratura” diretta da Giorgio Bassani, “La dura spina” (titolo che omaggia versi di Saba) torna a disposizione a vent’anni esatti dall’ultima edizione (Garzanti, 1989) accompagnato da una notevole postfazione di Anco Marzio Mutterle