Piano B Edizioni
2010
9788896665268
Il dandy padre della “Ballata del Carcere di Reading” sosteneva che una mappa del mondo che non comprende Utopia non è degna nemmeno di uno sguardo, perché Utopia è l'unico paese al quale l'umanità approda. E da sempre, quando l'umanità raggiunge Utopia, allora si guarda intorno e si rimette in viaggio, perché capisce che può raggiungere nuove e più grandi Utopie. Interiorizzati Godwin e Kropotkin, Wilde sosteneva che il socialismo poteva sollevarci dalla necessità di vivere per gli altri: ma questo soltanto se avessimo imparato a coniugarlo a dovere con l'individualismo, evitando qualsiasi equivoco autoritario. Lo scrittore irlandese era convinto che per liberarci dal male avremmo dovuto ripristinare l'antica fede nella centralità dell'essere, non dell'avere, restituendo vitalità al messaggio di Cristo: «sii te stesso». Wilde pensava che lo Stato doveva essere qualcosa di molto diverso: «Un'associazione volontaria a cui spetterà l'organizzazione del lavoro, la produzione e la distribuzione dei beni necessari». In altre parole: secondo l'artista, allo Stato doveva andare il compito di fare ciò che è utile, e all'individuo ciò che è bello. Prospettiva niente male.
Secondo Wilde era fondamentale che un artista si isolasse, per vivere «al riparo del muro» e concentrarsi sulla realizzazione della propria perfezione. La società doveva essere rifondata con l'obbiettivo di far svanire la povertà: perché l'altruismo è una perdita di tempo, il socialismo la soluzione plausibile, e in ogni caso è «immorale utilizzare la proprietà privata al fine di alleviare gli orribili danni che derivano dall'istituzione della proprietà privata. È immorale e ingiusto». Tutto questo si può ritrovare in un suo appassionato saggio del 1891, “L'anima dell'uomo sotto il socialismo”, originariamente apparso sulla rivista “The Fortnightly Review” del febbraio 1891, oggi parte integrante della solare antologia pop “La disciplina del Dandy” (Piano B, 132 pp., € 11), un libro pubblicato per ricordarci che «vivere è la cosa più rara del mondo. La maggior parte della gente esiste, ecco tutto». Messaggio più politico che estetico, va detto, in questo periodo. Degno d'essere interiorizzato a oltranza, di circolare dappertutto.
“La disciplina del dandy” include altri due saggi di grande interesse: il primo, “Impressioni dall'America”, apparve postumo nel 1921. Si tratta di una serie di appunti che servirono come pezza d'appoggio per delle conferenze di Wilde, tra Irlanda e Inghilterra, post prima esperienza statunitense. Un'esperienza positiva, al di là di qualche stravaganza, perché Wilde considerava gli States di allora un luogo in grado di insegnarci «la bellezza della parola emancipazione e il valore della libertà». Il gran dandy osservava, in prima battuta, che la gente aveva «un'aria di comfort», perché sembrava sempre vestita comoda; quindi, che il ritmo della vita (già allora) era troppo frenetico; infine, che l'America sembrava incredibilmente rumorosa e chiassosa. Wilde apprezzava la tecnologia e l'ingegno del popolo americano, si dichiara impressionato dalle «smisurate dimensioni di ogni cosa». Osservava poi una cosa interessante, dal punto di vista linguistico: vale a dire che quelli che in patria consideravano «americanismi» altro non erano se non vecchie espressioni inglesi rimaste vive nelle colonie, forse perché «è nelle colonie, e non nella madrepatria, che la vecchia vita del paese esiste veramente». Oltre al vecchio puritanesimo inglese, Wilde scoprì qualche forma di vita al limite del grottesco, nel west («la mortalità dei pianisti in certi saloon è straordinaria») - ma non la giudicò con ferocia, piuttosto con una sorta di divertita incredulità.
Veniamo al secondo saggio interessante. Si tratta del famigerato dialogo “La decadenza della menzogna”, originariamente apparso sulla rivista “The Nineteenth Century” nel gennaio 1889, fiero manifesto dell'indipendenza dell'arte. A parlare sono due personaggi che hanno i nomi dei figli di Wilde, Cyril e Vivian. Vivian somiglia molto al papà, quando ribadisce che «l'Arte è la nostra vibrante protesta, il nostro valoroso tentativo di far stare la Natura al proprio posto»; più ancora, quando esalta la menzogna «come arte, scienza e piacere sociale» di dire «cose belle non vere», ribadendo la sua fede nella menzogna per la menzogna e nella sua massima espressione, la menzogna nell'arte, e infine quando insegna che è la Vita a imitare l'Arte, e non viceversa: non a caso «la letteratura anticipa sempre la vita. Non la copia, ma la modella al suo scopo». Dubito possiate non essere d'accordo, ma nel caso sia successo tenete presente quanto scriveva Jorge Luis Borges, qualche anno fa: «Wilde è tra i fortunati scrittori che possono fare a meno dell'approvazione dei critici, e, a volte, persino dell'approvazione del lettore. Il piacere che traiamo dalla sua compagnia è irresistibile e costante». Già, e niente può mutarlo, col passare delle generazioni.
Un'ultima annotazione, a margine. Completano l'edizione Piano B una serie di massime e aforismi già apprezzati nell'edizione Bur della “Decadenza della menzogna e altri saggi”, pubblicata nel 1995 e ristampata nel 2000, a cura di Marcella Dallatorre e con un'introduzione di Franco Buffoni, oggi irreperibile.
EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE
Oscar Fingal O’Flahertie Wills Wilde (Dublin, 1856 – Paris, 1900), scrittore, poeta, critico letterario, commediografo ed esteta irlandese.
Oscar Wilde, “La disciplina del dandy”, Piano B, Prato, 2010. Traduzione di Andrea Roveda. Collana “Elementi”.
Prima edizione: “Personal Impressions of America”, postumo, 1921; “The Decay of Lying”, 1889; “The Soul of Man under Socialism”, 1891; “A Few Maxims For The Instruction Of The Over-Educated”, 1894; “Phrases and Philosophies for the Use of the Young”, 1894; “A Preface to the Picture of Dorian Gray”, 1890.
Gianfranco Franchi, dicembre 2010.
Prima pubblicazione: Lankelot.