Einaudi
2004
9788806170622
“Me ne andai in bagno a radermi. La faccia nello specchio mi pareva quella di un lunatico in fuga. Le giornate non portavano più pace, ma squallore: ecco le venuzze negli occhi, un principio di guancia pendula. Lanciai un’occhiata al letto sfatto su cui ci eravamo stesi per il nostro amore ormai guasto, ai cuscini stazzonati, alle lenzuola stropicciate. Mi ricordai di averle viste esattamente così nella camera da letto dei miei genitori quando avevo sette anni, e ricordai di avere odiato mio padre, il lezzo stantio del suo sigaro, e i suoi pantaloni da lavoro grottescamente buttati sul pavimento, e ricordai di aver provato il desiderio di ucciderlo” (Uno, pp. 20-21).
È il romanzo della nostalgia, in senso etimologico – e cioè del “dolore del ritorno” – per l’altro alter ego del creatore di Bandini, Henry Molise. “La confraternita dell’uva” non è estraneo alla drammaticità, e non è tuttavia un libro tragico: strappa sorrisi con la stessa facilità con cui precipita nell’amarezza. Perché il ritorno a San Elmo, California, è per il maturo scrittore italoamericano l’ultima occasione per confrontarsi con il padre, e per capirlo: è un’improvvisa restituzione alle prospettive e alla dimensione dell’adolescenza e della giovinezza; quelle prospettive e quella dimensione che erano sfumate quando aveva assunto consapevolezza di se stesso: “Sì, me ne andai. Lo feci prima ancora di compiere vent’anni. Furono gli scrittori a portarmi via. London, Dreiser, Sherwood Anderson, Thomas Wolfe, Hemingway, Fitzgerald, Silone, Hamsun, Steinbeck. In trappola, barricato contro il buio e la solitudine della valle, me ne stavo lì coi libri della biblioteca pubblica impilati sul tavolo da cucina, solo, ad ascoltare il richiamo delle voci dei libri, con la brama di altre città” (Otto, p. 79).
Ed era rimasto un dago, o un wop: un dago intellettuale, un wop scrittore – qualcosa di incomprensibile per l’aristocrazia razzista wasp d’una nazione che giudicava gli italiani “creature di sangue africano”, col serramanico a portata di mano e la tragedia d’una patria distante caduta “ormai nelle grinfie della Mafia”. Henry Molise era ancora un emigrante italiano, e tuttavia era un emigrante italiano della seconda generazione: come i suoi fratelli, aveva avuto discreta fortuna nell’ambientazione nel tessuto sociale statunitense, deludendo i sogni e le aspettative d’un padre che li sognava ferventi cattolici e splendidi muratori. Nick Molise è un vecchio pater familias, figlio del conservatorismo italiano e del più gretto provincialismo di certe nostre terre. Orgoglioso e fiero dei suoi talenti di artigiano e di scalpellino, autoritario e rigido in famiglia, non insensibile al fascino delle donne e dell’alcool: e tuttavia uncinato al suo primo e unico matrimonio, dopo cinquantuno anni. Maria è una santa madre italiana, tutta cucina e tolleranza delle stravaganze e delle irregolarità del capriccioso marito: quattro figli, infinita pazienza, accettazione di qualche violenza in casa.
Al principio delle vicende narrate, Henry viene contattato da uno dei fratelli, Mario, perché sembra proprio che stavolta il divorzio tra i genitori sia a un passo. C’è stata qualche scenata di gelosia della madre, una violenza di troppo, un arresto del padre finito in farsa; il puttaniere, aggressivo e sempre sbronzo, vantava l’amicizia del capo della polizia di San Elmo. Un altro dago, un mezzo italiano. Henry sa che Nick non li ha mai amati, quei suoi figli. Era un padre ingombrante e opprimente: “giudice, giuria e carnefice” (p. 26). Disprezzava tutto, eccetto le donne. Amava il gioco, forse per “furore nei confronti del mondo” (p. 29): scialacquava, dissipava, crapulava. Assieme agli altri paesani italiani, al Cafè Roma. Da sempre. “Erano una ghenga di strambi, irascibili, duri individui da previdenza sociale: gente ringhiosa, frontale, vecchi bastardi maligni e aspri, che però se la spassavano col loro spirito crudele e i modi profani del loro cameratismo. Non filosofi, non vecchi oracoli che si pronunciavano dalle profondità della loro esperienza della vita; ma soltanto vecchi che ammazzavano il tempo, in attesa che l’orologio si scaricasse. Mio padre era uno di loro” (Sei, p. 52).
Nick Molise ha pregiudicato il futuro del figlio Mario, talento del baseball soffocato dalle diverse ambizioni dell’autorità paterna: tende a corrodere l’immagine e la rispettabilità dell’altro maschio, Virgil, dirigente di banca; non ha mai saputo, infine, dialogare con Stella, scontenta della sua condotta. Ha sempre preferito Henry, primogenito bruciato dall’adorabile dannazione della scrittura; e stavolta, prima dell’ultimo viaggio, gli proporrà d’essere quello che mai è stato. Un muratore, al suo fianco. Per edificare una casetta di pietra, niente finestre, una porta. Dapprima Henry rifiuta, e quella roccia di Nick si ritrova a piangere. Il violento tiranno di sangue abruzzese e cultura incredibilmente paesana e italiana ammette debolezza di fronte a quel figlio artista, che nessuno sembra capire: è l’annuncio di una progressiva corrosione della sua aura mitica e leggendaria, di uomo forte e indistruttibile, cui ogni vizio era concesso.
Lo scontro tra la prima generazione di emigranti e la seconda è evidente. Non sono muratori o falegnami o piccoli artigiani, e non sono cattolici praticanti. Tendono a figliare con la stessa prolificità, ma progressivamente vanno americanizzandosi, non solo nell’estetica e nella Weltanschauung; a volte sembrano vergognarsi delle loro radici, poi d’un tratto le rivendicano. Il conflitto tra padre e figli è netto, e conosce momenti grotteschi e altri di grande tenerezza, e vera intensità.
Fante sintetizza, in questo romanzo, non soltanto memorie d’infanzia e d’adolescenza: va scolpendo definitivamente il monumento all’emigrante italiano che fu, e che la nostra letteratura ha colpevolmente dimenticato o rimosso. Quasi fosse uno stimma, o qualcosa di cui doversi vergognare: leggendo i libri dell’artista di Denver conosciamo e ritroviamo quel popolo che oggi sembra non sia esistito mai. Antiche tradizioni, vecchie visioni del mondo, vezzi e contrasti di quel che fummo: con grande dignità, a dispetto dell’ipocrisia, delle sregolatezze, delle volgarità e delle violenze, che qui tracimano con insopportabile naturalezza nell’ambiente famigliare. Con una umanità impeccabile, e commovente. Italiana, sì.
A proposito della seconda saga di Fante, quella della famiglia Molise, spiega Trevi in “John Fante: la vita, i libri”: “Appartengono a questo nuovo «ciclo», meno organico forse di quello di Bandini ma non meno felice dal punto di vista stilistico e narrativo, sia Un anno terribile, che rappresenta un ritorno alle memorie e alle atmosfere dell’infanzia in Colorado di 'Aspetta primavera, Bandini', sia 'Il mio cane stupido', che invece potrebbe essere considerato una continuazione del filo autobiografico-familiare di 'Full of Life': ma con molta più amarezza, sentimento della fine che incombe, senso della verità umana (…)”. Infine, questo “La confraternita dell’uva, del 1977, tardivo «monumento» alla memoria del padre Nick” (p. XXVI).
EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE
John Fante (Denver, Colorado, 1909 – Los Angeles, California, 1983), narratore e sceneggiatore americano d’origine italiana.
John Fante, “La confraternita dell’uva”, Einaudi, Torino 2004. Traduzione di Emanuele Trevi. Prefazione di Vinicio Capossela.
Prima edizione: “The Brotherhood of the Grape”: a puntate, nel settimanale “City Magazine” di Francis Ford Coppola, nel 1975. Titoli scartati: “The Last Supper” e “Our Father Who”.
Gianfranco Franchi, “Lankelot”. Gennaio 2005.
A Paul Mask. Thanks.