La città

La città Book Cover La città
Giovanni Boine
Via del Vento
1994

Riscopriamo “La città”, originariamente apparso nel maggio 1912 sulla rivista “Riviera Ligure” dei Novaro, “primo contributo del venticinquenne Boine” - scrive la curatrice, Maura Del Serra - “alla rivista-princeps della ligusticità letteraria novecentesca”. Il testo, sino al 1994 difficilmente reperibile, come tutta l'opera di Boine (“ha goduto di fortuna editoriale sporadica e distratta”), è, secondo la Del Serra, il luogo in cui Boine disegna “a tinte gotico-fauves il ritratto lirico-espressionistico del microcosmo provinciale di Porto Maurizio, sua odiosamata 'siepe' ed osservatorio critico”.

È un gran modello di prosa lirica, febbrile e trascinante, fondato su una discreta terza persona – necessaria forse per prendere le distanze dall'esperienza individuale dell'artista, non per schermarla. L'incipit racconta d'un viandante che a un tratto sente, per tutto il corpo, “un impeto duro e come un urlo dentro”; quell'urlo ammonisce e ripete che tutto si sfascia, niente dura. Il viandante s'imbosca nella folla, fingendo che nulla sia accaduto. Intanto, ha paura d'esser pazzo. Va, cammina e medita, e a un tratto è rapito da uno “stupore inquieto, uno sbigottimento pauroso”; è la voglia di prendere e fuggire. Questo stato dura per mesi.

Il viandante è un forestiero, nuovo del paese, malato di senso di sfacelo; viene da una città grande, e in questa cittadina piccola trova che ogni cosa sia “misurata dalla sua natural misura: qui gli uomini sono animali di carne così e così fatti, non riflessi caldi, non generatori vivi di idee. Qui gli uomini sono piccoli animali voraci, con piccoli bisogni, con piccolo orizzonte, animali ingordi con ciascuno una tana e venti metri intorno […]” (p. 7).

Soffre per l'individualismo e l'assenza di cultura della cittadinanza; per la loro estraneità al senso civico; per la loro nulla idealità; per la loro religione vissuta da ipocriti, come una mascherata. Fustiga la bassezza della loro vita materialista e sciatta. Riconosce in tutto putrefazione:

“La putrefazione era nelle cose, era in questa parvenza di cose, di istituti, di uomini che non avevano realtà, ch'eran parvenze, che non avevan più ragione di essere, ch'eran carname residuo e mosso meccanicamente, carname residuo di uno spirito non più attivo come le macerie ammucchiate di un gran monumento crollato” (p. 12).

Scopre quindi che in paese c'è un santo, uno che – con la sua sola esistenza – va controbilanciando le colpe degli altri. Uno che prega come “facendo una cosa”: intensamente, realmente. Uno che insegna a tollerare il male e ad amare Dio, e il creato. Egli è l'equilibrio. Quando quel santo muore, “Smarrimento. Ora veramente ogni cosa era sconvolta. Smarrimento accasciato. E la città viveva; e la città senza scomporsi scorreva la sua placida vita di carne. Fu il tracollo” (p. 16).

Fu il tracollo per il viandante forestiero, che non leggeva più ordine né razionalità in niente. “E si ridusse passivo come un uomo che dinanzi alla violenza si accosci ed aspetti. Aspettava, aspettò; lo spirito, ogni attività nello spirito accosciata e passiva. Ed il mondo ventava dinanzi come la follia violenta” (p. 18). Riesce infine a farsi vuoto, a tornare elementare, e la città entra dentro di lui, inerte, così com'era: “barbaricamente viva”. Non più giudicata, e vivente. Piena e certa di sé, scrive Boine, come se ogni cosa in essa fosse fondata su una sicura legittimità secolare. L'illuminazione, infine, è che la città è come un “canoro-mostruoso alveare”. La cera è fermentazione umidiccia di carni e di anime.

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Boine tracima, in questo elegante e raro scritto, restituito ai contemporanei dalle meritevoli edizioni Via del Vento di Fabrizio Zollo, di amore e di rabbia per il presente, e per la decadenza e la fatiscenza culturale e spirituale della nazione. L'eccezionale attualità della “Città” del poeta dei “Frantumi”, che sembra discendere dritta dritta dal paradigma della Cristiania del grande Knut Hamsun di “Fame”, è testimonianza d'una ciclicità inesorabile che grava sul destino di questa nostra piccola nazione dalla grande e lontana storia antica, ferita periodicamente dalla consapevolezza d'un ingiusto e ingeneroso paragone col suo passato, ormai leggendario. Tanto leggendario che forse ha ragione Giordano Bruno Guerri, nella sua “Antistoria degli italiani”, a dire che non veniamo dai padri latini, ma da un'infausta combinazione di Romani e Barbari: su queste due componenti si fondò la nostra nuova anima, celebre “non più per i successi militari e l'efficienza amministrativa ma per le capacità mercantili e artistiche, lo spirito di avventura, la faziosità innata, la disonestà cronica, la caratteristica di privatizzare il pubblico e pubblicizzare il privato”, e via dicendo. Boine d'altra parte questo osservava, raccontando una città fatta di operose – non oneste, perché di nulla etica – api, ossessionate dal lavoro, dalla centralità del guadagno, dall'essenzialità del profitto. Spirituali come una bistecca ben cotta, ideali come un telefono rotto.

Grazie al cielo, ogni tanto il destino ci regala un poeta in grado di leggere, distruggere e correggere quel che siamo, quel che è. Ci consoliamo con il suo canto, sognando che possa guarire. Guarirci. Sin qua: invano.

EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE

Giovanni Boine (Finalmarina, Savona 1887 – Porto Maurizio, 1917), scrittore e critico italiano.

Giovanni Boine, “La città”, Via del Vento, Pistoia 1994. A cura di Maura Del Serra. Tiratura limitata 1500 copie. La mia è la numero 736.

Prima edizione: maggio 1912, nella rivista “Riviera Ligure” dei Novaro.

Gianfranco Franchi, aprile 2010.

Prima pubblicazione: Lankelot.